La gerarchia comunista, che in quel '56 governava a Budapest, era chiaramente spaccata fra due leader in pesante conflitto: Rakosi, legato strettamente a Mosca, e Imre Nagy: un comunista di chiaro timbro moderato, divenuto primo ministro proprio sotto l'impulso che aveva messo in agitazione sia la fascia operaia sita nel cuore della capitale (prima di tutto nell'isola di Csepel), sia quella della zona orientale di Orzd e Diagoson. L'agitazione nelle officine di Csepel già aveva strappato con lo sciopero una sua vittoria, e presto la vicenda portò a un cambio del governo.
Cadeva Rakosi, e il moderato Nagy, appena salito al potere, parlò di "nuovo corso": cancellò buona parte dei sinistri "campi di lavoro", concesse un'amnistia ai prigionieri politici, e lasciò spazio allo scendere in campo di larghi gruppi di intellettuali, duramente critici verso il filosovietico Rakosi.
Mosca allora rispose licenziando Nagy. Presto da Budapest venne la risposta: il circolo Petofi trascinò nello scontro politico tutta una fascia di intellettuali, mentre prendeva corpo una corrente che invocava il ritorno di Nagy. E si giunse allo scontro aperto.
La scintilla fu il funerale pubblico di Làszlo Rajk, una delle vittime delle repressioni staliniane. A salutare quella salma scesero in piazza centinaia di migliaia di persone. E presto dalla cerimonia funebre si passò alla rivolta.
Si mosse in prima fila il circolo Petofi, alzando la bandiera dell'autogestione operaia e avanzando la rivendicazione di elezioni libere e segrete. La situazione divenne rovente quando il nuovo premier Gerò, tornato da un viaggio in Jugoslavia, pronunciò un violento intervento contro le masse in movimento. Una folla grande si raccolse dinanzi al Parlamento, resisté a una fiacca risposta della polizia, e poi si diresse verso la gigantesca statua di Stalin: sotto la spinta di un fiume di popolo la rovesciò a terra. Nulla parve piu eloquente di quel gesto, mentre una delegazione operaia varcava la soglia del Parlamento per esporre all'assemblea la proposta di uno statuto che sancisse nuovi diritti di libertà. A quel punto scattò l'azione repressiva dell'Avh (la polizia politica).
E fu il massacro della folla inerme.
Ma non bastò a fermare la rivolta. Anzi nei giorni che seguirono, la lotta di popolo crebbe: vennero disserrate le porte delle prigioni, e cominciarono a sorgere nelle fabbriche i consigli operai, che presto divennero il nucleo piu robusto dell'insorgenza.
Mentre si dispiegava quell'urto sanguinoso, io vissi l'errore piu grave della mia vita politica. Scrissi un editoriale per I'Unità che condannava la rivolta ungherese e aveva un titolo roboante: Da una parte della barricata a difesa del socialismo.
Purtroppo in quello scritto era gravemente falsa la rappresentazione dei fatti: in quei giorni il popolo ungherese difendeva la libertà del suo Paese dall'attacco armato di Mosca.
E il grande obiettivo della lotta per il socialismo, che ci muoveva, non poteva cancellare l'autonomia di nazione, e meno ancora la libertà di pensiero e di parola avanzate ormai sulla scena già dalle rivoluzioni borghesi, e poi divenute rivendicazione centrale nella spaventosa seconda guerra mondiale. Né erano possibili deleghe di potere a una minoranza carismatica per geniale ed ardita che essa fosse.
Insomma tornava una questione cruciale che già aveva spaccato il soggetto proletario a cavallo fra i due secoli, e aveva ritrovato ardore e pregnanza dinanzi alla minaccia e agli orrori del nazifascismo. Perciò la descrizione della barricata, che io davo in quel mio articolo, piu che sommaria era falsificante.
Tornava la grave domanda su ciò che erano I'Urss e lo stalinismo, e l'innovazione chrusceviana che tante speranze e dibattiti aveva alimentato.
Perciò la questione ungherese presto acquisì una valenza che andava oltre la sorte immediata di quel breve lembo d'Europa. E riguardava valori di fondo: essenziali anche per la costellazione politica che nei vari continenti guardava all'Urss come ad una guida. Il leninismo-stalinismo aveva vinto contro i nazisti agendo in un complesso e multiforme schieramento mondiale, in cui la rivendicazione delle libertà democratiche era un punto cruciale. Come poteva reggere un tale schieramento colpendo quelle conquiste di libertà, e appiattendo e cancellando le differenze così complesse e articolate che operavano nel suo campo?
Qui si rivelava tutta la sommarietà falsificante di quella mia immagine e rappresentazione della barricata.
Presto a Budapest dilagò la tragedia. Un primo appello sovietico alla resa ebbe come risposta la dichiarazione dello sciopero generale e l'assalto alle caserme dell'Urss. Mosca allora decise di fare evacuare da Budapest i reparti dell'Armata rossa, mentre la rivoluzione dilagava nel Paese con la formazione di centinaia di consigli operai, e la liberazione dei rivoltosi finiti nelle carceri.
Fu allora il momento di Nagy che diede vita a un nuovo governo, dichiarò l'uscita dal Patto di Varsavia e strinse con le forze in agitazione un accordo per concludere lo sciopero entro pochi giorni.
Invece era ancora tutto a rischio. Difatti ai primi di novembre scattò l'allarme che denunciava un movimento di truppe sovietiche sulla linea di confine. E all'alba del 4 novembre partiva il primo assalto delle truppe corazzate dell'Armata rossa, che presto dilagò in un lungo, selvaggio attacco ai vari quartieri della capitale. Csepel venne presa casa per casa, e quasi rasa al suolo. Nagy fu arrestato su una macchina dell'ambasciata jugoslava che tentava di recarlo in salvo: venne fucilato pochi anni dopo. L'Armata rossa fece calare un cupo silenzio sui quartieri operai. E alla testa del nuovo governo fu chiamato Janos Kadar (un fedele - o quasi a Mosca), che tentò l'avvio di una ricostruzione.
Ricordo quel giorno fatale del 4 novembre. Era una domenica, mi pare. Il 30 di ottobre da Mosca era venuta una dichiarazione ufficiale del Pcus che proponeva un rifiuto netto della guerra e il rilancio di una politica di intesa e di conciliazione fra le forze progressiste. C'era parso un gesto di speranza; e lo interpretammo avidamente, in redazione, come una svolta nella linea di Mosca. Lo mostrai con esultanza a Togliatti.
Perciò sconvolgente e amarissimo fu per me quel dì di novembre, che cancellava brutalmente nei fatti la linea proposta nel documento sovietico di pochi giorni prima, e dava il via all'aggressione.
La notizia grave dell'invasione sovietica, l'appresi al mattino al giornale, dove - non ricordo perché - ero passato (mi attendevo forse notizie di altro tono). Il foglio di agenzia che annunciava l'aggressione l'ebbi tra le mani verso mezzogiorno o poco più. Telefonai a casa e dissi a Laura che non andavo a mangiare. Mi chiese perché: risposi con una bugia. lo avevo un dialogo intenso con mia moglie: sapeva tutto delle mie inclinazioni politiche e non taceva sulle differenze fra di noi, anche se accompagnava - quando c'era - il dissenso sempre con una generosità (o indulgenza?) di chi ha una lettura larga della vita. Rifiutava gli anatemi: come fossero soprattutto stupidaggini. Aveva un gusto della formazione che alimentava il suo interesse verso gli altri: con un'attenzione ai deboli, ai feriti, starei per dire agli «erranti», come se la sua curiosità umana volesse scavalcare gli steccati piu pesanti, avvicinare i piu lontani. Quella mattina del 4 novembre però non avevo voglia di parlare: nemmeno con lei.
La redazione era semivuota. Frugavo nei miei pensieri. Girai per ore per le vie di Roma, solo e sempre interrogandomi su quell'aggressione che mi sembrava inspiegabile e infame.
C'era un cielo annuvolato quando giunsi - quasi alle soglie della sera - in casa di Togliatti a Montesacro. E gli dissi subito il mio sgomento più ancora che la mia sorpresa per quella invasione. Togliatti mi rispose asciuttamente: - Oggi io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più...
Non ebbi coraggio di replicare. Mi limitai a dire che non condividevo il suo giudizio. Poi rapidamente mi avviai verso casa. C'era ancora un giorno per preparare il giornale (che non usciva il lunedì). Ma io avevo in testa pensieri che scavalcavano la questione del giornale: e poi incisero su tutta la mia vita.
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