martedì 30 agosto 2011

da "Le memorie di Adriano" di Marguerite Yourcenar

La meditazione della morte non insegna a morire; non rende l’esodo più facile, ma non è questo quel ch’io cerco. Piccola figura imbronciata e volontaria, il tuo sacrificio non ha arricchito la mia vita, ma la mia morte. Il suo approssimarsi ristabilisce tra noi due una sorta d’intima complicità: i vivi che mi circondano, i servi devoti, importuni a volte, non sapranno mai sino a qual punto il mondo non c’interessa più. Penso con disgusto ai tetri simboli delle tombe egizie: l’arido scarabeo, la rigida mummia, la rana dei parti eterni. A dar retta ai sacerdoti, t’ho lasciato in quel luogo ove gli elementi d’un essere si lacerano come un abito logoro che si strappa, in quel sinistro crocevia tra ciò che esiste eternamente, ciò che fu, e ciò che sarà. Può darsi che in fin dei conti essi abbiano ragione, che la morte sia fatta della stessa materia fluttuante e informe della vita. Ma tutte le teorie sull’immortalità m’ispirano diffidenza: il sistema delle retribuzioni e delle pene lascia freddo un giudice consapevole della difficoltà d’un giudizio. D’altra parte, mi accade altresì di trovar troppo banale la soluzione opposta, il puro nulla, il vuoto ove risuona la risata d’Epicuro. Osservo la mia fine: questa serie di esperimenti compiuti su me stesso prosegue il lungo studio iniziato nella clinica di Satiro. Fino a ora, sono mutamenti esteriori, quanto quelli che il tempo e le intemperie fanno subire a un monumento di cui non alterano né la materia, né la plastica: a volte, attraverso le crepe, mi sembra di scorgere e toccare le fondamenta indistruttibili, il tufo eterno. Sono quel che ero: muoio senza mutarmi. A prima vista, l’adusto fanciullo dei giardini di Spagna, l’ufficiale ambizioso che rientra nella tenda scrollandosi dalle spalle i fiocchi di neve, sembrano tanto cancellati quanto lo sarò io dopo che sarò passato attraverso il rogo; ma essi son qui; io ne sono inseparabile. L’uomo che ha urlato sul petto d’un morto continua a gemere in un angolo di me stesso, a onta della calma più e meno che umana alla quale partecipo già; il viaggiatore racchiuso nel corpo del malato orami sedentario per sempre s’interessa alla morte perché essa rappresenta una partenza. Quella forza ch’io fui sembra capace ancora di animare parecchie altre vite, di sollevare dei mondi. Se, per miracolo, qualche secolo venisse aggiunto ai pochi giorni che mi restano, rifarei le stesse cose, persino gli stessi errori, frequenterei gli stessi Olimpi e i medesimi Inferi. Una constatazione simile è un argomento eccellente in favore dell’utilità della morte, ma nello stesso tempo m’ispira dubbi sulla totale efficacia di essa.

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