Ad ogni modo, in questi giorni non stiamo discutendo nel merito del progetto, confrontandoci su conti economici e prospettive di sviluppo; la vicenda della Tav è diventata la metafora della contrapposizione, più o meno dura, più o meno violenta, tra governo, inteso nel senso più largo possibile, e opposizione sociale. Va dato atto a Monti di essere stato, come al solito, chiaro: la Tav si farà. Punto. La classe dirigente di questo paese, praticamente in maniera unanime, ha deciso che la realizzazione di quel pezzo di ferrovia nel nord Italia è una priorità irrinunciabile, qualcosa su cui si gioca il futuro del paese. Intendiamoci bene: il fatto che un governo decida non è sbagliato in sé - anzi il problema è quando un governo rinuncia, per debolezza o per convenienza, a questa funzione e non decide - il problema è che su questa decisione c'è una minoranza, non esigua, di cittadini che è tenacemente contraria, perché ha studiato il problema, lo ha dibattuto, ha analizzato vantaggi e svantaggi. In Val di Susa, da anni, moltissimi cittadini hanno affrontato il problema, acquisendo una competenza invidiabile: quelle persone quando parlano di alta velocità - anche per la loro innata serietà di valligiani abituati a conoscere il valore delle parole - sanno di cosa stanno parlando. Non si vuol considerare interlocutori gli "esagitati" che in nome della protesta no-Tav occupano strade e ferrovie nel resto dell'Italia? E' sbagliato anche questo, ma è comprensibile. Dire invece agli abitanti della Val di Susa che l'opera si farà perché ormai abbiamo deciso di farla è un grave errore e anche il segno di una debolezza di fondo. A persone che sono convinte di aver ragione non si può dire semplicemente che stanno giocando una partita ormai persa. Anzi ci sono cause perse che, proprio per il fatto che sono tali, spingono a battersi senza riserve, fino all'ultimo. E qui siamo al nodo del problema, al punto chiave: la democrazia non è solo decisione - e decisione a maggioranza, naturalmente - ma è anche partecipazione e convinzione. Ormai, su questa specifica questione, siamo arrivati al punto che nessuno accetta più di essere convinto, le posizioni si sono inesorabilmente radicalizzate e sono diventate inconciliabili. Però sono quelli che sono in maggioranza ad avere l'onere di convincere la minoranza, tanto più che è questa minoranza a dover subire i disagi della scelta.
E allora il problema è quello di come intendiamo la democrazia. Io sono uno di quelli che considera il governo Monti un'anomalia istituzionale; la crisi che ha portato alle dimissioni di Berlusconi e alla nascita di questo governo è avvenuta al di fuori delle aule parlamentari e sotto il decisivo impulso di autorità straniere, alcune delle quali - come il presidente della Bce - non elette. Inoltre in questi primi mesi di attività abbiamo assistito al passaggio della funzione legislativa dal parlamento al governo, attraverso il meccanismo dei decreti e dei successivi voti di fiducia. Questo governo, dal momento che il paese è sotto la spada di Damocle del possibile fallimento, non ha praticamente opposizione parlamentare e poca opposizione sociale - in pratica all'opposizione c'è solo la Cgil - e non ha contro nessun mezzo di informazione. E' probabilmente il più "forte" governo della storia repubblicana e non è un caso che si sia assunto il compito di intervenire in alcuni campi molto delicati, riducendo le tutele previdenziali e abolendo una parte dello Statuto dei lavoratori. Ed è il governo che imporrà la Tav, a prescindere da quello che pensano gli abitanti della Val di Susa. Io penso che in Italia ci sia un problema democratico, come in Grecia e come nel resto del mondo. Chi decide - anche ammesso sia la maggioranza - non ha tempo e soprattutto voglia di convincere chi è in minoranza.
Non è facile essere all'opposizione di questo governo - o di questo blocco di potere, come si sarebbe detto una volta. Lo abbiamo visto in questi giorni: un imbecille che avrebbe fatto meglio quel giorno a stare a casa e soprattutto che avrebbe dovuto stare zitto nei giorni successivi è diventato il protagonista di una protesta che ha altri contenuti e un altro spessore. Eppure quell'imbecille è stato funzionale al racconto che è stato fatto delle proteste. Quando le manifestazioni in Val di Susa si sono fatte più accese e quando, attorno al quel tema, si è condensato gran parte del malcontento che inevitabilmente si agita nel paese, è stata scatenata l'arma "fine di mondo": si è tornato a parlare di terrorismo. Come noto una bugia ripetuta mille volte finisce per diventare una verità e allo stesso modo ci sono profezie che si autoavverano. Le manifestazioni continueranno e prima o poi qualcuno morirà: è inevitabile, perché le disgrazie - anche al netto della stupidità umana - possono sempre succedere. Il tessuto già sbrindellato di questo paese non reggerà allo strappo causato dalla morte di un poliziotto o di un manifestante. Io voglio poter dire che sono contrario alla Tav, così come sono contrario all'abolizione dell'art. 18, voglio poter manifestare, andare in piazza, fare sciopero, senza essere considerato come uno che lotta contro questo paese; io lotto per un paese diverso. E la lotta, anche quando non è violenta, ha una sua radicalità, anche nel linguaggio, a cui io non voglio rinunciare.
Condivido un pensiero di Adriano Sofri, una persona che sul tema credo abbia qualcosa da insegnarci:
Dunque si torna a quella domanda: che cosa è giusto fare quando si sa e si crede di avere ragione, e ci si accorge di trovarsi in un vicolo cieco? La nonviolenza è nata per rispondere a questa domanda ricorrente, ma la nonviolenza è una scelta morale e un metodo, non una garanzia di vincere.
[...] Non so come la cittadinanza della Val di Susa possa impiegare una responsabilità che le autorità mostrano di non avere: di non riuscire ad avere, anche se lo desiderassero davvero, inchiodate come si sono al loro ruolo. Penso che ci sia un legame, solo in apparenza paradossale, fra la convinzione di avere ragione e di battersi non solo per sé e per il proprio cortile, ma anche per gli altri e per le generazioni a venire, e il coraggio di uscire dall'angolo, di proclamare un disarmo unilaterale e farne il terreno nuovo sul quale disarmare l'oltranzismo avversario. Di far scivolare il No-Tav, piuttosto che verso il corpo a corpo, verso l'irriducibile "Preferirei di no" dello scrivano Bartleby. Di reinventare le risorse della diserzione. Non so se sia possibile. So che comunque non lo sarebbe, se non si spostasse la testimonianza dal cantiere dei fantasmi ai cittadini che la Val di Susa la conoscono sì e no in cartolina, e anche di quelli che non sono militanti di niente, se non della democrazia.
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