Per affrontare questa "considerazione" debbo necessariamente partire dalla mia esperienza personale. I lettori di questo blog credo ormai sappiano che per molti anni ho fatto politica; i più "vecchi" di loro probabilmente ricordano che ho fatto l'assessore nel mio piccolo Comune, Granarolo dell'Emilia, alle porte di Bologna. Ne ho parlato - tra le altre - in questa "considerazione", in cui ho raccontato una delle cose che ho fatto di cui sono più fiero.
Oggi vorrei raccontarvi del modo in cui sono diventato assessore. Era la fine dell'89 e c'era ancora il Pci: nella primavera successiva si doveva votare per il rinnovo del consiglio comunale e i compagni di Granarolo decisero che era il momento di avviare una fase di radicale rinnovamento. Scelsero alcune persone - io ero il più giovane, nel '90 avevo vent'anni - per dare gambe a questo progetto. Sostanzialmente la scelta delle persone avvenne seguendo due criteri: i giovani dovevano appartenere a famiglie "conosciute", di vecchi compagni, e dovevano essere laureandi o laureati. Nessuno di questi due criteri era esplicitato, ma ripensandoci erano gli unici elementi che ci legavano. Erano criteri giusti per scegliere degli amministratori? Francamente non lo so, ma a quella generazione di compagni, fatta per lo più di operai e di contadini, che fino allora aveva ben amministrato il Comune sembrava la naturale prosecuzione di un percorso che per molti era quello delle loro famiglie. Io sono il primo Billi ad avere avuto l'opportunità di laurearsi, mentre mio nonno e mio padre sono cresciuti in campagna, in una famiglia contadina, avendo solo la possibilità di imparare a leggere e scrivere. E questa era un'esperienza comune per quelle famiglie. Insomma a questa generazione sembrava giusto che i nuovi, destinati a sostituirli, fossero più preparati, per quanto sempre "fedeli" alla linea. Probabilmente era una visione un po' ingenua, ma credo abbia dato risultati migliori di altri sistemi di selezione di gruppi dirigenti.
Ci candidarono e ci elessero. Vale la pena di ricordare che allora non c'era l'elezione diretta del sindaco e c'erano ancora le preferenze multiple. Il partito aveva preparato i biglietti con le "quartine" di nomi: in tutti i biglietti c'era il nome del capolista, ossia di quello che avremmo dovuto poi eleggere sindaco in consiglio; alcuni che avevano già fatto i consiglieri e il segretario del partito avevano qualche preferenza in più - e questo a noi sembrava naturale; poi c'eravamo noi "nuovi" con un po' preferenze e infine quelli che sapevano che non sarebbero entrati, se non per surroga nel corso del mandato. In questo sistema non c'era abbastanza democrazia? Forse, ma vorrei ricordare che queste "graduatorie" non erano definite da poche persone, ma in un percorso che coinvolgeva diversi compagni, persone autorevoli a cui gli altri delegavano con fiducia questo compito. Non erano certo le primarie, ma non era un percorso meno partecipato e comunque era molto legittimato e di conseguenza legittimante. Un'altra nota per i più giovani: la campagna elettorale la facevamo tutti insieme, nessuno di noi avrebbe potuto fare dei biglietti personali, con la propria singola preferenza; anzi se qualcuno lo avesse fatto, sarebbe stato giudicato molto negativamente. Forse questa rigidità vi può ricordare il Movimento Cinque stelle, ma era semplicemente il Pci di un piccolo Comune emiliano all'inizio degli anni novanta.
Fummo eletti, chi ci votò lo fece perché votava prima di tutto il partito e certamente chi ci diede la preferenza lo fece anche perché aveva stima dei nostri genitori, una stima che si erano guadagnati lavorando nel corso degli anni. Non mi vergogno a dire che ho cominciato a far politica perché "figlio di", anche se questo ha un significato molto diverso - come spero di essere riuscito a spiegare - da quello che ha assunto adesso questa espressione. Alcuni di noi furono nominati assessori, in una giunta monocolore, senza avere alcuna esperienza amministrativa. Non fu semplice; ci volle tempo - direi diversi mesi - per cominciare a prendere dimestichezza con la struttura amministrativa, che tra l'altro in quegli anni stava cambiando in maniera radicale, per l'introduzione di alcune leggi di riforma degli enti locali. E poi quelli furono anni complessi anche per la politica, con la fine del Pci e la nascita del Pds; di questo ho parlato in qualche altra "considerazione". La presenza di un sindaco e di alcuni assessori già esperti, che avevano già svolto quegli incarichi nel mandato precedente, attutì comunque un po' l'impatto, che certamente ci fu. Imparammo, più o meno bene; l'attuale sindaco di Granarolo - una donna che ha guidato con autorevolezza il Comune in questi ultimi anni, diventando un punto di riferimento anche per amministratori di altri Comuni - è una di quelle che cominciò con me nel '90.
Una breve parentesi. Alle elezioni successive il partito decise che avrei fatto il consigliere, ma non più l'assessore. Io mi rammaricai; pensavo di aver fatto bene e infatti ottenni un buon risultato in termini di preferenze, che stavolta mi ero "guadagnato". I compagni presero questa decisione perché pensavano - probabilmente con cognizione di causa - che la politica mi stesse allontanando troppo dall'obiettivo di laurearmi. Gliene sono ancora grato.
Ho raccontato questa storia perché le ultime elezioni hanno portato in parlamento, grazie al Movimento Cinque stelle, un gruppo consistente di deputati e di senatori, radicalmente diverso e nuovo rispetto a quelli che c'erano prima: l'età media dei deputati è di 32 anni; quasi un terzo di loro è ventenne e nessuno - mi pare - ha più di 40 anni. Le donne sono il 35% dei deputati e quasi il 50% dei senatori. Più dell'80% sono laureati, o
laureandi. Si tratta indubbiamente di un elemento fortemente positivo: per molti di loro quando si parlerà della condizione dei precari o della difficoltà di costruire una famiglia non sarà un sentito dire, un racconto fiabesco, ma un'esperienza concreta, vissuta sulla propria pelle. Il mio timore è che non saranno messi nelle condizioni di imparare, perché questa legislatura è destinata a finire presto.
C'è un altro aspetto però su cui vorrei soffermarmi. Questi "nuovi" giovani italiani, diventati in maniera un po' casuale deputati e senatori - non è detto che questa casualità non sia un modo altrettanto efficace di selezionare una classe dirigente, senz'altro pare offra risultati migliori dai meccanismi di cooptazione utilizzati in questi ultimi anni da tutti i partiti, Pd compreso - non so quanto rappresentino davvero i loro elettori. Credo sia questo il vero problema. Chi ha votato il Movimento Cinque stelle più o meno consapevolmente o chi ha semplicemente scelto Grillo perché è diverso da tutti gli altri fa parte di un elettorato molto ampio dal punto di vista numerico - come abbiamo visto con sorpresa lunedì sera - ma anche molto articolato da un punto di vista politico, culturale, sociale, anagrafico, professionale. Ho letto in questi giorni analisi assai interessanti che spiegano come il Movimento abbia raccolto, ad esempio in Veneto, una parte consistente del voto leghista - con le caratteristiche che abbiamo imparato a conoscere in questi anni - e in Piemonte invece un voto prevalentemente di sinistra, anche in polemica con la scelta delle amministrazioni di centrosinistra di quella regione, di andare avanti, nonostante tutto, con il progetto della Tav. Gli eletti Cinque stelle sono profondamente diversi dai loro elettori, o almeno ne rappresentano soltanto una parte. Non sarà semplice per loro rappresentare umori, istanze, anche semplici proteste di tutto questo popolo, coaugulatosi intorno a Grillo. E naturalmente - nonostante forse sia questa l'idea di Casaleggio - non potrà essere la rete lo strumento per tenere unito questo insieme magmatico, perché se è vero che questi eletti hanno dimestichezza con questi strumenti non è altrettanto vero per una parte consistente dei loro elettori, che infatti sono stati convinti attraverso strumenti di propaganda ben più tradizionali, come i comizi in piazza o la non-presenza del leader in televisione.
Torno alla mia esperienza personale, che credo comune anche ad altri che hanno fatto politica, in altri tempi, altri contesti e naturalmente altri partiti. Devi sentirti rappresentante di qualcuno e questi devono sentirsi rappresentati da te. Se non c'è questo legame forte il tuo ruolo perde senso. Il partito serviva a svolgere questa mediazione, spesso attraverso discussioni noiose, serate faticose passate nelle sezioni, incontri dalle modalità troppo liturgiche. Eppure anche questo era parte di quel percorso di formazione di cui ho cercato di parlare prima e che è un elemento essenziale di crescita politica e civile. Un percorso che è diventato purtroppo sempre più evanescente. La politica è diventata radicalmente altro: troppo spesso l'eletto si è considerato - e si considera - come il fortunato che ha vinto alla lotteria e che, una volta raggiunta la sua posizione, dedica tutto il suo impegno a pensare come sfruttarla al meglio. In tante parti d'Italia la politica probabilmente non è mai stata quella che io ho avuto la fortuna di conoscere e a cui ho cercato di dare un contributo e i partiti sono stati soltanto gli strumenti per far crescere e consolidare delle carriere e per far arricchire alcuni, che in altro modo non ci sarebbero mai riusciti. I casi sono perfino troppo noti per tornarci sopra. L'aumento del numero di astenuti e il successo di Grillo sono una risposta a questo modo di intendere i partiti. Nonostante il discredito di cui oggi i partiti godono - meritatamente - credo però che sia impossibile riattivare questi meccanismi di partecipazione politica senza i partiti, In questa contraddizione ci stiammo avvitando.
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