martedì 29 agosto 2017

Verba volant (427): sirena...

Sirena, sost. f.

Quando Odisseo, durante il lungo viaggio che lo avrebbe riportato a Itaca, passò accanto all'isola delle sirene, sapendo che il canto di quelle donne era capace di ammaliare e rapire gli uomini che avessero la ventura di ascoltarlo, per sfuggire a quel pericolo decise di tappare con la cera le orecchie dei suoi compagni. Ma siccome egli voleva ascoltare quel canto, che nessun mortale aveva potuto udire rimanendo vivo, ordinò ai suoi uomini di legarlo con le funi più robuste all'albero della nave e disse loro che non lo avrebbero dovuto slegare per alcun motivo, qualunque ordine egli impartisse. E in questo modo Odisseo e i suoi uomini si salvarono. I miti greci - lo sapete - sono stati raccontati e tramandati da maschi. Non sappiamo nulla di Omero, non sappiamo quando è nato e dove ha vissuto, non sappiamo cosa esattamente abbia scritto o se si sia limitato a raccogliere quello che altri avevano cantato prima di lui, però sappiamo certamente che era un maschio. E infatti in questa storia celebra l'astuzia di un maschio che ha voluto a tutti i costi ascoltare il canto delle sirene.
Credo che questa storia sia stata sopravvalutata: Odisseo sarebbe stato davvero un eroe se fosse riuscito ad ascoltare le sirene senza essere legato. Perché quelle donne non ingannavano gli uomini, anzi dicevano loro la verità, soltanto la verità: le sirene erano onniscienti e gli uomini si perdevano non per colpa di quelle donne, ma perché volevano diventare come loro. Odisseo, quando supplicava i suoi compagni di slegarlo e di lasciarlo andare dalle sirene, aveva l'ambizione smodata di sapere tutto quello che le sirene sapevano. Un'ambizione che lo avrebbe perduto, se appunto non fosse stato legato.
Ho ripensato a questa storia antica perché racconta bene il rapporto complesso - e spesso malato - che noi maschi abbiamo con le donne. Quante volte abbiamo ascoltato condannare episodi di stupro, e poi aggiungere, quasi incidentalmente, consigli alle donne affinché non corrano il rischio di essere stuprate. Quante volte abbiamo ascoltato, dopo la doverosa condanna dello stupro, una frase che comincia con "certo se lei non avesse...". Quante volte abbiamo ascoltato queste parole e abbiamo taciuto, forse perché ci sembravano sensate. Eppure queste sono le parole più pericolose, quelle che fanno più male alle donne, perché in qualche modo le colpevolizzano, limitano la loro libertà, perché le donne non potrebbero indossare certi vestiti, non potrebbero frequentare certi luoghi. Ad ascoltare queste queste parole le donne non avrebbero neppure la libertà di rimanere sole, magari per pensare, perché una donna sola scatena una pulsione che i maschi non sono in grado di controllare.
Lo abbiamo ripetuto molte volte, eppure pare ancora che non sia sufficiente, quando un maschio stupra una donna il colpevole è l'uomo, non la donna. E non ci sono eccezioni che tengano, non ci possono essere "ma".
Non è la donna che si deve giustificare: non può esserci il buon senso che ci fa dire che è meglio che una donna non si vesta in un certo modo, non vada in un certo posto, non frequenti certe persone. E cosa possiamo farci noi maschi? A sentire il buon senso l'unica soluzione possibile sarebbe quella di farci tappare le orecchie o di farci legare stretti affinché non possiamo sfogare il nostro bisogno "naturale" di possedere quelle donne, che conoscono ogni cosa, che sono così migliori di noi. Ma non si è eroi quando si è legati. Al limite smettiamo di essere un pericolo, ma continuando a pensare in questo modo non si cambia il mondo. E il mondo ha bisogno di uomini che imparino ad ascoltare con libertà e responsabilità le sirene e di madri che insegnino questo ai loro figli maschi. Questo è l'unico modo per salvare le sirene.

lunedì 28 agosto 2017

Verba volant (426): statua...

Statua, sost. f.

Alla fine di febbraio del 1508 la statua di Giulio II benedicente venne issata in una nicchia al di sopra del portale centrale della basilica di san Petronio a Bologna. Due anni prima il papa della Rovere aveva conquistato la città, cacciandone i Bentivoglio, e quella statua, significativamente posta al centro della facciata della basilica costruita dal Comune come simbolo di libertà e di autonomia e per questo proprietà della città, voleva dire che Bologna era sotto il controllo di Roma. Nonostante il papa avesse voluto apparire come benedicente, il suo aspetto severo doveva ricordare ai riottosi cittadini di Bologna chi era che comandava. E siccome Giulio II voleva che la sua statua fosse anche un capolavoro, commissionò l'opera a Michelangelo, che la realizzò in meno di due anni; questo periodo bolognese dell'artista fiorentino fu particolarmente proficuo, visto che le storie della Genesi scolpite da Jacopo della Quercia per quello stesso portale gli furono da ispirazione quando dipinse la volta della Sistina. Meno di tre anni dopo, nel dicembre del 1511, i Bentivoglio tornarono in città, la statua di Giulio II fu tolta dalla facciata di san Petronio e il bronzo venne rifuso e venduto ad Alfonso I d'Este che ne ricavò una grande colubrina che chiamò Giulia: se andate a Ferrara ne potete vedere una copia proprio sotto il Castello. Bologna ha perso un capolavoro, uno dei due soli bronzi michelangioleschi, un'opera che probabilmente sarebbe diventata uno dei simboli della città, che sarebbe stato l'oggetto di foto di migliaia di turisti giapponesi. A chi mise quella statua - e a chi la tolse - questo però non importava affatto.
Questo è spesso il destino delle statue: dovremmo ricordarlo sempre, perché prima di essere - quando lo sono - opere d'arte, sono dichiarazioni politiche. E la politica è soggetta a cambiamenti, a ripensamenti, a volte perfino a miglioramenti. 
Fanno bene i cittadini degli Stati Uniti a promuovere la rimozione delle statue dei politici e dei generali degli Stati Confederati che sostennero la schiavitù o la stele che a Chicago celebra Italo Balbo, perché quei monumenti sono figli di idee che non solo state sconfitte - e la storia, si sa, la scrivono i vincitori - ma soprattutto che ora sono considerate eticamente sbagliate, se non criminali. Poi possiamo discutere se gli industriali bianchi degli Stati del nord fossero davvero più democratici dei latifondisti bianchi di quelli del sud o se volessero soltanto sostituire una forma di schiavismo con un'altra, ma comunque l'abolizione della schiavitù è stata una conquista e, come tale, deve essere celebrata, anche attraverso la rimozione delle statue di chi si è opposto.
Poi ora abbiamo una sensibilità diversa rispetto ai nostri avi del Cinquecento e credo non dovremmo distruggere le statue che non ci piacciono e non ci rappresentano e anzi che abbiamo il dovere di trovare il modo di conservare quelle che togliamo dai luoghi pubblici, soprattutto se si tratta di opere d'arte, anche se per lo più non lo sono: è finito il tempo in cui si affidava ad artisti come Michelangelo una tale incombenza. 
Credo comunque che queste statue rimosse dovrebbero trovare posto in un qualche museo, perché è fondamentale per una società la memoria di cosa siamo stati e penso che in quei luoghi pubblici in cui abbiamo tolto una statua dovremmo lasciare un segno di cosa c'era prima, del perché qualcuno un tempo aveva deciso di mettere quella statua e del perché adesso abbiamo voluto spostarla.
Confesso che invidio un po' una comunità che assume come un proprio problema quali statue ci sono nei luoghi pubblici e che decide di sostituire quelle che rappresentano qualcosa che non vogliamo più che racconti quello che siamo diventati. Credo che una riflessione del genere sarebbe interessante anche nel nostro paese. Questo presuppone riflettere su cosa eravamo, su cosa siamo e su cosa vorremmo diventare: un compito a cui, evidentemente, non siamo preparati.

sabato 26 agosto 2017

Verba volant (425): posto...

Posto, sost. m.

Per chi vuole costruire una nuova sinistra in Italia - e in Europa - credo che la questione dei migranti sia un tema molto difficile, eppure imprescindibile, perché le persone "normali", quelle che la sinistra politica dovrebbe rappresentare e difendere - quelle che formano il popolo, come avremmo detto una volta con un lessico novecentesco - hanno paura. E non è razzismo, anche se ovviamente questo ha un peso, non è solo la grettezza di difendere il proprio poco, senza volerlo condividere con chi non ha niente, anche se questo atteggiamento è comprensibile in un periodo di crisi. Gli italiani - e lo stesso vale per gli europei - che vedono arrivare tante persone, giorno dopo giorno, si pongono una domanda: e dove li mettiamo? qui non c'è più posto. 
Non serve essere esperti di geopolitica, basta avere in casa un mappamondo, per capire che questa domanda, nella sua disarmante semplicità, non è affatto stupida, come troppe volte qualcuno a sinistra, con molta supponenza, ha detto e pensato. L'Africa è enorme, in quel paese vive più di un miliardo di persone: e dove li mettiamo? qui non c'è più posto. Quando l'Italia - e l'Europa - hanno affrontato i propri flussi migratori interni, questa domanda non aveva la stessa drammatica evidenza: il nostro Mezzogiorno era grande, ma le regioni del nord lo erano altrettanto. Quando il mondo ha affrontato, nel secolo scorso e alla fine di quello ancora precedente, un'imponente ondata migratoria, c'erano le Americhe, in cui c'era posto per tutti, erano terre da riempire.
Ma adesso è cambiato tutto. Qui non c'è più posto: è drammaticamente vero e da qui dobbiamo partire. Perché altrimenti hanno facile gioco quelli che sventolano le bandiere delle loro piccole patrie e dicono che bisogna sparare a tutti quelli che sono diversi da noi, fossero anche quelli del condominio di fronte. Oppure finiscono per prevalere quelli che, pur facendosi scudo dei loro buoni propositi e di tanta ipocrita compassione, dicono che sono in grado di fermare le migrazioni. E noi ci sentiamo rassicurati da queste promesse. Se non sappiamo rispondere alla domanda e dove li mettiamo?, alla fine vinceranno quelli che dicono che bisogna aiutarli a casa loro, quelli che pagano i dittatori di turno affinché lascino affondare i barconi, tengano gli "indesiderati" nelle loro prigioni, ammazzino il maggior numero possibile di disperati, lontano dalle telecamere per non impressionare le persone che guardano la televisione.
Però non basta denunciare l'ipocrisia di chi in pubblico dice che i migranti sono troppi e, indossando un'altra giacca, li sfrutta, li usa per raccogliere i pomodori e le arance, li stipa nelle canoniche vuote per prendersi 35 euro al giorno, li fa diventare numeri per creare cooperative che gestiscono l'accoglienza. E poi le puttane nere sono anche più belle e costano meno delle italiane. Le persone magari possono darci ragione su questo, ma poi chiedono: e dove li mettiamo? Questa domanda non è più eludibile.
Il problema è che affrontiamo sempre la questione dal lato sbagliato, partendo dal dato che non c'è più posto. Invece dobbiamo cominciare a dire che il posto c'è, c'è posto in Africa, c'è posto in Asia, c'è ancora posto nelle Americhe. In quei paesi ci sarebbe posto anche per noi, siamo noi e i nostri figli che dovremmo migrare in quei paesi, perché qui davvero non c'è più posto. Però, e qui sta il nodo, noi abbiamo sistematicamente distrutto quei luoghi - e li distruggiamo ogni giorno - li abbiamo resi inospitali, li abbiamo desertificati, li abbiamo privati di ogni risorsa naturale, li abbiamo sistematicamente distrutti.
Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant; hanno fatto un deserto e lo chiamano pace. E' la frase che Tacito fa dire al generale calèdone Calgaco per incitare i suoi soldati a combattere contro i romani. Il capitalismo ha creato il deserto in Africa e, pur avendo il pudore di non chiamarlo pace, lo definisce sviluppo. Perché anche noi del popolo in qualche modo godiamo di questo sviluppo e del fatto che miliardi di persone nel mondo sono sfruttate e che le loro terre vengono distrutte. Se tutti noi possiamo andare in giro con le nostre auto, telefonarci di continuo con i nostri smartphone, indossare le nostre magliette all'ultima moda, lo dobbiamo anche al fatto che da qualche parte del mondo un'enorme diga produce a basso costo l'energia elettrica che serve alle nostre industrie, dopo aver distrutto migliaia e migliaia di chilometri di terreno coltivabile, che da una miniera in qualche altra parte del mondo vengono estratti metalli, inquinando le falde e rendendo inutilizzabili i campi intorno, che in un'altra parte ancora c'è una grande fabbrica che getta nei fiumi inquinanti chimici, rende irrespirabile l'aria per gli uomini e gli animali, che i nostri rifiuti vengono scaricati in terre molto lontane da dove vengono prodotti. Pensate se qualcuno venisse in Italia e facesse quello che noi facciamo in Africa: noi saremmo costretti a scappare, perché nessuno vuole vivere dove non c'è acqua, dove la terra è piena di veleni, nessuno vuole vivere in una discarica. Noi in quelle terre abbiamo creato il deserto, abbiamo fatto in modo che non ci fosse più posto.
Di fronte a un fenomeno drammatico come queste migrazioni, anche quando siamo consapevoli del dramma che vivono quei popoli, non possiamo dire loro: venite qui che c'è posto. E' una menzogna e se ne accorgono loro per primi quando arrivano qui e rimangono confinati nelle brutte e sporche periferie delle nostre città, ai margini di una società che già espelle i propri elementi più poveri. Possiamo stringerci un po', occupare un po' meno posto, stare un po' più scomodi, ma c'è un limite fisico a questa accoglienza caritatevole, anche quando è animata dalle migliori intenzioni. E comunque questa forma di accoglienza è destinata a creare conflitto, ad acuire differenze che innegabilmente ci sono. Occorre invece spiegargli che qui non c'è più posto e che anzi siamo noi che dovremmo andare ad abitare in quelle terre, farle di nuovo vivere, coltivarle, renderle abitabili come erano un tempo.
Ma bisogna che prima di tutto noi diventiamo consapevoli che siamo arrivati al limite, che questo modello di sviluppo, che ci sembra così desiderabile, che ci sembra perfetto, sta distruggendo la nostra terra e alla lunga ucciderà noi e i nostri figli. Bisogna che capiamo noi per primi - in modo da spiegarlo anche a loro - che un sistema in cui pochissimi hanno la stragrande maggioranza delle ricchezze - in gran parte rubate a loro - e moltissimi hanno sempre meno non è giusto e che insieme, noi e loro, dobbiamo abbatterlo.
C'è abbastanza posto per tutti: è venuto il momento che ce lo prendiamo. In qualunque modo.

giovedì 24 agosto 2017

Verba volant (424): breve...

Breve, agg. m. e f.

Leggo che dall'anno scolastico 2018/19 verrà estesa a cento istituti italiani la sperimentazione, già avviata in questi anni in poche scuole, che prevede di ridurre da cinque a quattro gli anni delle superiori, in vista di quello che viene chiamato il liceo breve.
Francamente non ne vedo alcuna utilità pedagogica ed educativa, e mi pare non la vedano neppure quelli che hanno fatto questa proposta, dal momento che l'unico concreto vantaggio di questa ennesima riforma sarebbe quello di far risparmiare al paese circa 1,38 miliardi di euro, una volta che tutte le scuole superiori siano a regime, riducendo il numero degli insegnanti. Ovviamente in una società in cui tutto si misura sul denaro, questo rischia di essere un argomento determinante.
L'altro vantaggio è che i ragazzi sarebbero "maturi" già a diciotto anni, avendo quindi un anno in più in cui essere disoccupati rispetto a quello che avviene adesso. Secondo gli estensori della riforma, che risale al governo Letta, non dovrebbero esserci differenze tra gli istituti e quindi il programma che adesso viene svolto solitamente in cinque anni viene ristretto in quattro e anche l'esame finale rimane lo stesso. Anzi gli studenti "brevi" dovrebbero studiare di più, visto che la sperimentazione prevede che le singole scuole introducano attività innovative, ad esempio l'insegnamento di alcune materie in una lingua straniera.
Non avendo figli non so cosa esattamente succeda adesso, e le mie esperienze scolastiche risalgono alla fine del secolo scorso. Ricordo però già allora una certa qual difficoltà ad affrontare in maniera adeguata il Novecento, sia per quel che riguarda la storia che la letteratura e la filosofia. E da allora un po' di cose sono successe in questi campi, le pagine sono aumentate. Credo sarebbe ora che i nostri figli, a differenza di quel che abbiamo fatto noi, studiassero a scuola quel secolo, perché la conoscenza di quello che è avvenuto in quegli anni è fondamentale per capire il mondo in cui vivono e vivranno. Poi c'è questo fatto che il mondo si è allargato, dovrebbero saperlo anche al ministero. Certo è un limite della nostra impostazione eurocentrica non sapere cosa avveniva in Cina mentre in Italia c'era il Rinascimento o in India quando in Francia scoppiava la Rivoluzione, ma in qualche modo si può anche vivere senza sapere nulla di quelle storie così lontane da noi. Ma è impossibile applicare lo stesso criterio alla storia della seconda metà del Novecento: essere eurocentrici nel Novecento vuol dire semplicemente rinunciare a studiare la storia contemporanea.  
Sapete che mi piace studiare l'etimologia delle parole e quella di questo aggettivo è proprio significativa. Nella parola latina brevis, come in quella greca brachys, c'è una radice che nell'antico indoeuropeo significa strappare. Breve quindi non significa solo piccolo, ma anche rotto, lacerato, strappato appunto. Ecco questo liceo breve a me pare proprio che nasca come qualcosa di già rotto, qualcosa a cui è stato strappato a forza qualcosa.
I nostri figli non hanno bisogno di un liceo breve, ma di una scuola che funzioni, di una scuola in cui gli insegnanti siano considerati risorse e non costi, di una scuola che prepari al mondo. Non so quanti anni siano necessari per fare questo, quattro, cinque, sei, o forse è impossibile essere mai davvero pronti per il mondo, però bisognerebbe almeno provarci e anche accettare che avere una scuola che funziona, universale e gratuita, comporta dei costi, a cui tutti noi dobbiamo contribuire. Perché non possiamo continuare a lamentarci che il nostro paese non funziona e non investire nel solo campo che lo può far ripartire.

martedì 22 agosto 2017

Verba volant (423): merito...

Merito, sost. m.

Nei giorni scorsi non ho commentato le dichiarazioni della sindaca pd di Codigoro contro i migranti, che sono seguite a quelle del senatore pd contro le ong, che a sua volta sono seguite a quelle di un'altra esponente del pd sulla razza; e l'elenco potrebbe continuare. E certamente continuerà anche a settembre. Chi ha la pazienza di leggere con una qualche regolarità le cose che scrivo sa che io considero da tempo quel partito culturalmente di destra e quindi queste affermazioni mi stupiscono assai poco. Sapete anche che io considero tutto il pd un partito di destra, perché non ho mai accettato l'alibi di renzi: il pd non è quello che è perché a un certo punto è arrivato renzi. Fosse così, di conseguenza, cacciando renzi, diventerebbe un partito di sinistra; invece il pd è nato per essere un partito di destra e tutti quelli che l'hanno guidato in questi anni hanno dato, a vario modo, il loro contributo a questa involuzione. Di questo gli amici che sono transitati nella "cosa" bersaniana non vogliono parlare, eppure è il punto dirimente. Ma proviamo ad andare avanti.
A questo punto mi interessa capire come siamo arrivati fino a qui. Credo che ragionare su questo non sia ozioso, visto che tanti amici e compagni in queste settimane sono impegnati nella costruzione di una "nuova" sinistra in Italia. Quantomeno noi della "vecchia" sinistra, noi che in questi vent'anni abbiamo provocato tutto questo, dovremmo offrire loro alcuni strumenti affinché non commettano i nostri stessi, esiziali, errori.
Una delle cause di questo suicidio è stato il nostro poco coraggio. Partendo dall'assunto che l'Italia sia un paese culturalmente di destra - quante volte lo abbiamo sentito ripetere in questi anni da autorevolissimi nostri esponenti - abbiamo avuto paura di dire, e soprattutto di fare, cose di sinistra. Certo ci sono caratteri originari distintivi di ogni paese, ma questa visione così schiettamente determinista, e in fondo razzista, è sbagliata. Certamente ognuno di noi tende naturalmente a pensare prima a se stesso e alla propria famiglia che agli altri, ciascuno di noi è naturalmente di destra: homo homini lupus dicevano gli antichi. Poi ci hanno insegnato negli anni che essere di sinistra, essere solidali, smettere di credere che la sfortuna degli altri sia la nostra fortuna, è non solo eticamente giusto, ma anche utile, perché certe conquiste si fanno quando si combatte insieme, quando si cominciano battaglie che sembrano solo a favore degli altri, che parrebbero non riguardarci nell'immediato, ma che tra qualche anno potrebbero essere vitali per noi e per i nostri figli.
In questi vent'anni abbiamo smesso di proporre questo ragionamento apparentemente banale, eppure a suo modo rivoluzionario, e ne abbiamo assunti altri, sempre dando maggior peso all'individuo che alla collettività. Ci sono parole che in questi vent'anni si sono insinuate nel nostro vocabolario e che in qualche modo sono diventate infestanti: una di queste è merito, non a caso una delle parole chiavi della prima Leopolda, quella in cui c'era anche Civati. Apparentemente sembra un ragionamento di buon senso che uno debba essere valutato in base alle sue capacità: nel paese in cui i notai sono figli di notai, i giornalisti figli di giornalisti, gli attori figli di attori, e così via di casta in casta, parrebbe perfino rivoluzionario proporre un sistema per cui il figlio dell'operaio può diventare avvocato.
Però l'idea che stava dietro a questa proposta era che tu che eri nato in una famiglia di operai dovevi fare di tutto per diventare avvocato e l'accento cadeva solo sul tu, che dipendesse solo da te; e quindi che fosse solo una tua battaglia. Non veniva mai messo l'accento su cosa dovevamo fare tutti noi, indipendentemente dal fatto che avessimo o meno dei figli, affinché anche tu potessi studiare.
Perché tu possa avere un'educazione occorre che tutti noi - anche noi che non abbiamo figli - paghiamo più tasse per garantire a te, con cui non abbiamo alcun legame, una istruzione di qualità, universale e gratuita. Invece in questi anni, mentre dicevamo che bisognava valorizzare il merito, abbiamo anche detto che bisognava diminuire le tasse, e il modo più veloce per farlo è quello di tagliare i servizi. Quindi noi che non abbiamo figli non dobbiamo più curarci dell'istruzione di quelli degli altri, mentre quelli che ne hanno debbono fare più sforzi. E ovviamente solo una famiglia che ha molte risorse può garantire ai propri figli un'istruzione di qualità. Quando si parla di merito senza inquadrare questa idea in uno sforzo collettivo, si scivola fatalmente a destra, perché ciascuno di noi farà di tutto per garantire un futuro migliore ai propri figli, anche a scapito del futuro dei figli degli altri, anzi soprattutto a scapito loro, perché in una società in cui le risorse si riducono tutti vogliamo correre per prendere qualcosa prima degli altri, dimenticando che l'unica battaglia che vale la pena combattere è quella di aumentare le risorse disponibili, prendendole ai pochi che ne hanno molte, affinché tutti ne possano godere, anche quelli che fanno più fatica a correre.

lunedì 21 agosto 2017

Verba volant (422): matto...

Matto, sost. m. e agg.

E' triste, e in qualche modo sconfortante, il destino dei grandi artisti comici che, alla fine della loro carriera - e specialmente dopo che sono morti - vengono ricordati soprattutto per la bravura che hanno dimostrato nei ruoli drammatici. Anche Jerry Lewis non è stato sottratto a questa sorta di damnatio memoriae. Certo è stato grandissimo in Re per una notte di Martin Scorsese - come Totò è stato incredibilmente intenso nei ruoli drammatici e grotteschi che Pier Paolo Pasolini ha creato per la sua maschera - ma io credo che quell'interpretazione non valga di più delle gag del "picchiatello" in cui sapeva usare e sfruttare il suo corpo come nessun altro; e come per l'artista napoletano la scena del wagon-lits vale più di tutto Uccellacci e uccellini.
Questa forma di supponenza per cui solo il teatro e il cinema "seri" sono arte vera, mentre i comici devono stare un passo indietro è francamente insopportabile, perché far ridere è difficilissimo; in fondo anche una cipolla sa farci piangere. E infatti sono molto pochi gli artisti comici che ricordiamo.
E in fondo pensiamo che i comici siano un po' meno artisti degli altri perché sono anarchici, perché non rispettano le regole, perché sono cinici e cattivi, perché mettono alla berlina la parte peggiore di noi. Perché ne abbiamo paura.
E come dice il Matto in Re Lear 
Adesso non sei altro che uno zero senza cifre davanti.
Io posso dire d’essere più di te:
io sono matto, almeno, tu non sei nulla di nulla.

venerdì 4 agosto 2017

Verba volant (421): morboso...

Morboso, agg. m.

Un portavoce di Channel 4, per giustificare la controversa scelta di quella rete televisiva di mandare in onda alcune registrazioni audio in cui Diana Spencer parla a ruota libera della propria sfortunata vita coniugale, ha detto che sono una "importante fonte storica" e che, in quanto tale, meritano di essere conosciute. Si tratta ovviamente di una forma di ipocrisia, celata in maniera davvero troppo grossolana.
La questione non è giudicare se la vicenda umana di Lady D sia storia o no, come molti fanno in questi giorni, magari con sufficienza verso una vicenda che considerano inutile gossip
Personalmente credo che sia storia a tutti gli effetti, perché raccontare la vita e la morte di quella giovane donna è necessario per capire la trasformazione della nostra società alla fine del secolo scorso, compresa l'invadenza che ha assunto un certo modo di fare informazione. Il film The Queen di Stephen Frears è illuminante su quello che è avvenuto in quei giorni, su come si è creato quel mito popolare. Credo sarebbe difficile raccontare la storia del Regno Unito degli ultimi trent'anni senza dedicare una particolare attenzione a questa icona pop. Almeno quanto i Beatles sono indispensabili per comprendere la storia inglese tra i Sessanta e i Settanta. O come la vita di Marilyn racconta la storia degli Stati Uniti degli anni Cinquanta. In questo contesto le parole di Diana - peraltro già conosciute dagli storici e dal pubblico - non sono particolarmente significative: servono a descrivere e a conoscere un po' meglio la donna, ma non aggiungono nulla al personaggio. E per la storia Lady D è molto più importante della signora Diana Frances Spencer coniugata Windsor; Diana era una donna intelligente e immagino ne fosse perfettamente consapevole, o almeno ha dato l'impressione di esserlo.
E anche questa ultima squallida storia della messa in onda delle registrazioni dovrebbe servire agli storici delle prossime generazioni per raccontare quello che purtroppo siamo diventati, quello che vogliono diventiamo. Quelle registrazioni sono pura pornografia e dato che la pornografia fa vendere i giornali e fa crescere gli ascolti, i dirigenti di Channel 4 hanno deciso che in questo modo potranno garantire un sostanzioso vantaggio ai propri azionisti, perché tante aziende vorranno acquistare gli spazi pubblicitari all'interno del programma e perché questa polemica - anche io che ne scrivo in questo piccolo blog di provincia - contribuisce a dare notorietà alla rete. 
Domenica 6 agosto milioni di persone si sintonizzeranno su quel canale per sentire quello che hanno già letto, per ascoltare quello che già sanno che ascolteranno. Non c'è nessuno scoop, solo curiosità morbosa e il bisogno, ancora una volta, di essere uno in mezzo a una folla. In fondo anche i funerali di Diana furono questo rito spersonalizzante, eppure capace di creare identificazione, l'ultima volta - forse - che milioni di persone in quel paese si sentirono popolo. Crea sconforto pensare che l'unica cosa che sembra capace di ricreare questa unione sia questa attesa di guardare nel buco della serratura, spiare Diana nuda, fragile. Siamo una società ben misera, quando godiamo di questa sua debolezza. 
In un mondo in cui tutto si misura con i soldi, queste registrazioni rubate e sostanzialmente inutili diventano preziose e, in nome di quei soldi, ci si dimentica come state ottenute, quanti passaggi sono stati fatti, ci si dimentica che sono state comprate e vendute. E in fondo ci si dimentica anche della persona che è la vittima di questo sordido commercio. E il corpo di Lady D è solo un'altra cosa da vendere, nella speranza che da qualche parte esca una nuova fotografia o magari un nuovo filmato per riaprire bottega.

giovedì 3 agosto 2017

"3.30 a.m." di Sam Shepard

è un gallo
o una donna che strilla in lontananza
-
è cielo nero
o sul punto di farsi blu cupo
-
è una stanza di motel
o la casa di qualcuno
-
è il corpo di me vivo
o morto
-
è il Texas
o Berlino Ovest
-
che ore sono comunque
-
quali pensieri
posso chiamare alleati
-
imploro una tregua
da tutti i pensieri
-
una pausa pulita
in spazio bianco
-
lasciatemi battere la strada
a testa vuota
-
almeno una volta
-
non sto elemosinando
non mi butterò in ginocchio
-
non sono in condizioni di combattere

martedì 1 agosto 2017

Verba volant (420): omicidio...

Omicidio, sost. m.

Quando avviene un omicidio sappiamo sempre chi è la vittima - magari non ne conosciamo il nome, ma il suo corpo è lì, di fronte a noi, e ci racconta una storia, per quanto frammentata e incompleta - ma non sempre conosciamo l'uccisore; tanta letteratura nasce proprio da questa contraddizione, dalla volontà di superare questa differenza, scoprendo alla fine il responsabile di un omicidio, la cui vittima avevamo conosciuto nelle prime pagine del libro.
La vita - come sapete - è spesso più complicata della letteratura. Lo scorso 14 giugno sono state uccise a Londra ottantasette persone. E' stato molto difficile recuperare quelle salme, è stato ancora più difficile identificarle, ma alla fine le vittime ci sono, con i loro nomi e le loro storie. Non sappiamo chi sono gli uccisori, forse non lo sapremo mai, appunto perché nella vita le storie faticano a chiudersi. Probabilmente molti di voi non sono neppure d'accordo sul fatto che l'incendio della Grenfell tower sia stato un omicidio, molti preferiscono parlare di disgrazia, di uno sfortunato accidente, e quindi credono sia inutile cercare i colpevoli. Io invece sono tra quelli che considera la strage in quel grattacielo di North Kensington un "omicidio di classe", ossia un delitto compiuto dalla classe dei ricchi contro quella dei poveri. E, come ogni omicidio, richiede giustizia.
Si è trattato di un omicidio perché l'amministrazione di Kensington e Chelsea, che ha fatto costruire quell'immobile all'inizio degli anni Settanta e ne è ancora proprietaria, non ha voluto spendere le cinquemila sterline necessarie per i rivestimenti antincendio né ha voluto installare elementari dispositivi di sicurezza. Non ha voluto farlo perché si tratta da sempre di un'amministrazione governata dai conservatori, che non si curano di quelli che vivono in quel grande palazzo, che non votano certo per loro. Mentre quella stessa amministrazione ha deciso di ridurre di cento sterline l'imposta sugli immobili per i cittadini più ricchi, che invece votano per i conservatori. In sostanza gli amministratori di Kensington hanno tolto soldi ai poveri per darli ai ricchi. E questa scelta ha causato la morte di ottantasette poveri: si tratta evidentemente di un omicidio, appunto di un omicidio di classe.
Nessuno ha brandito un coltello, non si è sentito uno sparo, non ci sono segni di strangolamento, ma l'omicidio è avvenuto. Il responsabile è il funzionario che, dopo aver fatto i conti con la sua calcolatrice, ha risposto no alle richieste del comitato degli affittuari della Grenfell tower? Forse sì. Sono i consiglieri che hanno votato quel bilancio, in cui non era stata stanziata quella somma ridicola? Forse sì. Nessuno di loro ovviamente ammetterà di essere colpevole, forse sono perfino in buona fede quando giurano e spergiurano che non è stata colpa loro, che non pensavano che quel loro calcolo, fatto forse troppo velocemente, perché c'erano tante altre cose da fare, perché stava per finire l'orario di lavoro, o quel loro voto su un testo complicato - quanti di noi che siamo stati amministratori comunali abbiamo mai letto tutte le voci dei bilanci che abbiamo approvato? - provocasse tante vittime. Sono sinceri quando se ne dolgono. Ma questo non attenua le loro colpe.
Come noto, Hannah Arendt intitolò La banalità del male il libro in cui raccontò il processo contro Adolf Eichmann, un travet dell'Olocausto; la filosofa tedesca, parlando di quegli uomini che organizzavano lo sterminio, scrive "le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso". Qui abbiamo assistito allo stesso dramma: persone normali che compiono atti mostruosi.
I ricercatori della Royal Society of Medicine hanno dichiarato, a seguito dei loro studi, che i tagli al servizio sanitario hanno causato nel solo 2015 in Inghilterra quasi trentamila "morti supplementari". Quante buone ragioni ci sono state dietro quei tagli, quante giustificazioni, a volte anche fondate, hanno spinto a quelle scelte, magari per lottare contro gli sprechi? Però non cambia la situazione: quelle trentamila persone oggi sono morte a causa di quelle scelte "innocenti". Come i morti della Grenfell tower.
E come migliaia di persone che muoiono ogni giorno a causa di questo conflitto brutale che le forze del capitale hanno dichiarato contro di noi. Poi spesso di quelle vittime non abbiamo neppure notizia e crediamo che gli omicidi che non conosciamo siano un po' meno gravi. In fondo quelle trentamila persone sarebbero morte comunque: erano vecchi, erano ammalati, erano poveri di cui nessuno si curava. Tante vittime muoiono in altre parti del mondo: perfino ci commuoviamo quando sappiamo che sono annegati a pochi metri dalle nostre spiagge, ma ne muoiono molti di più cercando di attraversare il deserto, molto lontano da qui, e questi non sappiamo proprio chi siano, non sappiano neppure che ci sono e quindi per noi non sono vittime. Oppure muoiono nelle fabbriche e nelle miniere in Cina e in India: quando va bene si tratta di dati statistici, ma non di vittime. Invece ogni povero che muore, ogni povero che viene ucciso, perché qualcuno lo ha sfruttato, perché qualcuno gli ha tolto la terra o l'acqua, perché qualcuno ha lucrato, risparmiando sulle sue cure o sulla sua sicurezza, è una vittima come noi.
E noi non possiamo più fare finta di nulla. Non possiamo più girarci dall'altra parte e non possiamo più adottare mezze misure. Per trent'anni abbiamo finto di non accorgerci di quello che stava succedendo, abbiamo detto che si trattava di disgrazie, che alla fine tutto sarebbe andato per il meglio, e abbiamo accettato queste vittime come danni collaterali. C'è la crisi, è stata la nostra giustificazione per ogni cosa; possiamo davvero mettere in sicurezza tutti gli edifici pubblici? E ci siamo risposti di no, nel migliore dei casi ci siamo dati delle priorità, i più bravi qualcosa hanno fatto: ma evidentemente non è bastato. Spesso negli omicidi ci sono anche i complici, la cui colpa non è meno grave di quella di chi materialmente preme il grilletto. Questa nostra inerzia, questa nostra paura ci ha reso complici. E per questo dovremo pagare, prima o poi.
Se non vogliamo continuare a esserlo - anche se questo non ci assolverà davanti alla storia - dobbiamo dire che c'è una guerra, che c'è qualcuno che sistematicamente vuole uccidere i poveri.  E contro questo sistema dobbiamo combattere.
Vediamo i denti del pescecane, vediamo il sangue della sua vittima, sappiamo che la mano che ha ucciso è coperta da un guanto, ma non possiamo più avere paura. E dobbiamo cominciare a difenderci. E dobbiamo pretendere giustizia.