Leggendo un giornale on line, il giorno dopo la fine dei giochi di Rio, mi ha colpito questo titolo: Finite le Olimpiadi di Bolt e Phelps. Certo si tratta di due grandissimi campioni, le cui imprese hanno segnato la storia dello sport e non solo di queste olimpiadi, ma credo sia un po' riduttivo. Forse c'è un problema in come lo sport viene raccontato; e siccome lo sport è un racconto che coinvolge miliardi di persone in tutto il mondo, è probabilmente l'unico condiviso a ogni latitudine di questo pianeta, il modo in cui viene raccontato ci riguarda tutti.
Su questo tema è intervenuta anche una delle regine di questi giochi: I'm not the next Usain Bolt or Micheal Phelps. I'm the first Simone Biles. Con grazia, la stessa che dimostra quando esegue i suoi volteggi, la ginnasta statunitense ha rivendicato la necessità di cambiare quella prospettiva per cui le atlete donne sono sempre un gradino più in basso rispetto ai loro colleghi maschi, sul fatto che i loro titoli sono considerati un po' di meno e che guadagnano un po' di meno. La mia amica Valentina, che corre a livello amatoriale sulle lunghe distanze e vince, mi conferma che i premi per le donne sono in genere un po' più "miseri" di quelli per i maschi. Spesso un bel po', eppure la fatica è la stessa.
E comunque Simone Biles è più fortunata di altre sue colleghe, è una a cui toccano le copertine, è un'atleta che ha sponsor e successo. Le sue medaglie sono importanti per lei, perché sono il giusto riconoscimento alle sue fatiche, ai suoi allenamenti, ai suoi sacrifici, ma c'è una medaglia che credo sia più importante. Kimia Alizadeh Zenoorin è una ragazza iraniana di diciotto anni che ha vinto la medaglia di bronzo nel taekwondo: è la prima atleta del suo paese a vincere una medaglia olimpica.
Quella medaglia è importante per Kimia, anche nel suo caso premia i sacrifici, ma è ancora più importante per le donne, per le giovani donne, del suo paese. Kimia ha combattuto a capo coperto - non sappiamo se per intima convinzione o perché questo è stato l'unico modo per lei di poter fare sport e quindi di partecipare ai giochi olimpici - e probabilmente la sua vittoria sarà usata dalla propaganda del governo maschilista e integralista degli ayatollah, così come l'oro di Ondina Valla fu sfruttato dal regime maschilista e sessuofobo di Mussolini. Eppure quella medaglia di bronzo è, a suo modo, rivoluzionaria, anche al di là delle intenzioni e delle idee di Kimia, perché è il segno per le ragazze iraniane sue coetanee che anche per loro - e non solo per i maschi - lo sport è un ambito in cui prevalere.
Quella medaglia è rivoluzionaria perché abbatte un muro e quando si abbatte un muro non sai mai di preciso cosa troverai dietro; magari tante ragazze iraniane, molte più di adesso, cominceranno a fare sport e una di loro vorrà gareggiare senza velo e vincerà una medaglia e allora un altro muro sarà abbattuto. E poi un altro: il progresso è questa cosa qui.
E le donne spesso ne sono protagoniste, anche se noi maschi non ce accorgiamo. O non vogliamo farlo. E preferiamo raccontare uno sport dove noi siamo più forti e più veloci, riconoscendo alle donne solo di essere più belle. E una lezione le donne ce l'hanno data anche in queste olimpiadi.
Durante una batteria dei cinquemila, a causa di un rallentamento nell'andatura della corsa, la statunitense Abbey D'Agostino ha involontariamente fatto cadere la neozelandese Nikki Hamblin; vedendo Nikki a terra, Abbey ha deciso di fermarsi per aiutarla e così entrambe hanno potuto continuare la gara. Ma poco dopo è stato evidente che nella caduta proprio la statunitense si era fatta più male, ha cominciato a zoppicare, ma, nonostante tutto, ha voluto continuare la gara, venendo doppiata dalle altre concorrenti, tranne che da Nikki, e così le due sono arrivate insieme, doloranti, al traguardo. Non hanno vinto nessuna medaglia, ma hanno offerto una lezione difficile da dimenticare, perfino in tempi cinici e individualisti come i nostri.
Nessun commento:
Posta un commento