Se vivessi a Bologna, il prossimo 26 maggio voterei convintamente "A".
Per chi è di Bologna, non servono particolari spiegazioni: sapete di cosa si tratta e probabilmente, leggendo più o meno regolarmente queste "considerazioni", non vi stupirete di questa mia scelta. Per chi non è bolognese - ossia la gran maggioranza di voi, cari sparuti lettori - qualche informazione in più è doverosa. Il prossimo 26 maggio, mentre qui a Salsomaggiore voteremo per eleggere sindaco e consiglio comunale, i cittadini di Bologna saranno chiamati ad esprimersi su un referendum consultivo che, partito in sordina e confinato nel dibattito strettamente cittadino, è riuscito a ritagliarsi una qualche rilevanza nazionale. Questo referendum è stato promosso da alcuni partiti della sinistra, da una parte del sindacato e da alcune associazioni cittadine con l'obiettivo di interrompere il finanziamento comunale alle scuole materne paritarie. Per capire meglio la questione, bisogna fare un passo indietro. All'inizio degli anni novanta a Bologna e in molte altre realtà emiliano-romagnole le amministrazioni comunali del centrosinistra decisero di includere alcuni istituti privati nel sistema scolastico pubblico, in questo modo anche queste scuole potevano accedere ai finanziamenti regionali e comunali. In particolare il Comune di Bologna stipulò un accordo con la Fism, ossia la federazione delle scuole materne cattoliche, garantendo la convenzione per cinquanta classi, che in questi anni sono diventate più di settanta. Nel 2000 il sistema scolastico integrato - come si cominciò a chiamare - fu sancito a livello legislativo dal governo di centrosinistra. Oggettivamente questa decisione fu uno degli elementi che sancì, a livello locale prima e poi a quello nazionale, l'alleanza organica tra la sinistra riformista, erede del Pci, e una parte del cattolicesimo democratico italiano, in particolare quello che fino ad allora aveva fatto riferimento alla sinistra Dc. Non a caso questa esperienza si concretizzò a Bologna, la città di Romano Prodi. Quell'intesa, come noto, portò diversi frutti, alcuni buoni, altri marciti ancora prima di essere colti: fuor di metafora, l'Ulivo e il Pd.
I fronti si sono rapidamente definiti. Si è costituito il Comitato art. 33, che ha promosso la raccolta delle firme e sta gestendo in queste settimane la campagna elettorale. A sostenere l'opzione "A", ossia la fine dei finanziamenti, ci sono Sel, Rifondazione, quello che rimane dell'ex-partito di Antonio Di Pietro, la Fiom e la Flc, le chiese protestanti, associazioni varie e molti "sinistri sparsi"; e c'è anche il Movimento Cinque stelle. Nei giorni scorsi Stefano Rodotà ha scritto un breve articolo per sostenere le ragioni del referendum e del voto "A", richiamandosi in maniera inequivocabile ai principi costituzionali; ve ne consiglio naturalmente la lettura. A sostegno dell'opzione "B", ossia per il mantenimento dei finanziamenti, c'è uno schieramento decisamente maggioritario: il Comune ovviamente, l'ex-Pd - che in quella città, nonostante tutto, continua a essere forte - i partiti del centrodestra, la chiesa bolognese - al cui fianco è intervenuto anche il cardinal Bagnasco - i giornali cittadini, i sindacati - la Cisl in particolare è scatenata - Confindustria e le associzioni di categoria, Comunione e liberazione e tutto il mondo dell'associzionismo cattolico. Come è evidente si tratta, a parte la Cgil - che sulla questione cerca di barcamenarsi con scarso successo - del partito delle "larghe intese", ossia del vasto schieramento che sostiene il secondo governo Napolitano-Draghi. Il sindaco Merola stupidamente ha detto che il voto è un referendum sul Pd. E infatti il cattolico Prodi non si è ancora pronunciato; la cosa non stupisce chi sa quanto sia rancoroso e vendicativo l'uomo, che non è certo disposto a dimenticare lo "sgarro" della mancata elezione al Quirinale. La campagna per il "B" è un misto di opportunismo - molti si sono schierati così, perché così dice il partito che garantisce loro "il pane e le rose" - di buone intenzioni - qualche amico è sincero, conosce e ama davvero la scuola bolognese - di spirito di crociata. Al di là di queste note di colore, io avevo maturato la mia posizione già da qualche tempo, ma naturalmente la dichiarazione del sindaco mi ha tolto ogni dubbio: voterei contro l'ex-Pd anche in una riunione di condominio.
Al di là della mia posizione schiettamente politica anti-Napolitano, anti-Pd, anti-larghe intese, provo a motivare le ragioni della mia scelta, che nascono anche dalla mia personale esperienza politica, per quanto datata. Credo infatti che faccia un cattivo servizio - da ambo le parti - chi antepone le proprie convinzioni politiche e la polemica sull'attualità al merito della questione: al di là della tema costituzionale posto da Rodotà - che è sacrosanto a prescindere - provo a partire dai bambini e dai loro diritti. Io all'inizio degli anni Novanta facevo l'assessore alla pubblica istruzione nel Comune di Granarolo e il tema lì non si poneva, perché non c'erano scuole materne private e soprattutto perché il pubblico riusciva a soddisfare completamente la richiesta delle famiglie: sostanzialmente tutti i bambini in età potevano frequentare la scuola materna pubblica. Anzi nel mio comune di allora il problema era un po' diverso, perché c'erano quattro sezioni di scuola materna comunale e due sezioni di scuola materna statale, a cui se ne aggiunse una terza proprio nell'anno in cui divenni assessore. Da noi la discussione verteva piuttosto sull'opportunità di passare allo stato anche le nostre sezioni di scuola materna, perché era effettivamente pesante per un Comune di quelle dimensioni mantenere un servizio di quel genere. C'erano resistenze sia da parte del personale, che nel passaggio ci avrebbe un po' rimesso, sia soprattutto da parte delle famiglie, perché oggettivamente l'offerta educativa della scuola comunale era migliore di quella della statale, prima di tutto per il valore delle insegnanti, ma anche per una serie di scelte che erano state fatte negli anni. Ricordo che queste strutture erano nate, insieme agli asili nido, all'inizio degli anni Settanta, in una stagione ricca di fermenti politici, culturali e sociali; probabilmente questi servizi, insieme alla legge Basaglia, sono il frutto più solido e positivo di quella stagione di riforme. Per chi ci lavorava, ma anche per noi che facevamo gli amministratori - e in quel momento anche per le famiglie - c'era un elemento imprescindibile: asilo nido e scuola materna erano a tutti gli effetti "scuole" e come tali dovevano essere gestite. Ad esempio il Comune di Granarolo - ma cosa analoga avveniva in altre realtà, più grandi e più piccole - si avvaleva del lavoro di una coordinatrice pedagogica, cosa che non avveniva nella materna statale; successivamente, grazie ad un accordo con la direzione didattica - allora si chiamava così - il Comune, mettendoci proprie risorse, fece in modo che la coordinatrice comunale intervenisse anche nella programmazione della statale e le cose un po' migliorarono, almeno perché così c'era maggior uniformità nell'offerta pedagogica, ma le resistenze erano ancora forti da parte di quel personale.
Al di là della specifica vicenda di Granarolo, la logica che stava dietro al sistema integrato aveva dei punti che allora condividevo. Il pubblico - ossia l'amministrazione statale e i comuni - non riusciva da solo a garantire la creazione di nuove scuole materne, infatti sarebbero servite molte risorse per costruirne di nuove e per assumere nuovo personale; sul territorio esistevano già altre scuole materne, private, legate alle parrocchie, con strutture e personale, più o meno adeguati, in alcuni casi anche di buon livello. C'era poi un altro dato di fatto; per molte famiglie la scelta della scuola materna confessionale non era legata a una scelta educativa e religiosa - personalmente ho conosciuto pochissime famiglie che preferivano scuole confessionali a quelle pubbliche, anche quando il problema non era di natura economica, ossia quando potevano permettersi di pagare rette più alte rispetto a quelle della scuola pubblica - statale e comunale - che era comunque gratuita. Molti sceglievano la scuola paritaria semplicemente perché non c'era posto alla statale. Quindi il problema si spostava sul diritto dei bambini - e delle bambine ovviamente - di aver garantito un servizio il più possibile omogeneo e di qualità. In quella logica il finanziamento pubblico alle scuole private non era un semplice contributo, a "fondo perduto", ma veniva erogato nel momento in cui quella scuola, privata e confessionale, accettava di essere parte di quel sistema, ad esempio da un punto di vista pedagogico, pur mantenendo la propria identità culturale. Un aspetto importante, ad esempio, riguardava l'integrazione dei bambini stranieri, in un momento in cui il nostro territorio passava da un'immigrazione fatta di soli uomini a una composta di famiglie: non era infrequente che il figlio di una famiglia musulmana frequentasse una scuola materna cattolica e bisognava trovare la soluzione, pedagogica e culturale, al problema. In sostanza il sistema delle scuole materne, complessivamente inteso, doveva rafforzarsi e questo sarebbe stato un vantaggio per tutti i bambini. Questo sistema però presupponeva che l'elemento forte, trainante, dovesse essere comunque la scuola pubblica, con i suoi valori costituzionali ed educativi. Purtroppo non è quello che è avvenuto in questi anni e quel processo non è stato governato in questo modo. Anni di martellamento sul concetto che "privato è bene, pubblico è male" non sono passati invano, le scuole pubbliche, specialmente quelle rivolte all'infanzia, hanno goduto di sempre meno attenzione politica e di sempre minori finanziamenti. Gli asili nido e le scuole materne sono considerate sempre meno scuole e sempre più servizi sociali: è proprio l'opposto - come ho cercato di spiegare - dell'impostazione iniziale, per la quale altri hanno lottato e alcuni di noi hanno lavorato.
Mi pare che il ragionamento di chi propone il referendum parta da questo punto: mentre vengono ridotti i fondi alla scuola pubblica, che senso ha
continuare a garantire la stessa quota di finanziamento comunale per le
scuole private? Non sarebbe meglio destinare tutti i fondi
disponibili alla scuola pubblica? E questo deve necessariamente portarsi dietro una riflessione complessiva sul modello di scuola che vogliamo e di cui ha bisogno la nostra società. Io con questo spirito vorrei votare "A" domenica 26, consapevole però che sarebbe soltanto l'inizio di un cammino lungo e complicato. Per come la vedo io, questo referendum, al di là delle polemiche politiche di lunedì 27 su chi avrà vinto e chi avrà perso, e perfino al di là dei destini irrilevanti di Merola e del partito mal nato, dovrebbe servire a porre il tema della scuola all'attenzione del dibattito politico e sociale. Su questo purtroppo sono pessimista.
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