La storia è un lungo processo, un lento concatenarsi di cause ed effetti, in cui è sempre difficile definire stacchi, momenti di inizio o di fine: la rivoluzione francese non cominciò certo il 14 luglio 1789 con la presa della Bastiglia, così come la seconda guerra mondiale non è cominciata il 1 settembre 1939 con l'occupazione di Danzica; allo stesso modo il giorno in cui è caduto il muro di Berlino non è il giorno in cui sono crollati i regimi comunisti dell'Europa orientale e potremmo fare molti altri esempi. Eppure il racconto della storia ha bisogno di eventi come quelli che ho appena ricordato, di fatti che nella loro drammaticità e unicità segnino questi momenti di passaggio. Comunque la pensiamo su quello che è avvenuto lo scorso 2 maggio ad Abbottabad, la morte di Osama bin Laden è uno di questi eventi.
Voglio fare qualche riflessione sulla morte di bin Laden; sono pensieri non ancora del tutto "sistemati" e forse richiederanno un aggiornamento o un ripensamento tra qualche giorno, o tra qualche settimana, ma mi sembra comunque giusto condividerli con i miei sparuti lettori.
Credo che fosse inevitabile che bin Laden morisse, penso ne fosse consapevole lui per primo, come certamente ne era convinto Barack Obama, quando ha dato l'ordine di ucciderlo. Personalmente ritengo che Obama non abbia mai pensato di catturare bin Laden vivo. Questa opzione non è mai stata davvero messa in conto e forse quello che adesso non si può vedere è proprio questo: la prova che Osama è stato condannato a morte e giustiziato, in maniera irrituale e senza possibili alternative. Non so quanto nella decisione di Obama abbia pesato il calcolo in vista delle prossime elezioni presidenziali o quanto la paura di nuovi attentati nell'imminenza del decimo anniversario dell'attentato contro le Twin towers, ma immagino che abbia avuto ben presente che la cattura, un periodo più o meno lungo di detenzione, il processo, la condanna, la punizione sarebbero stati ben più difficili da entrare nella storia piuttosto che la morte di bin Laden da parte di un manipolo di coraggiosi. Il Presidente degli Stati Uniti, quando è un intellettuale come Obama, deve anche pensare a come viene e verrà raccontata la storia, a completare una narrazione; bin Laden ha voluto entrare nella storia con un atto simbolico, ne è uscito in modo altrettanto simbolico. E dato che - come dice un adagio spesso citato - la storia la scrivono i vincitori, la morte di bin Laden diventa anche in qualche modo giusta, seppur non legale. Ed è anche comprensibile la soddisfazione: personalmente penso che la morte di bin Laden sia stata lecita e sono contento che ci siamo arrivati. Come penso sia necessario arrivare anche a quella di Gheddafi, se vogliamo davvero liberare il popolo libico. Poi credo siano sbagliati i caroselli di auto, le bottiglie stappate, le sfilate: della morte di un nemico si è soddisfatti, ma non la si festeggia.
Può sembrare un paradosso, ma io credo che l'inizio della sconfitta di bin Laden sia stato proprio l'11 settembre. Fino a dieci anni fa Osama bin Laden era un uomo molto potente; grazie ai suoi enormi mezzi finanziari aveva un forte controllo su uno stato in crisi e profondamente corrotto come l'Afghanistan e tesseva una rete sempre più fitta di rapporti in Pakistan, dove evidentemente continuava a godere di buoni uffici, se poteva vivere al centro di una città abitata per lo più da militari, a pochi chilometri dalla capitale. Oltre ai propri cospicui mezzi personali, gestiva immense sovvenzioni finanziarie che gli arrivavano, anche da canali ufficiali, dall'Arabia Saudita e da altri Stati del Golfo; bin Laden gestiva una rete di operazioni bancarie e di riciclaggio di denaro sporco. Lavorava per favorire la diffusione delle madrasse per proclamare l'idea della guerra santa dall'Indonesia a Londra, e aveva fatto nascere molti campi di addestramento per futuri terroristi. Dopo l'11 settembre il suo potere è oggettivamente venuto meno, i soldi hanno cominciato a calare, eliminate drasticamente le sovvenzioni saudite, il suo messaggio si è progressivamente appannato, anche perché non è riuscito a rispondere alle domande che covavano nei cuori dei giovani che vivono dal Marocco all'Egitto, dalla Palestina al Golgo persico, dal monti dell'Anatolia al Pakistan: non è riuscito a dare una risposta alla domanda di futuro che è emersa impetuosa nelle rivolte arabe delle scorse settimane. I giovani che sono scesi in piazza hanno detto chiaramente che non volevano più i regimi corrotti e antidemocratici imposti dai paesi occidentali per contenere l'influenza islamista, ma con altrettanta chiarezza non hanno inneggiato a Osama e alla guerra santa. Il velo si è squarciato e all'improvviso bin Laden è apparso come un uomo di un mondo vecchio, come lo erano Mubarak e Gheddafi, come lo sono ancora gli anacronistici emiri sauditi: vecchi che non sanno parlare a un mondo fatto di milioni di giovani.
Morto finalmente - e giustamente - Osama, adesso è il tempo della politica. E la politica è molto più complicata e difficile che un raid notturno contro un palazzo nella periferia di una città pachistana. Sbagliare una mossa rischia non di bloccare il processo, che ormai si è messo in moto, ma di deviarlo, di rallentarlo, di costringerlo a fare passi indietro. Non sbagliare significa rispondere a quella domanda di futuro a cui, fortunatamente, non ha saputo rispondere Osama.
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