martedì 3 settembre 2013

Considerazioni libere (376): a proposito di una guerra che sta per scoppiare...

Non sono andato a cercare le mie vecchie "considerazioni", ma la memoria è ancora sufficientemente buona per citarmi, senza incorrere in errori grossolani. Due anni fa pensavo - e l'ho scritto da qualche parte - che i governi occidentali dovessero intervenire, in qualche modo, contro il regime di Assad. C'era l'entusiamo delle "primavere", erano stati deposti Ben Ali e Mubarak, il regime di Gheddafi aveva i giorni contati, nonostante la resistenza del dittatore e dei suoi familiari, insomma c'era un certo ottimismo e sembrava che molto dovesse cambiare e molto è effettivamente cambiato, nonostante quello che è successo nelle ultime settimane. Anche i siriani cominciarono a scendere in piazza. Fu chiaro fin da subito che quelle manifestazioni avevano un carattere un po' diverso da quelle che avevamo visto negli altri paesi arabi, motivi politici e religiosi si intrecciavano più strettamente - e pericolosamente - di quanto avveniva altrove con le rivendicazioni economiche e sociali; e le prospettive di un cambio di regime erano già fonte di preoccupazione, eppure a me sembrava che in quel preciso momento, in quelle circostanze storiche, fosse utile eliminare il giovane Assad. Pensavo fosse sufficiente un'azione mirata, in "stile" israeliano, bastava decapitare il regime, un po' come si era fatto in Libia, magari evitando con maggiore attenzione le vittime civili, anche se in queste cose è difficile essere chirurgici. D'altra parte à la guerre comme à la guerre. E poi immaginavo che i governi occidentali volessero impedire che Assad parlasse, visto che anche lui - ben più di Gheddafi - era stato coccolato dai leader che contano. Fanno sorridere quelli che adesso fanno le verginelle perché è spuntata la foto della cena tra Assad e Kerry, con relative consorti; il giovane dittatore e la sua splendida moglie erano considerati interlocutori affidabili, anche perché educati nei migliori college inglesi. 
Come è noto, allora si decise di non decidere, sperando che la situazione sarebbe rimasta sotto controllo e che se la sarebbero risolta i siriani, in qualche modo. O meglio si finse di non decidere, perché i governi occidentali cominciarono, più o meno direttamente, a finanziare l'opposizione. In questo sostegno si sono distinti i paesi arabi del Golfo, in testa l'Arabia Saudita, a cui gli Stati Uniti delegano volentieri questi compiti. Da tempo i nostri governi fanno finta che l'Arabia Saudita sia un paese "normale", anche se non è vero; si tratta della peggiore dittatura della regione, tanto più pericolosa perché estremamente ricca. Il paese a cui gli Stati Uniti delegano la loro politica mediorientale è una monarchia assoluta e feudale al cui confronto l'Inghilterra di Giorgio III della fine del Settecento parrebbe un paese schiettamente democratico. L'Arabia Saudita è più o meno come la Corea del nord - dinastia regnante e beghe di corte incluse - l'unica differenza è che è molto ricca e, come noto, a quelli molto ricchi si perdonano vizi che non accettiamo da chi ha le pezze al culo. Gli Stati Uniti e l'Europa a questa famiglia di dittatori ha affidato il controllo di un'area così delicata e se ne vedono purtroppo le conseguenze. In questi due anni gli stati del Golfo hanno finanziato le ali più estreme e fanatiche del jihadismo siriano, come hanno fatto ovunque ne abbiano avuto la possibilità e l'opportunità, essendo quei paesi i maggiori finanziatori di al-Qaeda ed Hamas, solo per citare due movimenti che - come noto - contribuiscono non poco alla pace mondiale.  
Anche per responsabilità occidentale quindi, in Siria adesso è completamente cambiata la prospettiva. Credo sia necessario partire dai numeri: ci sono stati 100mila morti, oltre 4 milioni di sfollati e 2 milioni e mezzo di profughi. Adriano Sofri ha spiegato in modo ineccepibile cosa è diventato adesso, trascorsi più di due anni, quel conflitto: una guerra civile.
Nella guerra civile viene giuridicamente, e definitivamente, superato il confine della sovranità nazionale, anche per chi non lo volesse creder umanamente, cioè moralmente, superato dalla brutalità del sovrano contro i suoi sudditi o una loro parte. Perché la guerra civile delegittima il sovrano senza legittimare il ribelle, come nelle sognate insurrezioni contro una tirannide, che mettono il popolo da una parte e la corte dall'altra. Nella guerra civile svanisce l'autorità, nemmeno quel dualismo di potere che un tempo si vagheggiava come una tappa verso un potere nuovo; e gli uni e gli altri - e le ulteriori divisioni dentro altri e uni - non sanno se non odiare e distruggere.
Arrivati a questo punto, naturalmente è impossibile rimanere indifferenti su quello che succede in Siria, indipendentemente dall'uso o meno delle armi chimiche - su questo punto specifico ho scritto giorni fa una breve riflessione, che metto in nota a questa "considerazione" - è da tempo, a essere onesti, che è impossibile rimanere indifferenti, perché i civili non sono morti tutti l'altro ieri, ma muoiono da anni. Proprio perché c'è questa guerra civile è altrettanto difficile avere una posizione netta e personalmente tendo a sospettare quelli che hanno le idee troppo chiare su una vicenda di questo genere. La guerra, almeno come pare la stiano pensando Obama e Hollande - che è riuscito a prendere il posto di Blair, alla destra del presidente statunitense - fatta "dall’esterno", senza rischi, con attacchi dal cielo e dal mare, magari con i droni, causerebbe molte più vittime di quelle calcolate fino ad ora e non risolverebbe il problema centrale: comunque andranno le cose, la Siria rimarrà stretta tra il jihadismo sunnita, radicalizzatosi dopo il colpo di stato in Egitto e finanziato dal petrolio saudita, e il fondamentalismo sciita degli iraniani. 
Personalmente credo che sia impossibile scegliere di schierarsi da una parte o dall'altra. Io non sto dalla parte degli Assad e anzi voglio stare con chi vuole rovesciare quella famiglia: purtroppo non sono riusciti a farlo perché quel regime non solo è armato dalla Russia dell'amico Putin, ma anche perché Israele (e quindi gli Stati Uniti) preferisce avere ai suoi confini dei nemici che si combattono tra di loro. In Siria e, di conseguenza in Libano, si gioca una partita molto complicata tra Arabia Saudita, Iran e Turchia. Naturalmente non sto neppure dalla parte di chi vuole sostituire quel regime con uno nuovo, islamico e fanatico - i due termini non sono sinonimi naturalmente, se non per i profeti di crociata, dell'una e dell'altra parte - ben armato, anche con armi chimiche, gentilimente offerte dai governi occidentali. Per antica abitudine e per inveterata posizione politica, sto dalla parte delle siriane e dei siriani che non vogliono un regime e che vorrebbero poter immaginare un futuro diverso per i propri figli. Francamente se una bomba "intelligente" eliminasse, magari con un colpo solo, Assad e i suoi famigli e i nuovi dittatori che si preparano a prenderne il posto, sarei estremamente soddisfatto; non ci spero perché le bombe sono stupide quanto le persone che le fanno scoppiare. Esclusa questa opzione irrealizzabile, credo però che bisognerebbe intervenire, per salvare quel popolo da una guerra che si combatte già. Capisco chi esclude del tutto ogni forma di intervento, apprezzo le loro posizioni filosofiche e religiose, però là si combatte, senza regole, e ne stanno facendo le spese persone che non c'entrano. Bisogna trovare un modo per salvare quelle persone dalla guerra che c'è già e non farne un'altra; questo naturalmente implica dei rischi, assolutamente maggiori della guerra "pulita" che gli Stati Uniti e la Francia stanno per cominciare. Dalle mie parti si dice: non si può andare a messa e stare a casa. E' così anche in questo caso, se ci importa davvero di quel popolo, allora dobbiamo intervenire, con truppe di terra e con tutto ciò che sarà necessario, dobbiamo limitare il conflitto, se e come sarà possibile, dobbiamo portare le famiglie fuori dalle città, dobbiamo combattere, quando saremo costretti, e lo saremo, visto che le due parti in lotta non staranno ferme mentre questa forza di polizia internazionale - o come la vogliamo chiamare - sarà nel loro paese. Se invece si deciderà semplicemente di bombardare questo o quell'obiettivo, allora sarebbe meglio tornarsene a casa e dire, senza ipocrisie, che di quei "beduini" non ci importa nulla. Che si ammazzino tra loro; è una posizione politica anche questa, forse un po' rozza, ma con una logica. Evitiamo, per favore, le ipocrisie, specialmente quelle "umanitarie".
Naturalmente se decidessimo di intervenire, dovremmo anche essere consapevoli che questo intervento, da solo, non sarà sufficiente. Per cominciare ad affrontare il problema, occorre capire qual è stata la vera molla che ha scatenato le "primavere" e che mantiene viva la rivolta in Siria: quei popoli non si battono tanto per valori democratici che non hanno mai conosciuto e di cui hanno un'idea vaga, ma perché sono disperati, perché hanno fame. In paesi come quelli, in cui la stragrande maggioranza della popolazione è formata da giovani che vivono con economie di sussistenza e senza alcuna prospettiva per il futuro, le rivolte sono inevitabili, contro quei regimi che hanno tolto loro la libertà, ma soprattutto contro un sistema che nega lo sviluppo e rifiuta di redistribuire le ricchezze così ingiustamente sperequate. In quei paesi dove è scoppiata la "primavera", ma anche in Siria, nonostante pare sia già in corso la controrivoluzione - e in Egitto è così, visto che sono tornati al potere i militari, come quando c'era Mubarak - la cosa fondamentale è che sono nate o stanno nascendo organizzazioni eterogenee, attraverso cui una società civile in embrione comincia a esprimere i suoi interessi e le sue posizioni, al di fuori delle istituzioni politiche e religiose; è un processo in corso. C'è un affrancamento di quei popoli. L'incapacità dei governi degli Stati Uniti e della Russia, ma anche di potenze vecchie e nuove come Europa e Cina, di influenzare in qualche modo quello che avviene in Siria è la conseguenza dell'incapacità storica di tutti questi attori di creare modelli di sviluppo che coinvolgano davvero i popoli mediorientali e non solo l'élite politica ed economica di quei paesi. Al di là dell'intervento necessario di questi giorni, nelle forme che io auspico e che temo si realizzerà in maniera opposta, l'Occidente dovrebbe accettare il fatto che quei popoli devono avere il diritto che la loro storia non si decida più in altri luogi - come è successo nel 1916 con l'accordo Sykes-Picot o come è successo dopo la seconda guerra mondiale con la creazione delle sfere di influenza tra Usa e Urss. Finora la storia della Siria è sempre dipesa da decisioni di altri, forse questa rivolta ci dice che noi non possiamo più decidere per loro.
Ci prepariamo a sparare nel buio, invece sarebbe ora di accendere la luce.

post scriptum
Naturalmente è giusto continunare a considerare l'uso di armi chimiche un crimine, qualcosa che viola le "regole" della guerra. Bisognerebbe riflettere però che nel frattempo queste regole sono cambiate, e molto, ad esempio da quando l'Italia usò il gas nella guerra di Etiopia. Negli ultimi anni si sono combattute alcune guerre con caratteristiche del tutto differenti da quelle del passato: c'è un incredibile squilibrio tra le forze in campo (altrimenti non scoppierebbero neppure) e quindi si sa già chi vincerà. In queste guerre inoltre si combatte con armi "intelligenti", ossia in grado di uccidere i nemici in armi e i civili, senza alcun rischio per chi attacca; le "regole" della guerra, grazie alla tecnologia, sono completamente cambiate, perché i rischi di una parte, quella attaccante e vincitrice, sono significativamente annullati e pesano tutti su quella attaccata e perdente. In questo quadro credo andrebbe fatta una riflessione su quali siano veramente le violazioni delle regole o meglio andrebbero riscritte le regole.

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