Comico, sost. m.
L’origine di questa parola risale a molti secoli fa e, come tutte quelle che riguardano il teatro, deriva dal greco antico. Komos era infatti il frastuono della festa, in particolare il canto degli avvinazzati, e da questa parola derivò il termine komodia - genere teatrale non a caso caro a Dioniso - diventato in latino comoedia.
Anche se, almeno a detta di Umberto Eco, un ignoto monaco nel Medio evo ha distrutto il secondo libro della Poetica di Aristotele, quello appunto dedicato alla commedia, ne sappiamo abbastanza - o crediamo di saperne comunque abbastanza - sulla commedia e sui comici. Invece è sempre difficile capire perché ridiamo. E, di conseguenza, è difficile far ridere. Almeno in modo intelligente, perché basta pochissimo per suscitare una risata del pubblico, più o meno pagante: è sufficiente una smorfia, una parolaccia, uno schiaffo ben assestato e le gente comincia a ridere, spesso in maniera inconsulta, senza riuscire a fermarsi. Lo sanno bene i tanti guitti che si credono comici solo perché le persone ridono quando loro si esibiscono; se è per quello, la gente ride anche di un matto o di uno storpio, anche se ormai non è politicamente corretto farlo. E ridiamo quando vediamo un altro inciampare, anche se poi ci arrabbiamo con chi ride quando inciampiamo noi.
Robin Williams invece era un vero comico, uno di quelli capaci di far ridere e di far pensare il suo pubblico. Certamente sapeva anche fare le smorfie - in questo era davvero formidabile - e aveva il suo campionario di parolacce, ma usava questi mezzi, li metteva al servizio della propria arte. Faceva lo stesso Aristofane che non disdegnava le volgarità, sapendo che gli sarebbero servite per far arrivare il suo messaggio, spesso piuttosto complicato, al pubblico che affollava il teatro di Atene per vedere le sue commedie.
A leggere i ricordi che in questi giorni d’estate hanno riempito la rete - al di là della retorica di quelli che non l’hanno conosciuto, ma vogliono comunque apparire in occasioni ghiotte come queste, per sfruttare un po’ la popolarità del morto - emerge il fatto che Robin Williams amava molto far ridere, non solo per la vanità di essere applaudito, per quell'istinto da “puttana” che porta tanti suoi colleghi a cercare di stare sempre sotto i riflettori, ma proprio perché gli piaceva far ridere, soprattutto dove pensava ce ne fosse più bisogno, ad esempio nella corsia di un ospedale o in un campo militare in Afghanistan.
Lo so che Williams ha avuto l’opportunità di interpretare ruoli importanti e complessi, comici e drammatici, in film belli e intensi, con registi importanti, ma per quelli della mia generazione rimarrà sempre Mork, perché lo abbiamo conosciuto così, quando eravamo ragazzini e in qualche modo siamo cresciuti con lui.
Alla fine di ogni episodio lo stralunato alieno faceva il suo quotidiano rapporto a Sua obesità Orson, spesso stupendosi delle bizzarrie degli umani. Nei giorni scorsi Mork e Orson si sarebbero fatti mille domande, senza riuscire a darne una spiegazione, sul suicidio un uomo come Robin Williams, famoso, ricco, che amava il suo lavoro e che aveva ancora tante possibilità di divertire gli altri. Il suicidio è qualcosa che non riusciamo mai a spiegare noi umani, che pure ne abbiamo purtroppo esperienza diretta, figuratevi due extraterrestri.
Quel breve dialogo finale era importante nell'economia del racconto, perché conteneva la morale della storia; in questo c’era in quei telefilm un tratto antico, come in una favola di Esopo o appunto in una commedia. Credo allora sarebbe giusto trarre una morale dalla morte di Williams, magari smettendola di citare a sproposito battute di suoi film come fossero frasi dette da lui.
Quella morte ci insegna che dovremmo avere rispetto per chi fa un lavoro, un qualsiasi lavoro, sapendo che magari non è così facile o scontato come ci appare. E che dovremmo avere rispetto per chi soffre e per chi cerca di superare quella sofferenza, psichica o fisica, in un modo che consideriamo sbagliato. A uno come Robin Williams perdoniamo di aver ceduto alla droga e all'alcol, mentre consideriamo in maniera sprezzante un poveraccio che si droga o che beve, e usiamo queste parole - drogato e alcolizzato - come un insulto; quindi - e questa è un’altra morale - cerchiamo di essere meno ipocriti nei nostri necrologi,quando muore una persona importante, e più attenti alla sorte dei poveri cristi. Troppe volte noi pensiamo che la depressione sia una malattia da ricchi, o giustificandola - con banalità tipo “i soldi non danno la felicità” - o disprezzando chi ne soffre, perché pensiamo che un ricco non abbia diritto di essere depresso. Un’altra morale è che la depressione invece può colpire tutti, star del cinema e operai, e che tutti sono, in troppi casi, lasciati soli ad affrontare questa malattia. Il suicidio di Robin Williams ci insegna soprattutto che, al di là della nostra tracotanza e della nostra superbia, la vita è qualcosa di terribilmente complesso e fragile.
Sono convinto che di tutto questo stiano parlando lassù Mork e Orson.
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