mercoledì 19 agosto 2015

Verba volant (207): museo...

Museo, sost. m.

A onor del vero credo sia la prima volta che in questo paese si apre una qualche discussione, seppur ferragostana, seppur relegata nelle pagine interne dei giornali - perché in prima può starci solo la Boschi in bikini - sulla nomina dei direttori dei principali musei italiani e sarebbe anche una cosa positiva - Dio sa quanto bisogno ci sarebbe di discutere in maniera approfondita di cultura nel nostro paese - se non fosse che si sentono quasi esclusivamente delle incredibili stupidate. Da far girare la testa, e non solo la testa.
Capisco - anche se non giustifico - quelli che sono stati esclusi o che si sentono esclusi - quasi sempre le due categorie non coincidono - immagino che abbiano da criticare, nel merito e nel metodo, la scelta fatta dal ministero. Anche se, per carità di patria, farebbero meglio a stare zitti; spesso questi che criticano hanno già dato cattiva prova di sé in ruoli analoghi e anzi tanto più strillano tanto più sono stati direttori, assessori, curatori incapaci e insipienti.
Quelli che invece proprio non riesco a sopportare sono quelli che criticano la scelta perché dei venti nominati sette sono stranieri. Mi spiegate per quale arcana ragione solo un italiano potrebbe dirigere un museo italiano? Curioso poi è l'atteggiamento di questi nazionalisti in servizio permanente effettivo che plaudirebbero se un italiano fosse chiamato a dirigere un museo tedesco e invece deplorano come un'offesa alla dignità italiota se avviene l'inverso. Per professioni come queste non esiste il criterio della nazionalità, perché la cultura, come l'arte e la scienza, non ha nazionalità. Il direttore del Cern di Ginevra dovrebbe essere svizzero solo perché quel centro di ricerca si trova nella confederazione elvetica? E magari proprio originario di uno dei cantoni francofoni, per non urtare la loro sensibilità etnica. E un direttore d'orchestra deve essere nato nella città in cui ha sede l'orchestra che dirige? Pensate che in Lombardia potrebbero esserci solo musicisti leghisti. C'è anche un dato meramente statistico: visto che l'Italia detiene da sola quasi il 50% del patrimonio artistico mondiale, solo noi italiani, che siamo così pochi, dovremmo essere incaricati di occuparcene? E uno studioso tedesco o francese o addirittura cinese non potrebbe mai sperare di diventare direttore di un museo italiano, solo perché tale carica deve essere assegnata per forza a un nostro compatriota?
La questione non è la nazionalità di chi è chiamato a dirigere questa o quella istituzione culturale o scientifica, ma la sua competenza. Ora di questo non posso davvero dire nulla, non conosco nessuno di questi venti, o meglio ho la fortuna di conoscerne uno, perché bolognese e perché è un collega comunale. Lui so che è bravo, molto bravo, e farà bene a Caserta come ha fatto bene a Bologna, ma, con questa eccezione, visto chi ha scelto queste venti persone, non ho una grande fiducia nel risultato finale di questa selezione, di cui peraltro non sono chiarissimi i criteri e gli obiettivi. Il problema non è avere sette direttori stranieri, il problema vero è avere il ministro italiano. Il problema sono i consigliori, tutti rigorosamente italiani, del ministro. Magari potessimo avere al ministero tutti giovani - donne e uomini - provenienti dall'estero, non cresciuti in questa burocrazia asfittica e melmosa, non figli di, non amici di, non iscritti a, ma soprattutto potessimo avere persone capaci di sapere cosa succede nel mondo e non solo in tre o quattro ristoranti di Roma. E magari finalmente un ministro che un po' ne capisce, di politica e di cultura.
Il tema non è sapere se questa o quella persona è in grado di dirigere un museo, o almeno non è la più importante. Fondamentale è decidere che musei vogliamo, e investire di conseguenza. Il museo deve essere una struttura viva, in cui si fa conservazione, ma anche ricerca. E si fa di tutto per mettere a disposizione del pubblico, di tutto il pubblico, il patrimonio di quel museo.
I nostri musei si chiamano così perché così si chiamava il Museo - con l'iniziale maiuscola - che Tolomeo I e i suoi successori vollero costruire ad Alessandria come luogo di incontro tra studiosi, tra persone care alle Muse appunto, e come luogo di insegnamento. Peraltro il Museo era cosmopolita, come lo era la città che lo ospitava, perché quei sovrani vollero che vi arrivassero studiosi, artisti e scienziati di tutte le parti del mondo. Ed era felicemente promiscuo e contaminato, perché arte e scienza devono convivere, anche nel tempo moderno delle iperspecializzazioni. Certo anche nel Museo di Alessandria, al cui interno si trovava la grande biblioteca, la conservazione era importante, ma non era nato per questo, tanto che è stato distrutto, è andato a fuoco - e in quel rogo, o quei roghi, noi abbiamo perso tante opere degli antichi - ma quella distruzione non ha potuto distruggere la cultura di quei sapienti. E noi siamo figlie e figli di quella cultura, nonostante i roghi, perché il loro insegnamento è arrivato fino a noi. Perché la cultura la fanno le donne e gli uomini, non solo i libri, i quadri, le opere d'arte, per quanto splendidi, per quanto preziosi. E la fanno soprattutto quelli che con il loro lavoro riescono ad insegnare agli altri, ai loro contemporanei e a quelli che verranno dopo di loro.
A Eike Schmidt e ai suoi nuovi colleghi forse non potremo chiedere questo, perché si troveranno legati in una pania di regole assurde, di vincoli solo formali, perché avranno a disposizione poche risorse e un personale spesso demotivato, deliberatamente voluto così, perché non valorizzato, non riconosciuto, non pagato in maniera sufficiente. A loro non possiamo chiedere di cambiare il mondo, ma almeno di offrirci dei musei più simili a quelli che si vedono nelle città europee. Capire invece che tipo di museo vogliamo riguarda tutti noi, perché riguarda la politica - e quindi escludiamo Franceschini e i suoi complici - riguarda che idea abbiamo di società e di futuro.

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