Sono passati quasi cinque mesi dal 13 gennaio di quest'anno quando un violentissimo terremoto ha distrutto la capitale di Haiti, Port-au-Prince. Dopo le prime settimane, in cui l'opinione pubblica mondiale ha seguito quello che stava succedendo nell'isola caraibica, i riflettori si sono ormai spenti e adesso è difficile sapere quale sia la situazione in quella terra infelice. Sui media italiani nessuna traccia, nonostante là continui a essere presente un nostro contingente militare, impegnato negli aiuti.
Fortunatamente, nei giorni scorsi è apparso sul New York Times un articolo di Damien Cave, che descrive bene quello che sta succedendo. Per quanto ho potuto vedere, in Italia la notizia è stata ripresa soltanto da Il Post.
Cave racconta l'esasperazione degli abitanti di Haiti, che vedono la ricostruzione sempre più come un miraggio. Le Nazioni Unite hanno stimato che il terremoto abbia distrutto 105.000 case e ne abbia danneggiate altre 208.000, per lo più a Port-au-Prince. A partire dall'inizio di maggio sono state distribuite alla popolazione circa 564.000 tende, sufficienti a coprire circa 1,7 milioni di persone; è stata un'azione importante, ovviamente apprezzata dalla gente - anche perché è iniziata la stagione delle piogge - ma il timore di molti è che queste tende rimarranno le loro "case" per molti anni.
Sui pochi muri rimasti, sulle macerie, gli haitiani hanno scritto "Abe Préval" e "Abe okipasyon", come se volessero lanciare un grido di aiuto, sperando che qualcuno abbia occhi e orecchie per captarlo. Préval è il presidente di Haiti, finora incapace di affrontare direttamente e con decisione la ricostruzione, ma anche il simbolo di una classe dirigente che sembra non offra alcuna valida alternativa. Alcuni funzionari dell'Onu tentano di tranquillizare la popolazione ricordando che il mandato di Préval scadrà a fine anno e si dovranno svolgere nuove elezioni presidenziali; questa per gli haitiani non è una prospettiva, da un lato perché non è affatto scontato che le elezioni si possano svolgere in queste condizioni, dall'altro perché non c'è nessuno che possa garantire una vera alternativa. La gente di Haiti chiede che la banca centrale garantisca i prestiti e allenti le richieste di garanzia per aiutare le piccole imprese che cercano di riaprire; e chiedono di abrogare la legge che prevede che le aziende che operino nel paese siano al 51% di haitiani, legge che limita di fatto la possibilità di stranieri di investire, anche per quegli haitiani che sono diventati cittadini degli Stati Uniti e ora vorrebbero fare qualcosa per aiutare il loro paese. Le strade continuano a essere invase dalle macerie, ma non è solo a causa del terremoto; la gente di Port-au-Prince, esasperata dalla lentezza governativa, ha cominciato a gettare in strada altre macerie, sperando che finalmente qualcuno decida di intervenire.
Damien Cave racconta quello che sta facendo Frank St.-Juste, un ingegnere che possiede una società di costruzione, che sperava che il terremoto costringesse le autorità pubbliche a introdurre procedure di gara più rigorose, criteri di pianificazione urbana che finora sono mancati ad Haiti. La società di St.-Juste ha avuto l'incarico da un amico che lavora per un'organizzazione internazionale di togliere le macerie su una collina vicino a Fort Nationale, uno dei quartier più colpiti dal sisma. Egli stesso ammette che questo "non è il modo giusto per farlo" e che non c'è un progetto, ha deciso lui da che parte cominciare, perché comunque " dobbiamo pur iniziare da qualche parte".
Avevo già avuto occasione di parlare di Haiti e della sfida che in quel paese si sarebbe giocata: il terremoto aveva dato la possibilità di segnare un nuovo inizio, ma probabilmente quella sfida la stiamo perdendo.
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