lunedì 18 febbraio 2013
da "La malora" di Beppe Fenoglio
Pioveva su tutte le langhe,
lassù a San Benedetto mio padre si pigliava la sua prima acqua
sottoterra. Era mancato nella notte di giovedì l’altro e lo seppellimmo
domenica, tra le due messe. Fortuna che il mio padrone m’aveva
anticipato tre marenghi, altrimenti in tutta casa nostra non c’era di
che pagare i preti e la cassa e il pranzo ai parenti. La pietra
gliel’avremmo messa più avanti, quando avessimo potuto tirare un po’ su
testa. Io ero ripartito la mattina di mercoledì, mia madre voleva
mettermi nel fagotto la mia parte dei vestiti di nostro padre, ma io le
dissi di schivarmeli, che li avrei presi alla prima licenza che mi
ridava Tobia. Ebbene, mentre facevo la mia strada a piedi, ero calmo,
sfogato, mio fratello Emilio che studiava da prete sarebbe stato
tranquillo e contento se m’avesse saputo così rassegnato dentro di me.
Ma il momento che dall’alto di Benevello vidi sulla langa bassa la cascina di Tobia la rassegnazione
mi scappò tutta. Avevo appena sotterrato mio padre e già andavo a
ripigliare in tutto e per tutto la mia vita grama, neanche la morte di
mio padre valeva a cambiarmi il destino. E allora potevo tagliare a
destra, arrivare a Belbo
e cercarvi un gorgo profondo abbastanza. Invece tirai dritto, perché
m’era subito venuta in mente mia madre che non ha mai avuto nessuna
fortuna, e mio fratello che se ne tornava in seminario con una condanna
come la mia. Mi fermai all’osteria di Manera, non tanto per riposarmi che per non arrivare al Pavaglione
ancora in tempo per vedermi dar del lavoro; perché avrei fatto qualche
gesto dei più brutti. Tobia e i suoi mi trattarono come un malato, ma
solo per un giorno, l’indomani Tobia mi rimise sotto e arrivato a scuro
mi sembrava di non aver mai lavorata una giornata come quella. Mi fece
bene. Un po’ come fa bene, quando hai lavorato tutta notte nella guazza a
incovonare,
non andartene a dormire ma invece rimetterti a tagliare al rosso del
sole. Come la mia famiglia sia scesa alla mira di mandare un figlio, me,
a servire lontano da casa, è un fatto che forse io sono ancora troppo
giovane per capirlo da me solo. I nostri padre e madre ci spiegavano i
loro affari non più di quanto ci avrebbero spiegato il modo che ci avevan
fatti nascere: senza mai una parola ci misero davanti il lavoro, il
mangiare, i quattro soldi della domenica e infine, per me, l’andare da
servitore. Non eravamo gli ultimi della nostra parentela e se la
facevano tutti abbastanza bene: chi aveva la censa, chi il macello
gentile, chi un bel pezzo di terra propria. L’abbiamo poi visto alla
sepoltura di nostro padre, arrivarono ciascuno con la bestia, e non uno a
piedi da poveretto. Dovevamo sentirci piuttosto forti se, quando io ero
sugli otto anni, i miei tirarono il colpo alla censa di San Benedetto.
La presero invece i Canonica, coi soldi che s’erano fatti imprestare da Norina
della posta. Nostro padre aveva troppa paura di far debiti, allora.
Adesso mi è chiaro che nostro padre aveva già staccata la mente dal
lavorare la terra e si vedeva già a battere con carro e cavallo i
mercati d’Alba e di Ceva per il fabbisogno della sua censa, e quando dovette invece richinarsi
alla terra, aveva perso molto di voglia e di costanza. Noialtri ragazzi
lavoravamo sempre come prima, anche se lui ci comandava e ci accudiva
meno, ma a mezzogiorno e a cena ci trovavamo davanti sempre più poca
polenta e quasi più niente robiola. E a Natale non vedemmo più i fichi
secchi e tanto meno i mandarini. Nostra madre raddoppiò la sua
lavorazione di formaggio fermentato, ma non ce ne lasciava toccare
neanche le briciole sull’orlo della conca. E quando seppe che a Niella
ne pagavano l’arbarella un soldo di più che al nostro paese, andò a
venderlo a Niella, e saputo poi che a Murazzano lo pagavano qualcosa meglio, si faceva due colline per andarlo a vendere lassù. Dimodoché
diventò in fretta come la sorella maggiore di nostro padre, sempre col
cuore in bocca, gli occhi o troppo lustri o troppo smorti, mai giusti,
in faccia tutta bianca con delle macchie rosse, come se a ogni momento
fosse appena arrivata dall’aver fatto di corsa l’erta da Belbo
a casa. Quando noi eravamo via, lei pregava e si parlava ad alta voce:
una volta che tornai un momento dalla terra, la presi che cagliava il
latte e si diceva: Avessi adesso quella figlia! – Diceva di nostra
sorella, nata dopo Stefano e morta prima che nascessi io, d’un male
nella testa. Si chiamava Giulia come nostra nonna di Monesiglio,
e a Stefano non so, ma a me e a Emilio non ci mancava. Però anche
allora io non sono mai passato davanti al camposanto guardando da
un’altra parte, come un padrone che passa davanti alla sua terra. Ci
andava male: lo diceva la misura del mangiare e il risparmio che
facevamo della legna, tanto che tutte le volte che vedevo nostra madre
tirar fuori dei soldi e contarli sulla mano per spenderli, io tremavo,
tremavo veramente, come se m’aspettassi di veder cascare la volta dopo
che le è stata tolta una pietra. Finì che nelle sere d’autunno e
d’inverno mandavamo Emilio alla cascina più prossima a farsi accendere
il lume, per avanzare lo zolfino. Io ci andai una volta sola, una sera
che Emilio aveva la febbre, e quelli del Monastero m’accesero il lume,
ma la vecchia mi disse: Va’, e di’ ai tuoi che un’altra volta veniamo
noi da voi col lume spento, e lo zolfino dovrete mettercelo voi. Nostro
padre vendette mezza la riva da legna e anche quel prato che avevamo
lungo Belbo,
ma il denaro di quelle vendite non ci fece pro, andò quasi tutto a
pagare le taglie e a far star bravi i Canonica che non ci togliessero il
credito alla censa. È allora che i nostri s’indebitarono con la vecchia
maestra Fresia di quelle cento lire che hanno poi scritto il destino di
mio fratello Emilio. Per chiedere la grazia di poter tirar su testa, un
anno nostra madre andò pellegrina al santuario della Madonna del
Deserto, che è lontano da noi, sopra un monte dietro il quale si può
dire che c’è subito il mare. Mi ricordo come adesso. Era un po’ che noi,
alzata la schiena, guardavamo la processione delle donne sulla strada
di Mombarcaro, quando esce di casa nostra madre, vestita da chiesa, e con un fagottino di roba mangiativa. Nostro padre le uscì appresso e le gridava: Vecchia bagascia, non mi vai mica via con quello stroppo di pelandracce?
Lei si voltò, ma senza fermarsi e solo per guardarlo negli occhi. E lui
sempre dietro, con un principio di corsa come per assicurarsi
d’acchiapparla. E nel mentre le diceva: Mi torni indietro fra chissà
quanti giorni con tutti i piedi gonfi e tutto il corpo stracco che per
una settimana non mi puoi più servire . Allora lei si fermò e gli disse:
Lasciami andare, Braida.
Sono sette anni che non esco da questa casa. Lasciami andare, che è per
la mia anima. L’anima vola! le gridò lui in faccia, ma poi le disse:
Donna con del buon tempo. Hai almeno lasciato preparato? Poté partire, e
dopo un po’ la vedemmo mischiarsi alla processione. Aveva un buon passo
e presto fu tra le prime, e non solo dal passo si vedeva che aveva
buona intenzione, ma anche perché non si voltava e non cercava compagne,
mentre tutte le altre andavano come per divertimento.
Tornò di notte, dopo quattro giorni, e la mattina si levò alla sua ora
di sempre e fece il suo lavoro di tutti i giorni. Ma non giovò, Dio non
fu mai con noi. Poi il re chiamò Stefano a soldato, andò alla leva e
tirò un numero basso. Nostro padre bestemmiò, nostra madre pianse, ma
Stefano lui era contento: lo sentii quella sera, che io ero in pastura
vicino a dove lui tutto nudo si lavava in Belbo,
gridare d’allegria, ma dei gridi selvaggi che misero paura a me e alle
pecore. Basta, stette a casa ancora due mesi, se ne andava al sabato coi
suoi soci coscritti a fare il giro delle osterie della nostra langa
e tornava solo nella notte del lunedì, ubriaco che dovevamo sbatterlo
nella stalla. E poi partì, una notte che noialtri due non fummo neanche
svegliati. Ci scriveva, e leggevamo che era in artiglieria e a Oneglia.
Di questa città io non sapevo altro che era in riva al mare, avrei
aspettato che venisse in licenza per domandargli qualche cosa sul mare.
Ma Stefano in licenza non veniva, mandò solo una sua fotografia, per
vederla bisognava entrare nella stanza dei vecchi, era là appesa a un
cordino in mezzo ai rametti d’ulivo e alle candele benedette. Una volta
ci scrisse che lui non era di quei soldati che sudano a far l’istruzione
e le marce, lui più furbo s’era messo da attendente a un ufficiale e
stava benone. Allora i nostri fecero prender la penna in mano a Emilio e
scrivere a Stefano che ci mandasse la deca se stava tanto bene. Da
quella lettera non ci scrisse più, da lui non vedemmo un centesimo e in
licenza non ci venne mai. Noi a casa non ce la facevamo a scalare uno
scudo dal debito con la maestra. Lo congedarono dopo ventun mesi, s’era
fatto più massiccio e più superbo, gli ci volle un mese buono per
riabituarsi al lavoro e ripigliarlo, adesso andava tutte le sere
all’osteria e tante notti rientrava ubriaco del vino che gli offrivano
in paga del suo raccontare. Con noialtri suoi fratelli sembrava che
crepasse a parlare un po’ del mare e di quei posti che aveva visto, ma
all’osteria il mazzo ce l’aveva sempre lui e parlava solo sempre di
donne forestiere che faceva schifo. S’era rimesso a lavorare con me
dietro le bestie che dei Emilio conduceva, ma io che avevo i bracci metà
suoi rendevo il doppio di lui sul lavoro, lui alzava la schiena ogni
cinque minuti e guardava sovente al passo della Bossola.
Tornato Stefano in famiglia, venne l’ora d’Emilio di partire: andò a
studiare da prete nel seminario di Alba. Avevamo potuto scalare sì e no
due scudi dal debito con la maestra, e lei trovandosi con un piede nella
tomba e senza nessuna necessità di riavere le sue cento lire, c’era
venuta una sera in casa a dire ai nostri che ci rimetteva il debito se
le mandavamo il nostro Emilio a farsi prete. Non solo ci rimetteva il
debito, ma ci passava uno scudo al mese per il suo mantenimento
in seminario e qualche altra lira l’avrebbe fatta sborsare al parroco.
Emilio non disse niente, come niente dissi io davanti a Tobia Rabino
che diventava mio padrone, i vecchi dissero di sì abbastanza in fretta.
Il motivo può anche aver offeso nostro Signore, ma però mio fratello
Emilio a fare il prete andava bene, prima di tutto perché Emilio era
buono, e quello che in chiesa ci stava di più e meglio, e poi a scuola
era il primo di tutto San Benedetto, e i miei, quando avevano qualche
cosa da chiedere al cielo, era lui che facevano pregare, perché era il
più innocente. E poi era di poche forze, cosa poteva fare senza penare
era solo stare davanti alle bestie. Partì per il seminario un sabato
mattina, sul biroccio
di Canonica che andava a fare il mercato ad Alba. Lo baciammo tutti
sulle guance, prima che montasse. Nostra madre piangeva, nostro padre le
dava dei nomi perché piangeva e le disse: O stupida, quando io ti
mancherò, cosa ti sogni di meglio che andare a star con lui dove sarà
parroco e fargli da perpetua? C’era Stefano, io che non mi capacitavo
che tra cinque minuti sarei stato sulla terra senza più Emilio vicino,
c’era la maestra Fresia che parlava italiano con Emilio. Il parroco non
c’era, ma Emilio era stato in canonica la vigilia a sentire come doveva
comportarsi in seminario i primi tempi. Canonica non si fidava a dare al
cavallo perché sentiva i pianti di nostra madre, le venne vicino la
maestra e le disse: Melina, ma pensate alla consolazione
di quando dirà la sua prima messa. E voi sarete la prima a ricevere la
sua ostia . Poi nostro padre fece un segno a Canonica e partirono. Non
ci avrei creduto chi m’avesse detto che l’avrei rivisto prima che fosse
passato l’anno, e proprio in Alba, dove sarei andato col mio padrone
Tobia. A me toccò che andavo per i diciassette anni e a dispetto della
carestia di casa nostra pesavo sette miria, ero tanto grosso d’ossa.
Quando mi misi a dormire quella notte, sapevo che l’indomani nostro
padre sarebbe andato al mercato di Niella, ma da solo, sicché mi diede
uno scrollone la sua voce nello scuro della prima mattina: Agostino,
levati e vestiti da chiesa . Non dirò sicuramente che fu un presentimento:
tutto capitò come se io fossi un agnello in tempo di Pasqua. Andare ai
mercati mi piaceva, ed è a un mercato che ho avuto la mia condanna. Non
successe subito, potei girare ben bene il mercato di Niella e
m’incrociai più d’una volta con l’uomo della bassa langa
che un’ora dopo m’avrebbe tastato le braccia e misurato a spanne la
schiena e contrattato poi con mio padre il mio valore. Disse Tobia Rabino:
Vi do per lui sette marenghi l’anno. E mio padre: Me lo pagate un
marengo per miria che pesa. Io pensavo solamente, in mezzo a tutte
quelle parole, che mia madre a casa lo sapeva ed era come se fosse li
con noi sul mercato di Niella. Mi sembrava che mio padre e Tobia
giocassero a gridare, e la voce più forte quella di mio padre. Si
toccarono la mano e Tobia disse ancora: Se mi contenta, gli regalerò un
paio di calzoni per ogni Natale che passa a casa mia. Ma non fateci
subito calcolo, non lo metto nei patti. E fatelo lavorare! gli gridò mio
padre, ma la sua non era crudeltà verso di me, ma solo una sfida a
quell’uomo della bassa langa a spezzare col lavoro la razza dei Braida. Partii per il Pavaglione una settimana dopo, a piedi, per la strada insegnatami da Tobia. Mi sentivo nelle vene sangue d’altri che avevano già servito.
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Caro Luca, sto traducendo La malora in olandese. Bel lavoro, no? Mi chiedevo cosa significa 'Donna con del buon tempo'? Me lo puoi spiegare tu?
RispondiEliminaGrazie! Pietha