venerdì 2 marzo 2018

"Horror pleni" di Gillo Dorfles

La moltiplicazione inarrestabile degli oggetti, delle informazioni, delle sollecitazioni sensoriali fa sì che l’uomo d’oggi si trovi in una situazione del tutto diversa da quella, non di secoli, ma anche solo di una cinquantina di anni fa. Horror pleni significa estendere il concetto di ripulsa, di rifiuto, di orrore appunto, alla situazione di cui sopra: proprio come contrapposizione a quell’opposto concetto dell’horror vacui con il quale ci si è spesso riferiti all’attività di antiche popolazioni preistoriche, i cui graffiti nelle caverne e sulle pareti rocciose avevano, a quanto pare, tra le altre anche la funzione di vincere e sconfiggere l’horror vacui, ossia quel senso di sgomento che offriva l’assenza d’ogni segno e di ogni traccia umana. Se è accettabile, comunque, l’ipotesi che l’uomo dell’antichità più remota fosse posto di fronte a una situazione del tutto opposta a quella odierna, quella cioè di un immenso spazio-tempo da colmare, è altrettanto vero che l’uomo d’oggi è talmente lontano da una simile situazione da non poterla quasi immaginare, sicché il suo atteggiamento attuale dovrebbe essere (anche se spesso non lo è) quello di odio, timore, rifiuto di questa sovrabbondanza appunto di troppe immagini, troppi oggetti, troppo “rumore”. Ecco perché è più che comprensibile il verificarsi di tante recenti osservazioni e considerazioni - da parte di filosofi, sociologi, antropologi - contro la vertiginosa corsa alla ripetitività delle immagini, alla eccessiva velocità, all’inarrestabile marea di suoni, di rumori, che rendono ogni giorno più intollerabile la società nella quale viviamo. E soprattutto non è limitata a questi temi parcellari la vera ragione del fenomeno cui intendo alludere e che, invece, è molto più generalizzato e ha radici molto più profonde. Oggi, sotto l’etichetta di horror pleni vorrei procedere oltre: intendo, infatti, partire da un concetto che mi sembra non sia stato sufficientemente indagato, quello appunto del rifiuto del “troppo pieno”, del “troppo rumore” (non solo nel senso del brusio e del frastuono, ma anche nel senso usato dalla Teoria dell’informazione: rumore come opposto di informazione e dunque confusione di ogni messaggio). Gli esempi sono sotto i nostri occhi (e le nostre orecchie): basta affacciarsi alle finestre nella casa d’una nostra città, percorrere in macchina un’autostrada, osservare i muri delle metropoli e, prima di tutto, guardare e ascoltare lo spettacolo quotidiano della tv. Le nostre capacità percettive e mnestiche sono certo grandissime, ma hanno un limite. Inoltre sono destinate a ottundersi per l’eccesso di stimolazioni cui sono sottoposte. D’altro canto solo attraverso la pluralità degli stimoli - auditivi o visivi, nel caso degli spot televisivi e delle pubblicità stradali, ecc. - si ottiene una sufficiente sollecitazione, sempre con il sacrificio di quella pausa che, invece, dovrebbe accompagnare ogni fruizione estetica. Ci troviamo così di fronte a un colossale “inquinamento immaginifico”: l’eccesso di stimolazioni visive e auditive dovute ai giornali, fumetti, filmati, televisione, ma anche alla segnaletica del traffico, alle scritte luminose, ecc… ha fatto sì che non resti più nulla di libero da segni, segnali, indici. L’ipertrofia segnica ha raggiunto un parossismo per cui avvertiamo (o meglio dovremmo avvertire) sempre di più la necessità d’una pausa immaginifica. L’unica speranza è quando ci si presenta - inattesa e benvenuta - la tanto osteggiata pausa, quando finalmente ritroviamo un autore contemporaneo (musicista o poeta) che ci pone di fronte a qualche tentativo di ripristinare l’intervallo perduto, vincendo dunque l’horror pleni che pochi avvertono e che tutti invece dovrebbero temere. Questo mi sembra, davvero, uno dei pochi aspetti positivi che costituiscono il primo germe di una controffensiva alla nostra “civiltà del rumore”. Ecco, insomma, come il nostro auspicio d’un avvento generalizzato dell’horror pleni vuol essere e significare soprattutto la speranza e l’incoraggiamento all’uomo (alla donna) d’oggi di affermare la propria autonoma individualità, ristabilendo tra sé e il prossimo, tra la propria epoca e la successiva, tra le azioni quotidiane e le creazioni artistiche quella pausa, quel between, senza il quale l’umanità rischia di precipitare nell’orrore d’un “pieno” non più frammentabile e dominabile, e di divenire totalmente succube del “troppo pieno” e dell’eccessivo “rumore”.

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