Sono certo di averlo già scritto da qualche altra parte di questo dizionario: io faccio molta fatica a definirmi come italiano. Non per iattanza o per fastidio verso la retorica patriottarda - non amo neppure la retorica di quelli che si definiscono anti-italiani - ma semplicemente perché non riconosco in questo aggettivo dei caratteri che possano definire quello che sono, quello che penso. Mi è molto più facile definirmi come emiliano, perché riconosco in questa terra - in cui sono nato e in cui sono nati i miei genitori - e soprattutto nelle persone che ci vivono dei caratteri che mi hanno formato nella mia vita politica e sociale. Ma soprattutto mi definirei europeo, perché la mia cultura è quella. Quella è la nostra cultura, anche se parliamo e scriviamo nella lingua codificata nell'Ottocento da Alessandro Manzoni e diffusa negli anni Cinquanta dalla Rai Tv, i nostri riferimenti affondano in una tradizione che è comune a questa parte del mondo, ossia l'Europa e le terre intorno al bacino del Mediterraneo. Le nostre comuni radici sono ad Atene, a Roma, a Gerusalemme, e la nostra storia è un crogiolo in cui hanno posto l'inglese Shakespeare, l'austriaco Mozart, il polacco Copernico, lo spagnolo Cervantes, l'olandese Rembrandt, il tedesco Kant, l'italiano Michelangelo, il russo Tolstoj, il francese Cartesio e tutti quelli che ho dimenticato e che, mentre leggete il mio parzialissimo elenco, adesso vi stanno venendo in mente.
Proprio perché anch'ìo mi sento più emiliano che italiano capisco quelli che sono orgogliosi delle proprie radici scozzesi o catalane o bavaresi o napoletane. Ma per gli stessi motivi fatico a capire come questo orgoglio possa diventare un programma politico. Evidentemente non basta il richiamo a una storia lontana - suppongo che pochi scozzesi al giorno d'oggi pensino alla Dichiarazione di Abroath del 1320 - o a una presunta purezza etnica - ci sono milanesi nati in Sicilia che votano Lega - e non basta neppure il fatto che ci siano politici che hanno costruito le loro fortune politiche su questi temi. Se non ci fosse un sentimento diffuso da parte di molti cittadini queste forze politiche sarebbero semplici elementi di folklore, come le ampolle del Po di bossiana memoria.
Le "piccole patrie" sono diventate per molte persone la soluzione possibile e auspicata, il tentativo di immaginare un altrove, in cui le cose potrebbero andare meglio rispetto a un mondo in cui vivono male. La vicenda scozzese è curiosa: il desiderio dei cittadini di quel paese di uscire dal Regno Unito sta crescendo in questi mesi grazie alla Brexit e anzi i leader politici scozzesi propongono di accelerare il distacco dall'Inghilterra in modo da continuare a stare nell'Unione europea, mentre nel resto dei paesi europei i movimenti politici autonomisti o indipendentisti hanno come principale avversario proprio l'Europa e alcune forze politiche basano tutto il loro programma sull'uscita dall'Unione.
Evidentemente per gli scozzesi, come per i catalani, come per tutti quei popoli che vogliono uscire da qualcosa, la cosa importante è appunto uscire, cambiare, non importa per andare dove. Di fronte a un mondo che non ci piace, in cui abbiamo perso tanti punti di riferimento, che fatichiamo a capire e in cui viviamo male, a causa della crisi, della mancanza di lavoro, di una povertà sempre crescente, pensiamo che ci sia un altrove in cui staremo meglio o almeno non staremo come stiamo adesso. E siccome adesso stiamo male, qualunque altrove rischia di essere una prospettiva migliore. Naturalmente quando si sceglie un altrove è più semplice scegliersene uno che in qualche modo conosciamo, in cui ci sentiamo meno spaesati, in cui abbiamo qualche punto di riferimento: cosa di meglio della terra in cui siamo nati o in cui abbiamo vissuto per tanti anni, in cui crediamo di poter riconoscere persone amiche o almeno persone che condividono le nostre stesse ansie, le nostre stesse paure, le nostre stesse speranze.
Si tratta evidentemente di un'illusione perché non staremo meglio in un altrove più piccolo - o più grande come vorrebbero gli scozzesi - staremo allora come stiamo adesso, se non abbiamo risolto le questioni che causano la nostra crisi, ossia la sperequazione nella distribuzione delle ricchezze, la mortificazione del lavoro, la crescita delle ingiustizie economiche e sociali, l'appropriazione di parte di pochissimi dei beni comuni. In un'altra epoca ci avevano insegnato che il nostro nemico, quello che ci faceva star male e che guadagnava dal nostro star male, ossia che ci sfruttava, non erano gli inglesi o gli spagnoli o gli africani, ma i padroni. E siccome i padroni non avevano confini anche noi non dovevamo avere confini. Paix entre nous, guerre aux tyrans recita un verso di un antico e purtroppo dimenticato canto di lotta, che si intitola, non a caso, L'Internazionale. I padroni continuano a non avere confini, anzi mai come ora il potere che ci sfrutta non è inglese o francese o tedesco, ma parla una lingua globale. E noi invece ci rifugiamo in queste identità, sempre più piccole, sempre più in lotta le une con le altre, sempre più deboli. Questa è la strada migliore per essere sconfitti.
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