giovedì 26 settembre 2013

Considerazioni libere (379): a proposito di modelli e di ricette...

In queste settimane Rai5 ha programmato un breve documentario della Bbc intitolato Food trail; se vi capita guardatelo. Sono quattro puntate di circa un'ora nelle quali un giovane agricoltore inglese, Jimmy Doherty, si interroga su come sia possibile dare da mangiare agli uomini del nostro pianeta, il cui numero è destinato a crescere, utilizzando un bene - il terreno agricolo - che tende invece a contrarsi. Doherty è un piccolo produttore che fa agricoltura sostenibile, ma in questo viaggio incontra soprattutto i grandi produttori di cibo. Jimmy non si fa troppe domande, non affronta in maniera sistematica temi come il land grabbing, o il consumo di enormi quantità di acqua o gli effetti dell'abuso dei pesticidi: sono tutti temi che rimangono sullo sfondo. Eppure credo che questo documentario sia utile per farsi un'idea di quello che succede nel mondo, su un tema centrale per lo sviluppo e per il futuro dell'umanità. Probabilmente sono cose che già sappiamo - a me è capitato di parlarne diverse volte in questo blog -, ma vederle sullo schermo fa un certo effetto: le immagini dell'esercito di quaranta enormi mietitrebbie che raccolgono il grano o delle batterie in cui sono allevati migliaia e migliaia di maiali nelle grandi fattorie degli Stati Uniti servono a farci riflettere. Non c'è più nulla di naturale in questa forma di agricoltura e di allevamento; così come è innaturale utilizzare enormi estensioni di terra africana e una quantità incredibile d'acqua per produrre in Kenya i fiori che vengono venduti sui mercati olandesi. C'è qualcosa in questa forma di sviluppo che evidentemente non funziona, anche quando porta vantaggi economici, che peraltro sono distribuiti in maniera molto diseguale. Comunque, anche se la ricchezza fosse più equamente ripartita, ci sarebbe qualcosa di malato in questo modo di produrre. Sono sempre più convinto che occorra partire da qui per far rinascere una speranza di cambiamento.
Negli ultimi trent'anni la globalizzazione si è sviluppata, seguendo due assi: il primo orizzontale, attraverso l'unificazione dei mercati; il secondo verticale, riunendo sotto il controllo del capitale finanziario e di pochissime persone la grande maggioranza delle attività economiche e produttive. Del primo effetto si è parlato molto, anche con toni enfatici e inutilmente ottimistici, sul secondo si è spesso sorvolato. Comunque l'effetto combinato di questi due fenomeni ha portato a quello che vediamo oggi: la concentrazione di un enorme potere economico in pochi grandissimi gruppi sovranazionali, che sono di fatto extra leges, la crescita delle diseguaglianze economiche all'interno di ogni singolo paese, la crisi ambientale che ha ormai toccato ogni parte del pianeta. Indipendentemente dalla crisi di questi ultimi anni - che comunque è un aspetto inevitabile di questi processi - l'umanità è destinata a soccombere, continuando a perseguire questo sistema di crescita senza regole. I teorici del finanzcapitalismo - la bella definizione è di Luciano Gallino - continuano a dirci che questo è il migliore dei mondi possibili, senza rendersi - e renderci - conto che ci stanno conducendo, a folle velocità, verso il baratro. Purtroppo il problema non è solo quello di sottrarre il volante a questi piloti sconsiderati, la soluzione non è quella di ridurre la velocità, ma è quella di cambiare radicalmente la direzione dell'auto. E su questo non c'è accordo, perché chi critica gli eccessi del finanzcapitalismo, non riesce a uscire dalle categorie che questo ha imposto.
Per passare alle vicende che ci toccano più da vicino e di cui tutti i giorni parliamo, più o meno coscientemente, è significativo vedere quali sono le diverse proposte per uscire dalla crisi. I teorici del liberismo sfrenato, quelli che siedono nei luoghi dove si decide davvero, ossia nelle istituzioni finanziarie internazionali, e soprattutto i grandi capitalisti, spiegano che l'unico modo per uscire dalla crisi è continuare a fare le stesse cose che ci hanno portato alla crisi; anzi, più velocemente e con maggiore determinazione. Le privatizzazioni sono state dannose? Bisogna privatizzare di più. Le liberalizzazioni hanno aumentato la povertà? Bisogna liberalizzare di più. So che qualcuno ritiene che il modo migliore per far passare la sbornia sia bere ancora; confesso che qualche volta - quando ero molto più giovane - mi è capitato di ubriacarmi e sinceramente ho usato altri metodi per farmela passare. Quello che succede in queste settimane in Grecia è l'esempio migliore di questo atteggiamento: i tecnici della troika stanno applicando a quel paese una cura da cavallo, che è destinata ad abbatterlo, utilizzando tutti quegli strumenti che sono stati gli elementi scatenanti della crisi. E la stessa cosa è già successa in decine di paesi, dall'Africa all'America centrale, con le conseguenze che sappiamo.
In Europa sta andando così e purtroppo le recenti elezioni in Germania lo hanno ulteriormente dimostrato. Merkel, con questa ultima, trionfante, vittoria, è riuscita ad assumere, ancora di più, la guida politica di un'Europa, che si costruisce intorno al compromesso tra i grandi gruppi economici e al loro dogma ultraliberista. La sconfitta del Spd è il frutto, scontato, della imbarazzante subalternità di questo partito, che ha votato praticamente tutte le leggi proposte dalla Cancelliera. E il fatto che anche lì nascerà un governo di "larghe intese", a trazione ultraliberista - come quello italiano - è la prova dell'inutilità dei partiti del centrosinistra tradizionale.
Naturalmente non ci sono solo gli ultraliberisti sfrenati, benché siano questi adesso a dettar legge. In Italia ad esempio sono loro al governo, attraverso i burattini che hanno messo al Quirinale e a palazzo Chigi. Purtroppo neppure i cosiddetti neokeynesiani hanno la forza teorica per uscire da questi rigidi paradigmi. I più radicali tra di loro chiedono al massimo un allentamento dei vincoli imposti alla spesa pubblica dalla Bce, propongono di spostare un po' di risorse tra le voci di bilancio esistenti, magari un po' meno soldi per le armi e le grandi opere e un po' di più al welfare. Ma nessuno di loro mette in discussione questo sistema, nato dalla decisione, sostanzialmente anticostituzionale, di mettere il pareggio di bilancio in Costituzione e di accettare il fiscal compact. Per l'Italia questa scellerata decisione comporta il pagamento degli interessi sul debito per 80-90 miliardi di euro all'anno e, dal 2014, di un'ulteriore rata di 45-50 miliardi all'anno. E il problema - come ripeto spesso - non è purtroppo solo italiano; anzi. Obama, al di là di qualche generico impegno per incentivare la green economy, mai comunque veramente declinata in temi concreti, non ha ancora proposto nulla per uscire dalla crisi globale di questo modello di sviluppo. E dubito che lo farà.
In Italia, dove gli sciocchi sempre abbondano, si fanno proposte divertenti, fingendosi rivoluzionari. C'è chi propone di uscire dall'euro, sperando che la svalutazione della nuova lira possa far recuperare alle nostre aziende competitività sui mercati internazionali. E' una stupidata, infatti le pochissime aziende veramente in grado di competere hanno continuato a esportare, senza bisogno di questa misura; e inoltre il nostro problema è il crollo del mercato interno, perché sono calati in maniera drastica e drammatica i redditi da lavoro, oltre agli altri problemi endemici dell'economia italiana, a partire dal peso della criminalità organizzata. A proposito, in questi giorni il commesso viaggiatore di palazzo Chigi è andato negli Stati Uniti per invitare gli imprenditori di quel paese a investire in Italia: e non gli è venuto in mente che forse per imprenditori seri è un problema investire in un paese in cui le mafie controllano tanta parte del sistema produttivo? Non è un caso che la lotta alle mafie sia passata in secondo piano, visto che al governo c'è un partito che dalla mafia è ampiamente votato e quel partito è arrivato perfino a esprimere il ministro, siciliano, degli interni. Infine ci sono altri "spiriti allegri" che propongono di tornare al protezionismo. In genere chi pratica il protezionismo deve essere anche pronto a sostenerne le conseguenze, visto che gli altri paesi risponderanno alla stessa maniera: per un paese come il nostro, che dipende da molte importazioni irrinunciabili, sarebbe un disastro.
Se queste ricette non funzionano, bisogna evidentemente trovarne altre, partendo dall'assunto con cui avevo cominciato questa "considerazione". Questo modello di sviluppo che mette al centro unicamente la crescita non è più in grado di reggere, perché è il mondo in cui viviamo che non è più in grado di reggerlo. Non è solo una questione etica - come ci ricorda con parole profonde il papa - e questo ci dovrebbe bastare per decidere di cambiare un sistema che è causa di miseria per la maggioranza delle persone che vivono nel nostro pianeta, ma è una questione di sopravvivenza, per tutti.
In Italia, come è ormai evidente perfino a qualcuno degli elettori-complici del centrodestra, c'è una crisi profonda, a cui la politica non sa dare risposta. Gli unici investimenti pubblici - che pure sarebbero auspicabili - sono indirizzati alle grandi opere, ossia nell'ennesimo attacco all'ambiente, con ricadute minime sull'occupazione e il rischio altissimo di infiltrazioni criminali. Il tessuto produttivo esporta prevalentemente beni strumentali e di lusso, mentre quelli che gli economisti chiamano beni-salario - ossia alimentari, abbigliamento, apparecchi elettrici, automobili di bassa gamma - vengono prodotti all'estero o da aziende straniere o da aziende italiane che hanno delocalizzato. Per questo perseverare diabolicamente su questa strada - anche in un'impostazione compassionevole, come quella proposta da una parte del centrosinistra - non risolve il problema dell'altissimo tasso di disoccupazione e di scarsissima domanda interna. Uscendo da questi paradigmi, ormai consumati, programmi di riconversione produttiva, politiche di sostegno all'occupazione, tutela dei redditi da lavoro, salvaguardia del welfare, investimenti nell'educazione e nella ricerca non sono possibili senza ricorrere alla spesa pubblica; questo è un punto evidente, ma questi investimenti non possono più essere governati a livello centrale, altrimenti il rischio è quello di cadere nella logica del Tav. Questi investimenti devono essere governati a livello locale, con reale e radicale coinvolgimento delle popolazioni, attraverso innovativi strumenti di democrazia partecipata. Non è un caso che invece il finanzcapitalismo delegittimi ogni forma di democrazia, a partire dalle istanze locali; in Italia significativamente la prima vittima sacrificale della crisi è stato proprio il sistema delle autonomie locali, attraverso l'imposizione del patto di stiabilità interno, che ha di fatto "chiuso" i Comuni.
Ma ovviamente non è soltanto una questione di metodo, ma è fondamentale il merito delle questioni. Il potere finanziario che ha ormai assunto il controllo delle decisioni politiche ed economiche non accetta altri paradigmi, se non quello della crescita continua, che si misura su un dato strettamente quantitativo. E' la logica dei grandi agricoltori descritti dal documentario della Bbc: produrre sempre di più, con sempre maggiori guadagni. E rinunciano perfino ad ascoltare altre proposte, che pure ci sono, si rifiutano di utilizzare risorse intellettuali che su questi temi hanno fatto proposte, i saperi diffusi, le buone pratiche. Paradossalmente è proprio l'impossibilità di andare avanti in questa direzione a suggerire la possibile l'alternativa, l'unica possibile. Dal momento che questa crescita distrugge l'ambiente, bisogna pensare a uno sviluppo che faccia l'opposto, e quindi partire proprio da questo valore. Le proposte ci sono e anche i nomi per raccontarle: alcuni la chiamano decrescita, altri conversione ecologica, altri ancora economia dei beni comuni; in fondo si gira sempre attorno allo stesso tema, ossia alla necessità di tenere insieme equa redistribuzione delle risorse e salvaguardia dell'equilibrio ambientale, perché non può esistere l'una senza l'altra. Accettando questa idea, si potrebbe perfino cominciare a cambiare.

1 commento:

  1. Be', complimento: un'analisi lucidissima e, mi pare, molto meditata che apre gli occhi su situazioni che viviamo ogni giorno ma di cui ci occupiamo poco. Anche perché chi detiene il potere non vuole che ne parli. Sappiamo che oramai la politica è subordnata all'economia e che i rapporti economici guidano i processi politici e sociali. Curiosamente, il marxismo ortodosso lo aveva già capito. E forse ha fatto capire questa cosa anche ai capitalisti...

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