Sceneggiato, sost. m.
Propriamente si tratta di una forma verbale, il participio passato del verbo sceneggiare, ma ormai, diventata sostantivo, questa parola nell’uso comune indica una rappresentazione televisiva, spesso tratta da un soggetto letterario, trasmessa in più puntate.
A essere sinceri, ormai questa parola, nata da poco - visto che in questi giorni abbiamo festeggiato il sessantesimo anniversario della televisione in Italia - è ormai desueta, perché è stata sostituita dall'inglese fiction. Io sono affezionato a questa parola e continuo ad usarla, anche per un motivo che spero di chiarire nel corso di questa definizione.
Il 7 gennaio è stata trasmessa la prima puntata di un nuovo sceneggiato intitolato Gli anni spezzati, sul terrorismo e i cosiddetti anni di piombo. L'argomento è complesso e difficile, ma la televisione, in particolare quella pubblica, non dovrebbe fare solo cose semplici.
L’idea di fondo è quella di raccontare quegli anni attraverso tre storie esemplari, quella del commissario Luigi Calabresi, del giudice Mario Sossi e di un ingegnere della Fiat, un personaggio di fantasia che dovrebbe rappresentare la “maggioranza silenziosa“, uno dei quarantamila della marcia del 1980.
Le prime due puntate sono appunto quelle dedicate a Calabresi. Dopo aver visto un trailer, ho deciso di guardare la prima puntata, nonostante le polemiche che hanno accompagnato questo progetto e una certa ritrosia che ho ormai verso questi “nuovi” sceneggiati. Mi aveva attirato la scelta di affidare il ruolo del protagonista a Emilio Solfrizzi, che è un attore bravo, di quelli come c’erano una volta, come ha dimostrato - nonostante tutto - anche in questo lavoro. E poi questo è un tema che da sempre mi interessa molto.
La storia raccontata è complessa, tocca dei punti ancora scoperti della nostra storia recente, si tratta di una vicenda aperta su cui molti di noi hanno un’opinione in contrasto con la “linea” ufficiale. Chi ha commissionato questo lavoro è invece il “custode” di questa idea ufficiale e chi l’ha realizzato ha seguito questa linea: in fondo si attacca sempre l’asino dove vuole il padrone. Questo è lo sceneggiato della pacificazione, sempre invocata dall’uomo del Colle e pedissequamente seguita dai corifei della Rai: i “buoni” sono quelli dello stato e i “cattivi” i comunisti e gli anarchici. L’operazione almeno è scoperta, cosa che non è abituale ormai. Peccato che la bomba a piazza Fontana l’abbiano messa i “buoni” e che sempre gli stessi “buoni” abbiano ucciso il “cattivo” Pinelli, con buona pace di Napolitano.
Confesso di non essere arrivato in fondo alla prima puntata, non sono neppure arrivato al momento del racconto della strage di piazza Fontana e dell’uccisione di Pinelli, che pure è stato l’episodio centrale della vita di Calabresi.
Non sono riuscito a vedere tutta la prima puntata e non vedrò la seconda non perché il taglio della storia non sia il mio - lo sapevo dall’inizio - ma perché lo sceneggiato non è mai riuscito davvero a essere interessante, a decollare.
Se i primi “artigiani” della televisione hanno scelto di usare questa parola è perché la sceneggiatura era per loro l’elemento centrale, ancora più delle interpretazioni degli attori, che pure erano di altissimo livello. Avrei resistito alle ricostruzioni ideologiche arbitrarie e anche alle forzature storiche - leggo oggi che gli sceneggiatori hanno deciso che Pinelli si sarebbe suicidato, gettandosi volontariamente dalla finestra dell’ufficio di Calabresi, come scritto nei mattinali della Questura - ma non ho resistito alla sciatteria nello scrivere. La cosa purtroppo non è infrequente in televisione, anzi tanti più sono gli autori tanto più la scrittura ne risente.
E’ la stessa sciatteria che capita di trovare - va detto per onestà per non fare la Bignardi della situazione, che fa la televisione senza vederla - non solo in quel mezzo, ma anche nella stampa o qui in rete. Personalmente la considero un elemento non casuale né secondario della crisi del nostro paese.
Chi scrive - specialmente chi lo fa per mestiere - ha una responsabilità verso chi legge, ma anche nei confronti di quello che sta facendo. Anche se sapesse che nessuno lo leggerà non per questo dovrebbe farlo in maniera trascurata, senza seguire le regole che in questo lavoro - come in ogni altro - ci sono.
Spesso la differenza tra buona televisione e cattiva televisione sta tutta qui. Come tra il cattivo giornalismo e il buon giornalismo. La forma è anche sostanza.
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