E’ interessante confrontare le parole con cui nell'antichità i Greci e i Romani indicavano quella che noi chiamiamo pace, ossia l'assenza di guerre e di conflitti. Curiosamente il vocabolario Treccani definisce la pace anche come
la condizione di normalità di rapporti.Personalmente non sono così ottimista come il mio anonimo e autorevole collega e penso anzi che il conflitto sia un elemento "normale" nei rapporti tra le persone; ma, a onor del vero, credo anche che sia piuttosto difficile dire cosa sia la normalità, specialmente a proposito dei rapporti umani.
Tornando alla storia etimologica di questa parola, il termine greco eirene deriva dal verbo eiro, che significa intrecciare, disporre in una serie, collegare. I Greci - un popolo che non ha mai conosciuto davvero la pace, ma è sempre stato tormentato da conflitti, tra e dentro le città, ed è sempre stato in guerra con popoli confinanti più forti - immaginavano quindi la pace come la ricerca di un equilibrio, di un ordine. Proprio perché l'obiettivo era così ambizioso, la pace divenne per quei popoli difficile da raggiungere, una sorta di chimera; e non è un caso che quando la pace fu finalmente raggiunta, la storia greca praticamente è finita ed è cominciata quella romana. La parola latina pax, pacis ha la stessa radice pak- o pag- che troviamo in pactum, ossia patto. I Romani, più pratici e realisti dei loro "cugini" dell'Egeo, sapevano che la pace è qualcosa di possibile, che si può ottenere, se si è capaci di combattere prima e di accordarsi poi, ossia attraverso le arti della politica e della guerra.
I Greci non avrebbero probabilmente mai coniato l’adagio
si vis pacem para bellumche fu invece un principio basilare della politica di Roma antica.
L’8 giugno scorso papa Francesco ha ospitato nei giardini del Vaticano i presidenti israeliano e palestinese e ha chiesto a loro e ai loro popoli di trovare il
coraggio di fare la pace.In questi giorni ai giovani maturandi è stato chiesto di analizzare le differenze tra l’Europa del 1914 e quella attuale. Certo sono molte ed evidenti, perché questo secolo per fortuna non è passato invano; ma ci sono anche tante analogie, perché certi caratteri originari della storia dei diversi paesi europei non sono venuti meno all’improvviso; il conflitto in Ucraina sembra uscito da uno scenario geopolitico di un secolo fa, solo per fare un esempio.
C’è però una differenza profonda e riguarda proprio il giudizio sulla pace e sulla guerra. L’Europa del 1914 andò con baldanza e con una sorta di incosciente soddisfazione verso la guerra, perché alla guerra erano ancora associati valori positivi, come appunto il coraggio e l’eroismo. Certo agirono fortissimi gli interessi economici delle grandi industrie che volevano la guerra - e l’ottennero - e i giornali e i propagandisti erano servi allora come lo sono adesso, ma tante persone, di tutti i ceti, pensavano sinceramente che la guerra fosse una buona soluzione, anche ai propri problemi personali, alle proprie difficoltà economiche.Non è stato così naturalmente. Anzi proprio le due guerre mondiali, con quel numero incalcolabile di morti, con la distruzione provocata dalle “nuove” armi - dai gas ai bombardieri, fino alla bomba atomica - con il coinvolgimento massiccio e senza precedenti dei civili, hanno segnato uno spartiacque nella storia dell’umanità.
La guerra naturalmente c’è ancora, ci sono i potenti che hanno interesse a farla, ci sono i giornali e i propagandisti che la sostengono, ma le persone sanno che non è la soluzione dei loro problemi. Per questo papa Francesco può usare un’espressione che un secolo fa sarebbe stata un ossimoro, perché i neutralisti erano considerati vigliacchi, non buoni per il re e neppure per la regina. In questi cento anni il giudizio su guerra e pace si è ribaltato e credo sia uno dei progressi più importanti del nostro tempo.
E come dovrà essere la pace a Gerusalemme? Dovrà essere necessariamente un patto tra nemici che hanno passato una vita a combattersi e dovrà anche essere un ordine, un equilibrio, che faccia nascere qualcosa di nuovo,mescolando elementi diversi.
Non bastano più le tregue - che pure sono importanti, perché servono a lenire le ferite - che non sono altro che parentesi in attesa del prossimo bombardamento, del prossimo conflitto. Sinceramente credo che a questo punto serva davvero un coraggio nuovo che purtroppo non ha avuto neppure il papa, quando ha chiesto agli israeliani e ai palestinesi di rimettersi attorno a un tavolo per discutere dell’opzione “due popoli, due stati“. A questa soluzione evidentemente non credono più né gli uni né gli altri. In questi anni i governi di Gerusalemme - con un ampio sostegno del loro paese - hanno lavorato in maniera metodica ed efficace affinché fosse impossibile anche solo pensare di tornare ai confini del ’67: la politica degli insediamenti e delle colonie e la gestione delle risorse naturali, specialmente delle acque, ha segnato l’interruzione de facto del processo di pace basato sulla formula “due popoli, due stati“, perché non c’è più un territorio su cui pensare di costruire il futuro stato palestinese o sarebbe così povero da costringerlo in una posizione di sudditanza di fronte al suo ben più potente vicino. D’altra anche i leaders palestinesi hanno ormai abbandonato il progetto “due popoli, due stati“, visto che loro stessi si sono ormai organizzati in “due stati”, si sono abituati a vivere in enclaves: da una parte Gaza e dall’altra i territori della Cisgiordania; se diventassero davvero un unico stato qualcuno dovrebbe rinunciare al proprio piccolo pezzo di potere e ai loro - non troppo piccoli in questo caso - affari, dal momento che gli altri stati arabi mandano moltissime risorse economiche a queste fragilissime strutture.
Sono sempre più convinto che alla lunga questa soluzione, per quanto“politicamente corretta” e apparentemente giusta, finisca per essere irrealizzabile e comunque incapace di risolvere davvero il problema. Questa soluzione è figlia di una visione antica. Se anche arrivassimo alla soluzione “due popoli, due stati“, il giorno successivo comincerebbe una nuova guerra. Per questo occorre trovare una soluzione nuova, che non sia solo pax, ma anche eirene; o meglio che sia insieme pax ed eirene. Io immagino una soluzione perfino più semplice di quella “due popoli, due stati“, anche se probabilmente più difficile da realizzare, una soluzione che richiede più coraggio e più fantasia: ebrei e palestinesi devono vivere in quell’unico paese insieme, come un unico popolo.
La soluzione per quelle persone a cui dovremmo tutti noi democratici e progressisti, cominciare a pensare - e lottare affinché si realizzi - è “un popolo, uno stato“. Dovremmo iniziare una grande campagna per raggiungere finalmente questo obiettivo. Coloro che sostengono Israele - sia quelli che lo fanno acriticamente sia quelli che lo fanno ponendosi dei dubbi - si fanno forte di un argomento difficilmente oppugnabile: quel paese va difeso perché è l’unica democrazia della regione. Proprio perché questo è vero, quale miglior occasione di questa per espandere la democrazia? Pensate cosa succederebbe se ci fosse questo unico stato democratico, piccolo, ma dalla storia così significativa, in quella regione? Credo proprio che dovremmo cominciare a una pensare a una soluzione rivoluzionaria, perché le mezze misure rischiano di portarci a un punto morto.
La pace è rivoluzionaria.
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