Tento di fare il punto sulla situazione politica italiana; i più pazienti di voi avranno già letto alcune di queste idee nei numerosi cinguettii che dedico all'argomento, voglio provare qui a essere un po' più organico, visto che non ho vincoli imposti dal numero dei caratteri e soprattutto sono meno arrabbiato di quando mi capita di aggiornare il profilo di Twitter. Leggendo gli editorialisti del Corriere e di tutti gli altri quotidiani allineati alla tesi che Monti sia stata la più grande fortuna che poteva capitare al nostro paese, c'è una cosa - forse l'unica - su cui sono d'accordo con loro: dopo Monti il quadro politico è decisamente cambiato e non è possibile tornare indietro. Come la precedente fase della storia della repubblica, quella che dal '94 porta al 2011, è stata segnata - nel bene e nel male, a seconda da come la si vede - da Berlusconi, questa nuova è condizionata dalla figura di questo sobrio professore di economia, che parla così bene inglese e che ci fare bella figura quando va all'estero.
Pensavo che Monti avesse più coraggio e alla fine la smettesse con la finzione del governo tecnico, ma capisco che qualcosa debba pur concedere al presidente Napolitano, che sa bene, essendo un politico molto intelligente e di lunga esperienza, a quali forzature istituzionali è stato costretto per ottenere le dimissioni di B. e per far nascere questo nuovo governo. Francamente Monti potrebbe risparmiarci un po' della retorica sulla distinzione tra tecnici e politici, in cui si è incartato in questi giorni, anche perché credo che in Cina e in Giappone facciano una bella fatica a seguire i bizantinismi di questo dibattito. Personalmente troverei più onesto che Monti spiegasse - come avrebbe fatto la Thatcher - che persegue una chiara politica a difesa dei mercati, anche quando questa penalizza i lavoratori e le classi più deboli della popolazione, invece che continuare a fare fumosi discorsi sull'interesse nazionale: caro presidente, ci vuole anche un po' di coraggio per essere di destra, non è che basta solo il paternalismo. In Italia c'è un esecutivo assolutamente politico, di chiara impronta liberista - di destra per usare una chiara categoria novecentesca, di quelle che piacciono a me - che poggia su una base parlamentare molto ampia, simile alla cosiddetta grossekoalition che ha governato in Germania negli anni passati. E questo governo sta facendo chiare scelte: con la riforma del mercato del lavoro, così come con quella delle pensioni e le liberalizzazioni, i provvedimenti di Monti si scaricano sempre e soltanto sui lavoratori, dimostrando un'idea quantomeno squilibrata della coesione sociale; come dice giustamente Camusso "l'attenzione che questo governo dedica al mercato non ha altrettanta attenzione alla coesione sociale e alla condizione dei lavoratori". Nell'azione del governo Monti ci sono, a mio parere, alcuni problemi, di metodo e di merito.
Partiamo dal metodo. Solo adesso, e molto timidamente a dire il vero, Pdl, Pd e Udc - faccio notare per inciso che Fini è ormai fuori dai giochi, è stato un ballon d'essai, alla faccia di tutti i commentatori che prevedevano che avrebbe incarnato la nuova destra - ammettono di far parte organicamente della stessa maggioranza; per alcune settimane hanno giocato di rimessa, dicendo che il loro voto di fiducia era condizionato dall'emergenza economica, dal rischio della crisi: tutto pur di non finire come la Grecia. Adesso che siamo apparentemente un po' più lontani dal paese ellenico, nonostante i tre partiti tentino di alzare un po' la testa, provino a spiegare che il loro voto è determinante, il governo non manca occasione per ricordare che devono stare al loro posto. Finora - e questa, con buona pace di Napolitano, è un'assoluta anomalia - il governo è andato avanti con un mix di decreti legge e di voti di fiducia; è stata riscritta, come mai prima - neppure nei sogni più sfrenati di B. - la costituzione materiale della nostra repubblica, con il passaggio del potere legislativo dal parlamento al governo. I partiti non si possono permettere di far cadere questo esecutivo e quando sono messi alle strette, seppur con molti e ripetuti mal di pancia, sono costretti ad ingoiare l'amara medicina. Immagino accadrà qualcosa di analogo anche con il provvedimento sul mercato del lavoro. Le avvisaglie già ci sono. Napolitano e Monti non perdono occasione per dire che non siamo ancora usciti dalla crisi e quindi serve senso di responsabilità, gli investitori internazionali fanno sentire il loro peso e, non appena vedono che c'è una qualche opposizione contro il tentativo di limitare i diritti dei lavoratori, vendono titoli di stato e fanno alzare lo spread, dato subito enfatizzato dai giornali: un meccanismo perfetto e ormai assolutamente rodato.
Credo sia facile prevedere che nei prossimi giorni i dati economici saranno negativi e quindi i partiti - e soprattutto il Pd - dovranno accettare di votare l'abolizione di fatto dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori, nonostante le proteste dei cittadini e dei lavoratori, che spero saranno convinte e partecipate: almeno cerchiamo di cadere con onore. Già in questi giorni Monti ha spiegato che i cinesi non investono in Italia perché c'è una legislazione troppo severa che limita i licenziamenti: è naturalmente una bugia. Gli investitori cinesi cominceranno a comprare in Italia quando la crisi sarà ancora più grave, come stanno facendo in queste settimane in Grecia. Il porto del Pireo, ad esempio, è stato acquistato dai cinesi e lo stesso avverrà con grandi infrastrutture italiane, non appena i prezzi crolleranno e comincerà la svendita: occorre solo un po' di pazienza, ma si sa che gli orientali - perfino i capitalisti orientali - hanno questa dote. Non mi stupirei inoltre se nei prossimi giorni uscissero sui giornali nuove rivelazioni su scandali che coinvolgono uomini politici. In questo caso bisogna dire che Monti tiene i partiti - di maggioranza e di opposizione - per le palle - scusate l'eufemismo, ma l'immagine rende bene la situazione - ed è pronto a stringerle: il "caso Lusi" è lì, pronto a schizzare fango - meritato per altro - sul maggiore partito di centrosinistra e sul modo poco trasparente in cui è nato, da due sposi molto sospettosi che hanno optato per una rigida divisione dei beni. Casini, nonostante il beau geste di rinunciare ai benefici da ex presidente della Camera, deve far dimenticare qualche parente acquisito un po' troppo disinvolto e dirigenti locali ancora più disinvolti. Nel Pdl c'è solo l'imbarazzo della scelta, così come nel ramo lombardo e di governo, della Lega. Con questi partiti è chiaro che Monti ha mano libera per fare sostanzialmente quello che vuole e quello che vogliono i mercati internazionali a cui egli risponde.
Sorvolo sul fatto che gli stessi tre partiti stanno preparando una riforma della legge elettorale destinata inevitabilmente - visti questi chiari di luna - a far proseguire anche nelle prossima legislatura l'esperienza del cosiddetto governo tecnico. Permettetemi su questo un piccolo spunto polemico. Leggo dichiarazioni allarmate di più o meno autorevoli esponenti del Pd, da vecchi soloni come Parisi a giovani rottamatori come Civati, che lamentano che questa nuova legge farà naufragare il bipolarismo italiano, sono le "vedove delle primarie" che piangono per il caro estinto; questi autorevoli esponenti sono gli stessi che poche settimane fa elogiavano il Pd perché aveva avuto il coraggio di gettare il cuore oltre l'ostacolo e di sostenere Monti. Sono sempre quelli che vogliono la botte piena e la moglie ubriaca: con Monti è finito il bipolarismo italiano, come giustamente enfatizza Casini. L'obiettivo finale, a cui sono ormai vicini, è il forte indebolimento del Pd - se non la sua chiusura tout court, partito che peraltro, grazie anche ai buoni uffici di queste prefiche, si è suicidato gettandosi con passione tra le braccia di Monti.
E veniamo al merito. E' chiaro ormai dove ci vogliono portare: pensioni sempre più basse e destinate a una platea sempre più esigua di cittadini, salari sempre meno certi e soprattutto sempre più in balia di scelte che c'entrano poco con le dinamiche imprenditoriali, progressiva riduzione dei diritti dei lavoratori. E su questo la battaglia è culturale prima ancora che politica. Fino a quando valuteremo il progresso di un paese in base alla crescita del pil e all'aumento complessivo della ricchezza, saremo destinati a non uscire da questo circolo vizioso. Il problema non è come rispondere alle domande che ci pongono i mercati internazionali, ma semplicemente rifiutare la logica di quelle domande. Non è possibile affrontare temi importanti, come l'introduzione di un reddito di cittadinanza o l'aumento dei finanziamenti alla scuola e alla ricerca o ancora l'avvio di un piano nazionale di lavori pubblici per mettere in sicurezza il territorio, ipotizzando un semplice spostamento da una posta di bilancio a un'altra di fondi in gran parte "virtuali". La crescita intesa astrattamente non può essere un obiettivo; il vero obiettivo deve diventare l'autogoverno dei processi economici. La conversione ambientale nei settori decisivi dell'efficienza e dell'approvvigionamento energetico, dell'uso razionale delle risorse, dell'agricoltura e dell'alimentazione, della gestione del territorio, dell'educazione e della ricerca, è una prima approssimazione al concetto di autogoverno. La conversione ecologica ha bisogno in ogni luogo della partecipazione e del concorso delle forme attraverso cui si esprime la cittadinanza attiva.
Monti spiega - e su questo giustifica il suo governo - che la sue riforme sono finalizzate al fatto che l'Italia non fallisca. Al punto in cui siamo questa prospettiva non è eludibile. Il problema è se ci arriveremo dopo aver spolpato i lavoratori di tutto quello che hanno conquistato nel corso del secolo scorso e dopo aver svenduto alla finanza internazionale tutto il vendibile; oppure se la dichiarazione di insolvibilità arriverà prima delle svendite, perché la mobilitazione popolare avrà imposto un cambio di rotta. Come sapete, io non sono ottimista e credo che siamo ormai su un piano inclinato che ci porterà verso la prima opzione.
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