mercoledì 23 gennaio 2013

Considerazioni libere (333): a proposito di una sconfitta...

Evidentemente i "nostri" governi non sono ancora riusciti a elaborare una strategia di risoluzione delle controversie internazionali che prescinda dall'utilizzo delle forze armate. Sarebbe interessante capire se questa elaborazione - di cui si trovano gli spunti più nobili nei discorsi di Wilson all'indomani della fine della prima guerra mondiale e nell'art. 11 della nostra Carta costituzionale - sia davvero mai cominciata. Buon ultimo, anche il presidente socialista Hollande ha iniziato la "sua" guerra, in Mali, dopo aver assicurato in più occasioni che la Francia non sarebbe più stata coinvolta in conflitti regionali. Naturalmente ci sono buone e perfino nobili ragioni per giustificare questo nuovo conflitto africano, i cui esiti sono ancora incerti e di cui sono molto dubbie le prospettive: i "ribelli" che stanno cercando di prendere il potere in quello stato africano sono integralisti islamici, alleati di al-Qaeda, che cercano di estendere la loro influenza in tutto il Sahel.
Al di là di questi nobili motivi, ci sono poi le ragioni dettate dalla Realpolitik - le ragioni politicamente comprensibili, anche se non sempre possibili da esplicitare - che hanno spinto il governo francese all'intervento. Il Mali è una ex-colonia di Parigi e un totale disinteresse francese per questo conflitto avrebbe rappresentato - al di là delle reali intenzioni di quel governo - una sorta di disimpegno totale verso tutta l'Africa francofona, dove peraltro la Cina è già molto più influente dal punto di vista economico e commerciale di quanto lo sia la ex potenza colonizzatrice. Poi dal confinante Niger arriva l'uranio che fa funzionare le centrali nucleari francesi e quindi una vittoria jihadista in Mali metterebbe in serio pericolo queste forniture strategiche. Inoltre, a ogni latitudine, un conflitto contro un nemico esterno è sempre una mossa dalle inevitabili ripercussioni di politica interna: forse a Parigi qualcuno ha pensato che questa guerra fosse uno strumento adatto per risvegliare l'attaccamento del paese verso la presidenza, specialmente da parte di quel settore più conservatore del paese che ha diversi motivi per non amare un uomo come Hollande, "colpevole" di voler sancire per legge le famiglie omosessuali.
Hollande naturalmente ci ha spiegato che questa guerra è un nuovo capitolo del confronto globale tra l'occidente e l'integralismo islamico e sulla base di questo assunto anche gli altri governi europei hanno timidamente seguito l'irruente alleato. Anche il nostro governo ha promesso di fare la propria parte, senza un preventivo confronto con il parlamento; ma a questo andazzo ormai ci dovremo sempre più abituare. C'è il rischio effettivamente che il Mali diventi una nuova Somalia, in un'area ben più strategica e ricca rispetto al Corno d'Africa. Certo proprio l'esperienza somala dovrebbe insegnarci qualcosa: l'intervento statunitense, così carico di buone intenzioni - erano gli anni del democratico e "globalizzante" Clinton - ha di fatto peggiorato la situazione in quello sfortunato paese. Adesso la Somalia, nonostante l'intervento internazionale, anzi proprio a causa di quell'intervento, è un paese senza un governo e una qualsivoglia struttura amministrativa, in cui comandano i signori della guerra e in cui sono molto attivi i movimenti jihadisti, che hanno lì basi e campi di addestramento. La popolazione è stremata da anni di guerre, con tutto quel che ne consegue in termini di distruzioni e carestie; anche per le organizzazioni umanitarie la Somalia è ormai "perduta". Ovviamente non è facile parlare della situazione in Somalia, senza citare le pesantissime responsabilità dei governi occidentali, soprattutto degli Stati Uniti, ma anche nostre, e quindi su questo argomento in Italia si preferisce sorvolare, dimenticare, far finta di niente: le sconfitte bruciano sempre. Comunque per avere un'idea di quello che è oggi la Somalia, basta leggere quello che è scritto nel sito Viaggiaresicuri, al netto del linguaggio burocratico e asettico dei tecnici della Farnesina.
Questo ennesimo intervento occidentale, al di là dei risultati militari che in una prima fase potrebbero anche essere dei successi - vista la sproporzione delle forze in campo - è destinato a far crescere in maniera inevitabile il movimento jihadista. Non ci vuole la sfera di cristallo: è successa la stessa cosa dopo ogni conflitto di questa natura, in Africa come in Medio oriente. I profughi di questa nuova guerra sono già stimati tra i 150 e i 200mila, anche se mancano cifre ufficiali e sono molti di più quelli che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi saranno costretti a lasciare i loro campi e le loro case; il turismo, che è una voce importante dell'economia maliana e degli altri paesi dell'area, subirà gravi danni da questa guerra, danneggiando ulteriormente, nel lungo periodo, un'economia già fragile. Tra questi nuovi poveri, tra le persone che hanno perso e perderanno ogni speranza è molto più semplice per gli esponenti dei movimenti più radicali trovare donne e uomini, spesso giovani e giovanissimi, disposti a tutto. Questi movimenti godono dell'appoggio politico e finanziario di stati potenti, come l'Arabia saudita - e anche su questo prima o poi dovremmo fare una riflessione su come scegliamo i nostri alleati - e quindi dispongono di risorse molto ingenti, che diventano di fatto l'unica forma di welfare per quelle comunità. In ogni parte del mondo il fanatismo si nutre della miseria e dell'ignoranza. Inoltre tutti questi interventi occidentali, pur con tutti i migliori obiettivi, finiscono sempre e comunque per favorire dei regimi - in Mali il governo "legittimo" sostenuto da Parigi è nato a seguito di un recentissimo colpo di stato - che si caratterizzano per una gestione autoritaria e antisociale del potere, per un elevato livello di corruzione, per l'accaparramento delle ricchezze dei loro paesi; è chiaro come tutto questo e la frustrazione di veder ancora una volta premiati i peggiori possa diventare terreno fertile per l'estremismo. Osservate una cartina del Mali - ne è pubblicata una nell'ultimo numero di Internazionale - praticamente tutto il paese - in particolare al nord, dove la guerra è scoppiata - è diviso in zone i cui diritti di esplorazione sono in mano a multinazionali occidentali, tra cui ovviamente anche la "nostra" Eni. Se ai giovani non si danno prospettive e se per loro l'Occidente è rappresentato da leader corrotti e antidemocratici e da grandi aziende che sfruttano le loro terre e che portano via le loro ricchezze, sarà difficile far crescere in loro uno spirito di collaborazione con noi.
E' una spirale che bisogna avere il coraggio di fermare, per non continuare ad alimentare un movimento integralista islamico che, al di là delle intenzioni, siano noi stessi i primi a sostenere. Anche in Mali occorre fermezza attraverso il dialogo politico. In quel paese c'è una moltitudine di gruppi che si trovano a condividere uno stesso territorio, alcuni dei quali - come i tuareg, che non sono mai stati inclini al fondamentalismo islamico - sono portatori di rivendicazioni legittime, dopo secoli in cui sono stati quasi sempre pacifici. Bisogna partire da queste rivendicazioni, cercare di rispondere ai problemi posti da questi popoli per togliere linfa alle formazioni terroristiche, che hanno tutto l'interesse a fomentare ogni tipo di revanscismo etnico. La prima vittima di questo conflitto è ancora una volta la popolazione, espropriata del diritto di decidere liberamente e autonomamente del proprio futuro, vittima a un tempo della violenza jihadista e degli attacchi - più o meno "intelligenti" - delle truppe occidentali.
Uno dei temi che manca in questa campagna elettorale - sono molti purtroppo - è la politica estera; questo nuovo conflitto sarebbe stata una buona occasione, ma mi pare che prevalga una certa tendenza a mettere la polvere sotto il tappeto. Non basta qualche velleitaria alzata di scudi e neppure il tardivo ripensamento bersaniano sull'incremento delle spese militari. Non è neppure questo in fondo il problema, è che servirebbe una diversa politica estera - o una politica estera tout court, vista la latitanza di questi anni - imperniata su alcuni principi chiari: agire in maniera preventiva per la stabilizzazione dei paesi del sud del mondo, investire sugli aiuti allo sviluppo, favorendo in particolare i progetti che riguardano le donne, sostenere i governi democratici e chi si batte per la democrazia e i diritti in quei paesi dove ci sono regimi autoritari, smettere di esportare armi, in particolare in qui paesi in cui non si rispettano i diritti umani, costruire forme di sviluppo alternativo, che non prevedano lo sfruttamento di altri paesi per garantire la crescita dei nostri. In Mali non stiamo seguendo questi principi e quindi questa guerra sarà l'ennesima sconfitta.

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