lunedì 22 dicembre 2014

Verba volant (152): tregua...

Tregua, sost. f.

Questa parola è arrivata all'italiano dal mondo dei barbari - che forse così barbari non erano; infatti deriva dall'antico tedesco triva, in cui possiamo ritrovare una radice che in tutte le lingue del nord Europa indica fiducia, promessa, come ad esempio nell'inglese true. Infatti per sospendere le ostilità, anche solo per pochi minuti, per il tempo necessario per recuperare i cadaveri dei propri commilitoni o per permettere il soccorso dei feriti, occorre fidarsi, occorre essere certi che il nemico, che fino a pochi minuti prima ti avrebbe ucciso, ora - proprio perché c'è una tregua - non lo farà. E lui deve riporre in te la stessa fiducia.
Tra qualche giorno probabilmente ricorderemo l'anniversario di quell'episodio passato alla storia come tregua di Natale, ossia una serie di "cessate il fuoco", non ufficiali, avvenuti nei giorni attorno al Natale del 1914 in varie zone del fronte occidentale della prima guerra mondiale, durante la quale i soldati inglesi e tedeschi, che solo da alcuni mesi si stavano scontrando gli uni contro gli altri, non solo smisero di combattere, ma fraternizzarono, scambiandosi piccoli regali, mangiando insieme, giocando una partita di pallone e facendosi fotografare in gruppo, come dimostra la foto che apparve qualche giorno dopo, non senza imbarazzo e sconfiggendo la censura belligerante, sulla prima pagina del Daily mirror. Negli anni successivi gli alti comandi di entrambi gli schieramenti impedirono che l'episodio si ripetesse e comunque la durezza dei combattimenti frenò gli stessi soldati a cercare un momento di solidarietà, anche solo di un giorno, con nemici contro cui combattevano, tutti i giorni, con tanto accanimento. In particolare dopo la battaglia della Somme fu complicato anche accordarsi sulle tregue per recuperare morti e feriti; la fiducia ormai era svanita in quelle trincee. La tregua di Natale, per quanto irregolare dal punto di vista formale, si inserì comunque in un contesto bellico che aveva ancora delle regole, conosciute e riconosciute.
Il Novecento è stato un secolo di conflitti internazionali, le due guerre mondiali e la cosiddetta Guerra fredda, con tutti i suoi conflitti locali, dalla Corea al Vietnam. Tutti questi conflitti si sono aperti e chiusi, per ognuno di essi possiamo dire chi ha vinto e chi ha perso. La Guerra fredda non è finita del tutto, anche se uno dei due belligeranti - quello che ha perso - ormai non esiste più. Pochi giorni fa abbiamo assistito al penultimo atto di quel conflitto, con la decisione di Obama di riaprire le relazioni diplomatiche con Cuba e le sue dichiarazioni sull'inefficacia del bloqueo, che però rimane ancora in vigore, visto che difficilmente i repubblicani che controllano il parlamento accetteranno di toglierlo, con il rischio di perdere i voti della potente comunità di origini cubane. Comunque sia, almeno dal punto di vista formale, la dichiarazione del presidente degli Stati Uniti ha chiuso un'era.
Rimane, a ricordarci che c'è stata la Guerra fredda, la vicenda delle due Coree. In quel territorio non si combatte dal 1953, anche se non è mai stata stipulata nessuna pace, perché nessuno dei due contendenti accetta di riconoscere la vittoria dell'altro; c'è una tregua, che dura ormai da sessant'anni. In qualche modo i coreani hanno imparato a fidarsi gli uni degli altri - almeno a convivere - nonostante quello che dicono gli uffici della propaganda di entrambi i governi.
Il nuovo millennio, insieme alle conseguenze delle guerre del secolo passato - così ad esempio, il conflitto tra ebrei e palestinesi per il controllo del territorio ad ovest del Giordano risale a poco meno di un secolo fa, alla mancata risoluzione di quel problema nelle more della pace che chiuse la prima guerra mondiale - ci sta offrendo una guerra di tipo nuovo, che non capiamo, perché non vediamo esattamente quando queste guerre "nuove" cominciano, non sappiamo con precisione chi c'è da una parte e chi dall'altra e soprattutto non riusciamo mai a capire quando finiscono, perché non c'è mai nessuno che vince, e di conseguenza nessuno che perde.
Evidentemente una guerra c'è, perché ogni giorno muoiono gli uomini - e le donne - che la stanno combattendo e perché soprattutto muoiono dei civili: gli studenti della scuola di Peshawar sono solo gli ultimi, almeno per ora.
Non sappiamo molto di più. Il nostro paese è in guerra? Formalmente no, anche perché la Costituzione lo vieta, eppure ci sono nostri soldati dove si sta combattendo e soprattutto ciascuno di noi è il potenziale bersaglio di un attentato terrorista. Cento anni fa era più semplice: c'era il fronte e due trincee contrapposte. Adesso il fronte è ogni città, ogni palazzo, ogni scuola, come ha dimostrato anche l'episodio successo a Sidney pochi giorni fa. Gli Stati Uniti sono in guerra? Credo che una parte dei cittadini di quel paese creda di sì e un'altra parte creda di no; dopo Pearl Harbour gli americani sapevano di essere in guerra, magari potevano essere contrari, ma oggi non sanno neppure se lo sono. Noi combattiamo in Iraq e in Afghanistan, eppure i governi di quei paesi sono nostri alleati. E, a proposito di alleanze, Assad è nostro alleato o nostro nemico?
Ho l'impressione che qualcuno, in mancanza d'altri riferimenti politici e geografici, cerchi di dire che questa è la guerra tra noi e il mondo musulmano. A parte il fatto che io faccio una gran fatica a definire "noi" - se c'è una guerra di religione, io che sono ateo da che parte sto? e un americano musulmano? - mi pare che anche il cosiddetto mondo musulmano non sia quel monolite che i nuovi "crociati" vogliono farci intendere. Il mondo è diventato troppo complesso per ridurlo alle semplificazioni di queste persone, che non brillano certo né per intelligenza né per originalità.
Personalmente, da vecchio marxista, preferisco spiegare questi conflitti utilizzando categorie economiche e l'idea di lotta di classe, anche se probabilmente neppure questo concetto basta da solo a spiegare la complessità di questi tempi. Anche perché i conflitti di classe sono trasversali ai paesi e alle culture e non esiste ancora una tale trasversalità nel nostro fronte, quello degli sfruttati; questo è per noi un grosso problema, anche perché i ricchi e i padroni sono alleati, qualunque sia il loro paese e la loro religione. Ma questa è un'altra storia, che mi porta fuori dalla definizione di oggi.
Gli Stati Uniti, l'Europa, l'Italia la guerra la stanno facendo e non facendo contemporaneamente, una cosa che contrasta con la logica, prima ancora che con la politica. La conseguenza è che una guerra così non si vince e non si perde. Già morire in guerra non è auspicabile, ma morire in una guerra che non c'è suona perfino paradossale. E naturalmente se non c'è guerra, non può esserci una tregua, nemmeno per Natale. I nostri vecchi si riferivano alla seconda guerra mondiale chiamandola l'ultima guerra; era un dato cronologico e soprattutto una speranza. Questa guerra, che stiamo vivendo noi e i nostri figli, potrebbe anch'essa essere definita l'ultima guerra, ma perché non sembra destinata a finire.

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