giovedì 30 dicembre 2010
da "L'arte della commedia" di Eduardo De Filippo
Oreste Campese
(parte dal centro della ribalta per raggiungere la quinta di scena)
Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette...
(si ferma, si gira su se stesso e fissa il punto di partenza)
...sette passi. Poco più di cinque metri. Calcoliamo il doppio per misurare la metà del cortile: dieci. Bè, il cortile di un palazzo antico come questo è sempre quadrato: venti per venti. E' un bel cortile! Si potrebbe fare un discreto teatro. Quattrocento, cinquecento posti si tirerebbero fuori... Il resto, palcoscenico. Ma nemmeno un palcoscenico vero e proprio; una pedana sarebbe sufficiente. In fondo, il capannone non aveva che trecento posti a sedere. E il palcoscenico che era? Un boccascena di sei metri, questo è tutto. Sei metri, per quattro di profondità. Ho recitato quello che ho voluto, su quei pochi metri quadrati! Tutto Shakespeare e tutto Molière. Duemila anni di teatro si possono recitare su pochi metri quadrati di tavole. Perché contano qualche cosa gli scenari? Quali scenari ho mai avuto io? Pochi stracci dipinti da me stesso, alla buona, con quattro pennellate. Il torrione del castello, la sala del trono, la foresta... tutto lì! E il sipario? Una tendaccia che non scorreva mai liberamente: s'imbrogliavano le corde, s'impicciavano gli anelli... E il pubblico non diceva niente. "Pubblico rispettabile, perdonate l'incidente", e la chiusura della tenda la completavo io, vestito da Otello, da servo, da principe di Danimarca. Che conta? Una sera, la chiusura del sipario l'ha dovuta completare mia figlia, vestita da Ofelia. Mio figlio Gualtiero, nei panni di Romeo, non dovette inchiodare la ringhiera del balcone di Giulietta, che si era schiodata? "Pubblico rispettabile, due minuti di pazienza, se no la povera Giulietta la portiamo al pronto soccorso". Una risata, un applauso, quattro colpi di martello e l'attore riprende la scena dal punto in cui l'ha lasciata. Se gli riesce, e questo è affare suo, ristabilisce tra sé e i pubblico l'incantesimo del teatro. Gli attori della mia generazione li creavano apposta gli incidenti a teatro, per dare al pubblico la sensazione dell'imprevisto. E' proprio questo imprevisto che eleva il teatro a forma d'arte sublime, singolare, unica. Qualunque sforzo tecnico e finanziario che si può compiere per rendere il più possibile realistica una messa in scena potrà incuriosire il pubblico, ma lo lascerà sempre scontento di non avere potuto usare l'immaginazione. Le strade vere, le piazze vere, gli alberi, i saloni autentici, l'ampiezza di un panorama di montagna, di campagna, di mare... tutto questo lo spettatore lo pretende dal cinematografo... ma a teatro, la fantasia del pubblico, sollecitata dalla parola del poeta, se le crea come vuole e come le vede lui le scene in cui si svolge una determinata azione. l'esperienza tecnica e artistica di uno scenografo, anche se è geniale, non potrà mai dare tante versioni figurative per quante se ne creano gli spettatori, ognuno per conto proprio e in conformità dei propri gusti, della propria sensibilità e perfino dello stato d'animo che attraversa in quel momento... Quante volte, attaccandomi i baffi di Macbeth - io lo faccio coi baffi, Macbeth -, me li sono attaccati intenzionalmente appena appena un poco storti, perché a teatro la suprema verità è stata e sarà sempre la suprema finzione...
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E' una delle commedie di Eduardo che amo di più,anche se meno famosa.La vidi per la prima volta in TV (quando ancora il teatro aveva un posto d'onore in prima serata)tanti anni fa e ne rimasi affascinata:era il teatro che rappresentava se stesso,la sua magia e il suo inganno e nello stesso tempo era la vita.
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