Fermarsi, v. intr.
La cultura non si ferma, Milano non si ferma, la scuola non si ferma, l'economia non si ferma. Metteteci il soggetto che volete: in questi giorni pare che nulla si debba fermare. Come se ne avessimo paura. Come se noi esistessimo solo in quanto esseri che si muovono.
E se invece imparassimo a fermarci?
Questa drammatica vicenda ci pone di fronte a degli interrogativi assolutamente nuovi, a domande a cui non sappiamo rispondere perché non ci è mai capitato nulla del genere. Non è mai capitato a ciascuno di noi e non è mai capitato all'umanità. Naturalmente pestilenze ne sono già successe molte nel corso della storia, ma verosimilmente nessuno si aspetta che affrontiamo questa pandemia come venne affrontata la peste nera o la peste del Seicento raccontata da Manzoni o, per venire a un caso molto più vicino nel tempo, l'epidemia di spagnola che colpì il nostro pianeta alla fine del primo conflitto mondiale. Sappiamo, con più o meno precisione, cosa i governi, gli scienziati e i cittadini fecero allora, ma naturalmente praticamente nessuna di quelle soluzioni è applicabile al giorno d'oggi. Intanto perché la scienza ha fatto progressi enormi, perché le informazioni viaggiano a una velocità allora inimmaginabile, perché tutto è cambiato da allora. Perché in sostanza allora di fronte a una pandemia l'unica soluzione possibile era quella di sperare di non esserne colpiti. Unicamente una questione di fortuna: un po' poco, francamente.
Oggi abbiamo qualche strumento in più: sperare di scamparla è naturalmente sempre un'opzione, così come si può pregare una qualche divinità. Ma fortunatamente non è l'unica: altrimenti noi atei saremmo spacciati. Però non c'è la soluzione, si tentano approcci, si vagliano possibilità, in buona sostanza si prova a capire cosa è meglio fare, sperando sia quella giusta. Ma non è detto che la soluzione provata lo sia, non è detto che ci salverà.
Questa pandemia dovrebbe insegnarci come prima cosa - anzi come unica cosa - che di fronte a un problema così complesso è lecito non sapere. Tra quelli a cui abbiamo demandato, più o meno consapevolmente, più o meno volontariamente, il compito di prendere decisioni così importanti, io mi fiderei molto di più di qualcuno che andasse in televisione a dire: "Facciamo così e così, ma non sono sicuro che sia la cosa giusta da fare, mi sembra la migliore, ma forse sbaglio, comunque lo facciamo lo stesso. Grazie e scusate".
Noi stessi, nel nostro piccolissimo facciamo così. Pensiamo che adottare una serie di comportamenti piuttosto che un'altra sia ciò che salverà noi e le nostre famiglie, ma non ne siamo sicuri. Proprio per questo sarebbe giusto fermarsi, perché verosimilmente la prudenza è una buona consigliera. Fermarsi un mese è una buona soluzione? Allora fermarsi due è meglio. O no?
E se mentre siamo fermi pensassimo anche alla direzione che dobbiamo prendere quando ricominceremo a muoverci? Quando andiamo naturalmente pensiamo anche in quale direzione stiamo andando, ma non è verosimilmente l'unica cosa che facciamo, anzi probabilmente non è la cosa a cui dedichiamo più tempo. Quando andiamo in auto dobbiamo tenere d'occhio il contachilometri e la spia del carburante, dobbiamo guardare nello specchietto se qualcuno da dietro tenta di superarci, dobbiamo fare molte cose, e probabilmente non pensiamo a dove stiamo andando, lo sappiamo, lo abbiamo già deciso, e non c'è più il tempo per cambiare idea, anche perché fare un'inversione sarebbe davvero troppo pericoloso. Ma adesso siamo fermi. Approfittiamone.
Quando ci diranno che possiamo ripartire, perché dobbiamo per forza andare nella stessa direzione in cui andavamo prima, siamo certi che è quella la meta che vogliamo raggiungere? E se scoprissimo che stare fermi non è poi così terribile? O che magari che si può andare a una velocità più bassa? Perché non conta solo la meta, ma anche il modo in cui ci si arriva.
Non dobbiamo aver paura di stare fermi. Abbiamo già abbastanza paura di morire.
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