A detta di tutti, Monti è il vincitore del vertice e, come è noto, vox populi vox dei. Non so se è davvero così, ma dato che è stato rappresentato così, bisogna per forza tener conto di questo punto di partenza. L'idea di andare a votare è stata definitivamente accantonata, anche dai più riottosi membri del nuovo partito lepenista antieuropeo, e Monti ha guadagnato del tempo prezioso. Si voterà tra circa dieci mesi e in questo periodo il quadro politico si potrà riorganizzare con maggiore calma di quanto sarebbe successo con il voto ad ottobre. Dieci mesi sono un periodo piuttosto lungo e non è detto che l'anziano B. riesca a reggerli; personalmente penso che in autunno il nuovo partito lepenista si troverà necessariamente un nuovo leader, che possa affrontare la nuova e difficile campagna elettorale. In dieci mesi si potrà organizzare la nuova coalizione moderata tra Udc e Pd, benedetta da Napolitano e dal suo successore al Colle, il "miracoloso" e miracolato Mario Monti. La sedicente sinistra radicale italiana, ben diversa dalla greca Syriza, si accontenterà di un accordo di piccolo cabotaggio con i due partiti maggiori della coalizione. L'elettore italiano si troverà così di fronte all'alternativa - non entusiasmante - di votare o per una coalizione moderata e centrista o per un partito populista e nazionalista di destra; la scelta sarà particolarmente difficile per chi rimane, ostinatamente, di sinistra. Mi pare altrettanto evidente che questa triste alternativa lascerà una prateria allo scorrazzare di chi, da qui ad allora, riuscirà a "intestarsi" il marchio dell'antipolitica, visto che la "nuova" coalizione Casini-Bersani - l'ordine rifletterà il peso politico e culturale dei due leader all'interno dell'alleanza - farà molta fatica a presentarsi come il "nuovo che avanza". Sinceramente, per quanto mi sforzi, non capisco perché Bersani si sia infilato in questo cul-de-sac.
A Bruxelles, tedeschi e francesi hanno salvato Monti e Rajoy, anche a costo di far la figura di quelli che hanno perso, ma - come ho cercato di spiegare nella "considerazione" precedente - il rischio era troppo grave e non si poteva rimandare indietro Monti a mani vuote. Vedremo nei prossimi giorni cosa effettivamente ha portato a casa il nostro professore e quale sarà l'impatto delle decisioni della scorsa notte sull'economia europea. Nel merito delle decisioni vi rimando a questa breve, ma non superficiale - come sono stati in generale i resoconti da Bruxelles - analisi di Mauro Zani, che di cose europee un po' ne capisce e che, come è noto, è uso parlare con grande franchezza. In estrema sintesi: il cosiddetto "scudo antispread" è ancora tutto da costruire, perché non si è capito come funzionerà - in maniera automatica o su richiesta? - non si è capito con quali garanzie verranno dati i soldi - i funzionari della troika interverranno o no? - e soprattutto non si sa di preciso quanti sono questi soldi a disposizione.
In maniera immagino del tutto casuale, il vertice è iniziato il 28 giugno, data di una qualche rilevanza nella storia europea del secolo scorso. Infatti il 28 giugno 1919, dopo cinque mesi di trattative - anche se questo termine è piuttosto eufemistico, visto che i rappresentati tedeschi non ebbero praticamente diritto di parola - venne firmato il trattato di Versailles tra le potenze vincitrici della prima guerra mondiale e la Germania. Come è noto, John Maynard Keynes, membro presto dimissionario della delegazione inglese, disse che i governi alleati avevano imposto alla Germania una "pace cartaginese", deplorando il fatto che quei politici non avevano capito "che i problemi più gravi reclamanti la loro attenzione non erano politici o territoriali, ma finanziari ed economici, e che i pericoli del futuro non stavano in frontiere e sovranità, ma in cibo, carbone e trasporti". Cosa successe negli anni successivi, a causa della miopia di allora, è altrettanto noto: la crisi economica in Germania, la nascita del nazismo e la seconda guerra mondiale, con il carico di tragedie che si portò dietro. Anche se i leader europei riuniti a Bruxelles non si sono fortunatamente occupati di questioni territoriali - non ci sarà più in Europa una guerra per l'Alsazia-Lorena e questo è senza dubbio un passo avanti significativo nella storia del nostro piccolo continente - e si sono occupati essenzialmente di questioni economiche, anche se non di beni così materiali come cibo e carbone, la miopia dimostrata è tragicamente la stessa. E temo che le conseguenze possano essere altrettanto funeste. La Grecia sta sprofondando sotto i dettami della Bce e dei funzionari europei inviati a commissariare il paese. Ci sono stati tagli draconiani - mai come in questo caso è possibile usare questo aggettivo - negli stipendi, nelle pensioni e nella sanità, nell'ordine rispettivamente di 48, 25 e 14 miliardi di euro; e il memorandum prevede ulteriori tagli. Il pil è sceso del 12,5% in tre anni, senza nessuna prospettiva di miglioramento, visto che un settore importante come il turismo ha subito solo quest'anno una perdita di oltre il 30%. La disoccupazione ha superato il 20%, quella giovanile il 50%. Le quattro banche più importanti del paese hanno visto sparire miliardi di depositi, migrati verso istituti di credito di paesi più solidi e, naturalmente, discreti. La Grecia brucia, ma questo paese e i suoi cittadini non sono sufficientemente vicini al centro dell'Europa da costringere i governi europei ad assumere decisioni tese a risolvere questi problemi. I possibili moti greci sono a distanza di sicurezza da Berlino. Cipro è ancora più piccola e lontana: potrà fallire senza che in Europa succeda nulla. Temo che potranno subire il destino greco anche Spagna e Italia prima che qualcuno si svegli. In fondo una parte rilevante dell'opinione pubblica tedesca pensa che i nostri guai ce li siamo cercati - e non hanno nemmeno tutti i torti. Il contagio però non si fermerà, ci vorrà forse qualche tempo, ma non saranno le decisioni prese nei giorni scorsi a Bruxelles a salvare i paesi dell'Europa del nord, i paesi forti, Germania compresa. Forse quando scenderanno in piazza i giovani disoccupati di Parigi e di Berlino potrebbe nascere una nuova consapevolezza tra i governanti europei, ma allora ci saranno già molte macerie e sulle macerie non è facile costruire. Il problema è che questi processi non saranno più governati da governi e parlamenti eletti, in qualche modo vicini alle folle che manifesteranno, ma dai cosiddetti mercati. Prima o poi però dovremo cominciare a renderci conto, anche semanticamente, che non possiamo continuare a usare questa impersonale parola: non possiamo continuare a dire i "mercati", come diciamo i "terremoti" e le "alluvioni", bisognerà chiamare per nome e cognome chi si sta arricchendo alle nostre spalle. Ostinatamente continuo a pensare che su questo ci sia spazio per una nuova politica della sinistra europea, che dovrà però ricominciare a usare alcune vecchie parole d'ordine, come redistribuzione. E perfino rivoluzione.
Forse non è inutile ricordare che l'embrione dell'idea di un'Europa federale nacque tra gli antifascisti in confino, in un momento in cui quell'idea sembrava davvero un'utopia. Se la sinistra europea perde questo fondamentale punto di riferimento sarà più debole nel confronto, che sarà aspro e difficile, con chi invece preferisce poter contare su paesi deboli. Così come non può perdere alcuni riferimenti fondanti, come quello della tutela del lavoro e dei lavoratori. Vorrà dire qualcosa se Monti ha fortissimamente voluto presentarsi a Bruxelles con in tasca l'approvazione della legge che rende un po' più semplice licenziare. Ancora una volta consolidamento della democrazia e rafforzamento dell'equità sociale devono andare di pari passo; ora stiamo arretrando in entrambi i versanti.
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