Mi perdonerà il lettore se ogni tanto mi lascio scivolare lungo i declivi di facili filosofie. Freno più che posso per non precipitare nel tono di pretenziosa gravità, che è, a mio avviso, il peggior nemico di una convivenza pacifica. Preferisco questa corda complice, tra cronista e lettore che la vita un po’ la conoscono e, proprio per questo, non si prendono troppo sul serio.
Ciò viene a proposito, anche se non sembra, della scossa di terremoto che ha spaventato tutti e qualcuno lo ha ucciso. Ci sono rovine, piccoli avvisi di quel che avrebbe potuto essere. E qui cadrebbe a fagiolo la risaputa aria sulla precarietà della vita umana, sulla fragilità di questo mondo, l’allusione fatalista al vecchissimo Salomone: "Vanità delle vanità...", ecc., ecc. Non ne vale la pena. Conoscevamo già tutto prima, anche quando sembrava che non ce lo ricordassimo. Nel profondo sappiamo che la vita (questa nostra vita) è, come si dice correntemente, appesa a un filo. Ma poi i giorni passano, passano gli anni, la terra obbediente fa il suo giro e noi finiamo col credere di aver afferrato qualche briciola dei manicaretti dell’eternità. È questo che ci aiuta: così, andiamo facendo progetti per il domani, per l’estate ancora lontana.
Fino a che venti o trenta secondi di scosse (e che sono trenta secondi?) ci mostrano quanto poco significhiamo. Qualche milione di animali spaventati, con l’anima tremante come il mondo che ci sfugge sotto i piedi. Tutto finirà, sta finendo, ormai è finito. Ma la terra torna alla serenità, si finge solida e sicura, giovinetta di buone maniere, e allora quell’irresistibile desiderio di continuare a vivere raccoglie i pezzi (i nostri e quelli delle cose) e li ricompone, gli dà senso e persistenza. Abbiamo vinto la partita: non abbiamo sconfitto il terremoto, ma abbiamo sconfitto la paura, non le abbiamo permesso di mettere radici nell’animo che si è spaventato - e che si spaventerà ancora.
Non so che cosa unisca di più, se le grandi catastrofi o le grandi gioie. Le catastrofi sono una buona marea per far venire a galla l’istinto di conservazione, l’egoismo istintivo (le gioie, a pensarci bene, hanno anch’esse i loro peccati). Ma almeno, dopo una catastrofe, quando ci ritroviamo alla luce del giorno, ancora non del tutto ripresi dallo spavento, forse vergognosi delle fughe dissennate, della ferocia del "si salvi chi può" - ci guardiamo l’un l’altro negli occhi e ci vediamo uguali, un po’ fratelli e amici. Perciò parliamo tanto di quel che ci è accaduto, con questo, con quello, con lo sconosciuto che ci è capitato davanti per caso. C’è un bisogno impellente di abbandonarci, di comunicare, come se tutti insieme acquistassimo forza per far fronte a quel che ancora potrebbe succedere.
Tutti insieme - ecco il fiore di questo piccolo arbusto che è la cronaca. Di colpo, le persone vogliono delle soluzioni, si afferra il terremoto con entrambe le mani, virilmente. Stavolta è così. Non abbiamo vinto la paura, ma abbiamo guadagnato solidarietà. Siamo un blocco saldo, senza crepe. Un progetto in atto che ha fatto marcia indietro e si è installato nel giorno di oggi. Non siamo in salvo da una catastrofe futura (nessuno lo è), ma abbiamo imparato la lezione: ora tutto sarà fatto per proteggere tutti. Potremo restare sepolti sotto le macerie, ma non per incuria, non per indifferenza. Avremo fatto tutto quello che era alla portata delle nostre piccole forze umane.
Mi perdonerà il lettore se mi son lasciato scivolare lungo il declivio delle utopie. L’uomo ha la memoria corta. Una giornata di sole basta per far dimenticare tutto, il pavimento solido della strada smentisce la paura. Ciascuno per sé, nessuno per tutti, e il vicino ha una faccia sgradevole che decisamente non quadra con le mie esigenze.
Fino al prossimo terremoto.
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