Quarant'anni sono un periodo di tempo piuttosto breve - tanto più per me che ora di anni ne ho ormai 42. Al di là di questo dato anagrafico non fondamentale, proviamo a ricordare come erano questi cinque paesi nel 1970. La situazione era completamente diversa e il mondo si divideva in maniera piuttosto netta tra chi stava con gli Stati Uniti e chi con l'Unione Sovietica, secondo una rappresentazione geopolitica uscita direttamente dalla fine della seconda guerra mondiale e dagli accordi di pace tra le potenze vincitrici. Brasile e Sudafrica erano senza dubbio nella sfera di influenza americana, mentre l'India, pur essendo tra i fondatori dei cosiddetti "paesi non allineati", guardava con maggior simpatia verso l'Unione Sovietica; la Cina era un regime comunista e quindi, pur essendo in qualche modo in competizione con il potente vicino, era d'ufficio inserito nella sfera sovietica. Dal punto di vista istituzionale, in questi quarant'anni Cina e India non hanno subito cambiamenti: sono rimasti rispettivamente un regime con un partito unico e una democrazia parlamentare. Naturalmente tra la Repubblica Popolare Cinese della rivoluzione culturale e la Cina di oggi ci sono differenze enormi - che credo siano evidenti a ciascuno di voi - ma la continuità del regime è un elemento altrettanto evidente. La differenza più vistosa tra il 1970 e oggi è il fatto che nel fatidico '89 è sparita l'Unione Sovietica: al suo posto sono nati diversi stati, di cui la Russia è il più grande e potente. Come noto solo in alcuni di questi stati ci sono oggi vere democrazie, simili a quelle dei vicini paesi europei; in Russia ad esempio c'è un regime formalmente democratico, ma il potere è di fatto concentrato nelle mani di un solo uomo, Vladimir Putin, che peraltro nella metà degli anni Settanta era un ufficiale del Kgb. In Brasile nel 1970 era al governo il generale Garrastazu Médici, la cui giunta militare è stata una delle più repressive negli anni della cosiddetta dittatura dei gorillas, che durò dal 1964 al 1984; attualmente è presidente del Brasile Dilma Rousseff, che nel '70 era in carcere perché era una guerrigliera socialista, che aveva partecipato alla lotta armata contro il regime. In Sudafrica c'era il regime segregazionista della minoranza afrikaner; nel '70 l'attuale presidente sudafricano, Jacob Zuma, era in carcere, per la sua attività politica nell'African National Congress, il partito dei neri, un'organizzazione che era considerata terrorista anche dal governo degli Stati Uniti. Letto così, con soltanto queste poche notizie, il bilancio di questi quarant'anni è decisamente positivo e io credo, da uomo di sinistra, che dobbiamo essere felici di questi risultati che abbiamo raggiunto, che sono costati lotte, sacrifici personali e collettivi molto forti.
Eppure non possiamo fermarci qui. Nel nr. 943 di Internazionale è pubblicato un breve saggio che la scrittrice indiana Arundhati Roy ha scritto per il settimale Outlook; si intitola Capitalism. A ghost story; è un testo molto denso, che vi consiglio di leggere. L'analisi che Arundhati Roy fa della situazione indiana è molto interessante, anche perché questo paese, come abbiamo visto, è una repubblica dal 1950 ed è, con 1 miliardo e 173 milioni di abitanti, la più grande democrazia del mondo. Le cento persone più ricche possiedono l'equivalente di un quarto del pil dell'intero paese; 800 milioni di persone vivono con meno di venti rupie al giorno e le persone che si sono suicidate perché non erano in grado di pagare i debiti sono già 250mila. In questo blog ho dedicato diverse "considerazioni" all'India; ve ne segnalo tre che spero avrete il tempo di rileggere: la nr. 102 sullo sfruttamento delle miniere di bauxite nella zona di Niyamgiri, che mettono in crisi l'ecosistema di quella regione - che le tribù considerano sacro - e la stessa sopravvivenza di quelle popolazioni; la nr. 105 sulle donne che vivono facendo le madri surrogate per le coppie occidentali che non possono avere figli; la nr. 111 sui ragazzi che vivono e lavorano nelle grandi discariche di prodotti tecnologici che arrivano in India dagli Stati Uniti e dall'Europa. Si tratta di problemi particolari che offrono però un esauriente quadro d'insieme sulla situazione complessiva di quel paese.
Come spiega in maniera efficace Roy, "il rapporto tra crescita del pil e occupazione è un mito", tanto è vero che dopo vent'anni di costante crescita il tasso di disoccupazione è aumentato - siamo adesso al 10,8% - e sul totale della popolazione attiva il 90% si guadagna da vivere nel cosiddetto settore informale. Secondo la definizione degli economisti, il settore informale è tutta quella parte dell'economia che non è regolamentata da norme legali e contrattuali; si tratta di lavoratori formalmente indipendenti, ma che in effetti sono strettamente vincolati alle decisioni di quelli che li pagano e quindi sfruttati; sono lavoratori a domicilio, venditori ambulanti, collaboratori domestici, contadini senza terra e costretti a lavorare sulle terre di altri per sopravvivere.
Arundhati Roy spiega come lo sfruttamento passa attraverso la realizzazione di grandi opere, spesso di dubbia utilità; racconta il progetto del "corridoio industriale Delhi-Mumbai"; ne riporto un passo.
Dholera sarà collegata al corridoio industriale Delhi-Mumbai (Dmic), lungo 1.500 chilometri e largo trecento, con nove enormi zone industriali, una linea ferroviaria ad alta velocità, tre porti, sei aeroporti, un'autostrada a sei corsie e una centrale elettrica da quattromila megawatt. Questa speculazione nasce da un accordo tra i governi di India e Giappone, e tra i loro rispettivi partner privati, su un'idea del McKinsey global institute.La scrittrice indiana dedica gran parte del suo saggio a spiegare come il grande capitale riesce a influenzare la cultura, l'informazione, il sentire diffuso, in sostanza a plasmare l'opinione pubblica, e questo è probabilmente l'aspetto che più merita di essere approfondito e per questo vi rimando al testo che è chiaro e molto documentato.
Sul sito del Dmic si legge che il progetto "interesserà" circa 180 milioni di persone, ma non specifica in che modo. Si costruiranno nuove città e la popolazione passerà dagli attuali 231 milioni di abitanti a 314 milioni entro il 2019. In appena sette anni. Quand'è l'ultima volta che uno stato o un dittatore ha ordinato il trasferimento di milioni di persone?
A me interessa riflettere su un altro aspetto. Come dice giustamente Arundhati Roy i diritti umani - e aggiungo io, la stessa democrazia - "sono importanti, ma non sono la lente adatta per capire le grandi ingiustizie del mondo in cui viviamo". Luciano Gallino in un suo saggio recente dice che la guerra di classe c'è ancora, ma adesso è il capitalismo finanziario che attacca le residue conquiste ottenute dai lavoratori o che impedisce - come avviene in India - che alcuni diritti che a noi paiono scontati possano essere raggiunti in quel paese. In questi quarant'anni, come ho detto, c'è stato - e per fortuna - uno sviluppo della democrazia: un intero popolo, come è avvenuto in Sudafrica, ha avuto l'effettivo accesso al voto; in tanti paesi - ad esempio dell'America latina - siamo passati dalla dittatura alla democrazia; anche nell'Europa occidentale in questi ultimi quarant'anni sono finite le dittature portoghese, spagnola e greca; e poi c'è stato il movimento delle donne, che è stata la grande novità politica degli ultimi decenni del secolo scorso. Molte di queste conquiste però sono più formali che sostanziali, perché il potere effettivo è sempre più di un oligarchia vera e propria e sempre con le parole della Roy "mentre i miliardari fanno piroette sulla nostra testa, enormi quantità di denaro corrompono le istituzioni democratiche (i tribunali, il parlamento, i mezzi di informazione), che non funzionano più come dovrebbero".
Come ho avuto modo di scrivere altre volte, queste grandi ingiustizie che ci sono nel mondo aprono una grande prospettiva alla sinistra, che dovrebbe avere la capacità, l'intelligenza e la voglia di coglierle. Abbiamo perso qui - in Italia come negli altri paesi occidentali - tra i valori fondanti della sinistra, l'abitudine a volgere lo sguardo verso il mondo. Io sono convinto che se ricominceremo a guardare cosa avviene fuori dai nostri paesi - e oggi è anche più facile, viste le possibilità che ci offre la tecnologia - la sinistra potrebbe avere un'opportunità nuova, perché le cose che non vanno sono davvero troppe.
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