Vediamo però cosa succede nel resto dell'Europa, dove almeno non hanno avuto la sfortuna di avere il Pd, e quindi ci sono ancora dei partiti socialisti, per quanto malandati. L'unico grande paese europeo governato dai socialisti è la Francia, ma Hollande è ai minimi storici della popolarità e di conseguenza il suo partito e la sua maggioranza sono in fibrillazione, temendo che la rovina del presidente trascini anche loro; al di là della sacrosanta legge di civiltà che istituisce i matrimoni tra le persone dello stesso sesso, Hollande non ha fatto nulla per migliorare le condizioni dei cittadini più poveri e quindi cresce, al di là delle Alpi, una protesta a sinistra, che rischia però di portare voti ai fascisti di Marine Le Pen, per una non inconsueta eterogenesi dei fini. Qualcosa di simile avviene anche nel Regno Unito, dove - nonostante gli sforzi del giovane Milliband - il Labour, ancora tramortito dagli anni di Blair, non spera di arrivare al governo, mentre cresce a destra del partito di Cameron un movimento populista antieuropeo, l'Ukip di Nigel Farage. Non sta meglio la Spd che, non contando di sconfiggere Angela Merkel alle prossime elezioni, ha puntato tutto sul pareggio, scegliendo il candidato più adatto a formare una GrosseKoalition, una sorta di Enrico Letta tedesco, già pronto alla resa; curiosamente poi il nuovo segretario di quel partito ha proposto, con una mossa di tipico sapore veltroniano, di cambiare nome all'Internazionale socialista, per farla diventare una sorta di casa comune dei progressisti. In Grecia il Pasok ha anticipato di qualche mese la via italiana di adesione supina alle linee politiche ed economiche dettate da Francoforte e in Spagna il Psoe non ha avuto la capacità di mettersi in sintonia con le importanti manifestazioni di piazza che hanno animato la vita politica di quel paese, condannandosi all'opposizione. E' interessante anche quello che avviene nei paesi del nord Europa, che sanno cosa significa socialdemocrazia e sanno che può funzionare: da alcuni anni la Svezia è governata dal centrodestra, che ha cominciato a ridurre la rete di welfare di quel paese. E' notizia di questi giorni - come sapete - che nelle periferie delle città svedesi sono scoppiate delle rivolte, che hanno visto sulle stesse barricate giovani immigrati e giovani svedesi, arrabbiati - gli uni e gli altri - per motivi diversi, ma sostanzialmente perché vedono il proprio futuro con sempre minori prospettive di miglioramento: evidentemente in quel sistema c'è - e non da ora - qualcosa che vacilla e anche per responsabilità dei socialdemocratici. Curioso poi è il caso dell'Islanda, dove è tornato a vincere il partito di centrodestra responsabile della crisi economica in quella piccola repubblica artica. Su quel paese si è probabilmente qui da noi vagheggiato anche troppo, ma certo c'era stato un protagonismo dei cittadini che poteva essere un esempio anche per altri paesi; i cittadini avevano preso decisioni radicali, ad esempio riguardo alla questione del pagamento del debito. Il partito di sinistra che aveva beneficiato elettoralmente di questa sorta di rivoluzione islandese, una volta al governo, ha scelto la strada della responsabilità e dell'accordo con le autorità finanziarie internazionali - in sostanza ha deciso di pagare - tradendo così le aspettative degli elettori che quindi hanno nuovamente premiato il partito populista di destra, che ha basato la propria campagna elettorale sulla riduzione delle tasse. Vi ricorda qualcosa? Chissà come si dice Imu in islandese? In sostanza nelle sedi europee i capi di governo socialisti, in primis Hollande, ma anche il belga Di Rupo e la danese Thorning-Schmidt, non riescono minimamente a incidere sulle scelte della destra rigorista, non solo perché sono in netta minoranza, ma soprattutto perché manca un pensiero di sinistra altrettanto forte del pensiero ultraliberista che è diventato ormai dominante. Il problema non è solo politico, ma è insieme politico e culturale; se i governi di sinistra o di centrosinistra in Europa propongono le stesse soluzioni dei governi di destra, tanto da poter, senza troppe difficoltà, costruire governi di larghe coalizioni, come possono essere interlocutori forti e autorevoli contro il pensiero della destra? Quando va bene riescono ad attenuarne la ferocia sociale, ma nulla di più.
Da questo punto di vista il caso italiano è piuttosto emblematico. La difficoltà palese dell'attuale esecutivo - che finora si è caratterizzato per molti rinvii e pochi provvedimenti di carattere schiettamente liberista - non sta nella dialettica tra destra e sinistra, che non esiste, ma nella presenza di B., ossia di un elemento eversivo del sistema politico e istituzionale, difficile da incasellare anche nella destra europea. Infatti il programma della coalizione "Italia bene comune" solo con una buona dose di ipocrisia poteva essere considerato di sinistra, tanto è vero che quella parola non compare mai in quel documento, se non una volta, in un inciso, per definire qualcosa d'altro. Con tutta la buona volontà di questo mondo, qualcuno può definire Enrico Letta un uomo di sinistra? No. Così come giustamente Matteo Renzi tende a rifiutare questa etichetta. Il programma del Pd era sostanzialmente quello di Monti, tanto che ne accettava uno dei cardini fondamentali, ossia il pareggio di bilancio in Costituzione; io, come altri, ho votato comunque per quel partito, perché ero convinto che avrebbe almeno impedito a B. di tornare alla ribalta politica, ma questa speranza è stata, con tutta evidenza, mal riposta e di questo il Pd pagherà dazio, prima o poi. Come sapete - l'ho scritto alcune altre volte - io per qualche tempo ho cullato l'idea che il Pd si scindesse, in maniera consensuale, in due partiti: uno socialista e uno liberal-democratico; ho anche sperato che Barca potesse far scattare questo meccanismo. Ora, dopo quello che è successo in queste settimane, ho perso anche questa speranza: il gruppo dirigente del Pd non è palesemente in grado di sollevarsi dalle logiche di sopravvivenza da ceto politico che l'hanno caratterizzato questi anni. E Barca, ben che vada, si prepara a creare l'ennesima corrente.
Una storia si è chiusa e non sappiamo però se un'altra è destinata ad aprirsi: quello che sta succedendo in Europa non ci fa essere ottimisti. Eppure è l'unica strada su cui, per uno come me, è possibile cominciare un cammino, anche dopo tante delusioni. Se il Pd non più essere un mio compagno di viaggio - perché chiaramente prenderà una strada diversa - non posso neppure pensare che la soluzione nasca da un assemblaggio, più o meno forzoso, dei partitini o dei loro spezzoni nati dalla crisi del maggior partito della sinistra italiana: credo sia bastata la fallimentare esperienza della Lista Ingroia per capire che la sinistra non rinascerà in questo modo. E non rinascerà seguendo le sirene di un nuovo capo, per quanto sia affascinante e coinvolgente la sua "narrazione": un partito deve avere l'ambizione di essere una cosa un po' diversa. Per questo non dovremo avere neppure la frenesia di essere pronti per la prossima scadenza elettorale: la gatta frettolosa fa i gattini ciechi. Anche in questo caso l'esperienza recente di Cambiare si può, che, in vista delle elezioni, ha deciso in fretta e furia di partecipare alla nascita della lista della sinistra radicale, è significativa e deve servire da insegnamento per quello che non si deve fare. Immagino che dovremo saltare qualche giro prima di pensare di essere pronti, pena il dover sempre perdere troppo tempo e troppe energie per curarci le ferite, dopo le inevitabili cadute. Va costruita una rete, con una pazienza che dovremo imparare a praticare, anche se questa non è esattamente una caratteristica rivoluzionaria.
Un pezzo del nostro mondo, del mondo della sinistra, era in piazza sabato scorso a Roma, sotto le bandiere della Fiom. Tanti "soloni" del Pd ci hanno spiegato, prima e dopo la manifestazione, che la Fiom deve fare il sindacato e non deve diventare un partito; in linea di massima è vero e sarebbe vero in una situazione ordinaria. Purtroppo la situazione è straordinaria, visto che non esiste più in Italia un partito che rappresenti e difenda il lavoro, ovviamente nella sua modernità molto varia e frastagliata. Credo di essere stato chiaro, ma voglio ripeterlo: il futuro della sinistra - se ci sarà - non può passare attraverso l'individuazione di un nuovo leader, anche se bravo come Maurizio Landini. Se partiamo da lì, siamo perduti: per l'ennesima volta. La manifestazione della Fiom è stata importante per un altro punto, perché ha detto che c'è un pezzo d'Italia, per adesso assolutamente minoritario, ma comunque vivo, che è disponibile a lavorare al progetto di una "costituente di sinistra del lavoro fondato sul rispetto della salute, della dignità e dell'ambiente", come l'ha definita con esattezza Adriano Sofri. Ed è stata importante perché Stefano Rodotà, nel suo intervento intenso e appassionato, ci ha tornato a spiegare che senso possiamo dare, da sinistra, all'art. 1 della nostra Costituzione, ossia che democrazia e lavoro devono sempre rimanere collegati, devono far parte di uno stesso progetto riformatore, perché l'una senza l'altro non stanno insieme.
E poi - anche questo non è propriamente un tema originale - bisogna tornare a parlare di uguaglianza, perché questo è un tema che rimane un discrimine assoluto tra sinistra e destra, è una delle cose che ci definisce, come spiega con chiarezza Norberto Bobbio in Destra e sinistra:
Intendo semplicemente ribadire la mia tesi che l'elemento che meglio caratterizza le dottrine e i movimenti che si sono chiamati "sinistra", e come tali sono stati per lo più riconosciuti, è l'egualitarismo, quando esso sia inteso non come l'utopia di una società in cui tutti sono eguali in tutto, ma come tendenza, da un lato, a esaltare più ciò che rende gli uomini eguali che ciò che li rende diseguali, dall'altro, in sede pratica, a favorire le politiche che mirano a rendere più eguali i diseguali.Il tema è tanto più centrale adesso, visto che le diseguaglianze tendono ad aumentare, su scala mondiale - le 358 persone più ricche al mondo hanno una ricchezza pari a quella del 45% più povero della popolazione mondiale - e in ogni singolo paese: questo è un effetto della crisi, ma contemporaneamente ne è anche causa. E soprattutto nasce dall'idea - che è uno dei punti di forza del pensiero ultraliberista - secondo cui la diseguaglianza è in sé un fattore di progresso e di dinamismo sociale. Noi sappiamo che non è così, lo sanno i più poveri del mondo. E non possiamo neppure accettare l'idea che tutti devono avere le stesse opportunità di partenza, perché - poco dopo che la corsa è cominciata - per troppe persone si aprono voragini di disegualianza incolmabili. Allora dobbiamo pensare, ancora una volta, che l'idea di uguaglianza deve andare di pari passo con quella di differenza, perché la differenza è uno dei presupposti della libertà. Ma questa libertà è vera soltanto nella democrazia e nella partecipazione e ha bisogno, per essere concreta, della solidarietà, ossia della dignità del fare come responsabilità verso sé e gli altri. E qui arriviamo a un punto in cui - come è evidente - tutti i valori fondamentali della sinistra si tengono e si chiamano a vicenda. In fondo la definizione dei valori per un partito di sinistra non richiede troppe pagine né la costituzione di un comitato di saggi. Io credo che potremmo partire da qui, provando poi a verificare cosa si adatta e cosa no e facendo, di conseguenza, delle scelte. Pensandoci, è meno difficile di quanto si possa credere.
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