Francamente non è facile capire quello che sta succedendo in Thailandia; gli scontri violenti di questi ultimi giorni e la morte di un fotoreporter italiano hanno costretto i mezzi di informazione ad accendere i riflettori su quel paese, che - come avviene solitamente - sono stati rapidamente spenti (vuoi mettere come è più interessante la politica italiana).
Al di là del notorio provincialismo italiano, credo che uno dei motivi che rende difficile intervenire sulle vicende di quel paese - uno dei più importanti del sud-est asiatico, con i suoi 64 milioni di abitanti - sia la difficoltà a definire in maniera netta da che parte stare. Certo l'attuale governo, sostenuto dai militari e dalle cosiddette "camicie gialle", non ha alcuna legittimazione democratica, è stato imposto con un colpo di stato nel settembre del 2006, tacitamente accettato dalla comunità internazionale, e rifiuta di proclamare nuove elezioni. A onor del vero, il capo del governo deposto Thaksin Shinawatra era un personaggio che aveva qualche difficoltà a rispettare le regole democratiche; eletto con una grande maggioranza, anche grazie alla sua grande fortuna economica, con un programma di chiara impronta populista, dopo una prima fase in cui aveva avviato alcune riforme a favore delle fasce più deboli della popolazione, aveva cominciato a restringere gli spazi di libertà, imponendo suoi familiari e amici nelle principali pubbliche e approfittando della sua posizione per favorire le sue attività economiche. Si era presentato come una sorta di Bloomberg thailandese, ma ricordava piuttosto il nostro Berlusconi. A rendere ancora più incerta la situazione da un lato c'è lo stato di salute dell'anziano monarca, molto amato dalla popolazione, ma ormai fuori dalla vita pubblica, e lo scarso credito di cui gode il principe ereditario e dall'altro lato le tendenze indipendentiste della popolazione mussulmana del su del paese.
C'è però qualcosa nelle proteste di queste settimane che è destinato a durare, anche al di là del possibile ritorno dall'esilio di Thaksin. Le persone che in questi giorni sono scesi in piazza, hanno duramente lottato, hanno rischiato la loro vita, le cosiddette "camicie rosse", chiedono sì nuove elezioni e la fine dell'esilio di Thaksin, ma soprattutto chiedono di poter contare nella vita politica e sociale del paese. Bangkok è in pochi anni diventata il simbolo della crescita impetuosa dell'economia della Thailandia, è diventata una città moderna, internazionale, in cui sono andati a vivere e a lavorare donne e uomini che hanno progressivamente abbandonato le campagne: in due decenni la popolazione della città è quasi raddoppiata. Queste donne e questi uomini, e soprattutto i loro figli, che sono nati nella città e non si sentono ormai più parte del mondo agricolo tradizionale, ora chiedono di far sentire la propria voce, vogliono portare avanti le proprie rivendicazioni, vogliono diritti politici ed economici. Queste persone avrebbero bisogni di leaders capaci di guidare questa lotta, ma certo non potranno più essere ignorati, perché ora non vivono lontani dal centro del potere, ma sono lì, come hanno dimostrato in questi giorni, occupando il cuore commerciale della capitale.
Forse dovremmo cominciare a sostenere la lotta delle "camicie rosse"...
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