giovedì 16 febbraio 2023

Verba volant (826): cortile...

Cortile
, sost. m.

La vuoi smettere di guardare in casa del fotografo?!… Cosa ci troverai poi in quella biondina slavata di Park Avenue?… Quelle sono tutte uguali, sembrano fatte con lo stampo… E non capisco cosa ci trovi un uomo così affascinante come il signor Jefferies… Ha girato il mondo lui, non come te: l’unica volta che sei uscito da New York è quando mi hai portato ad Atlantic City in viaggio di nozze… Comunque non ci pensa proprio a sposarla. Me l’ha detto Clara, sì quella del drugstore all’angolo tra la Cristopher e la Bedford, che è cugina di Stella… Non sai chi è? Certo: tu non guardi quando c’è l’infermiera. Tu guardi solo quando c’è quella là… Non pensare di avere delle possibilità, anche se le fai gli occhi da triglia… E ho visto che l’altro giorno l’hai salutata quando è scesa dal taxi, insieme a quel cameriere del 21. Come se qui al Village non ci fossero ristoranti… Tu sei sposato, caro mio, e anche se mi dovessi uccidere, non pensare che una così prenderebbe uno come te… Ma mi stai ascoltando?

Certo il nome di Sara Berner non vi dice molto, ma negli anni Trenta e Quaranta la sua è la “voce più famosa di Hollywood”, come dicono i giornali. Sara recita moltissimo alla radio, perché è molto brava a fare le imitazioni - Greta Garbo, Mae West e Katharine Hepburn sono tra i suoi cavalli di battaglia - ma soprattutto è strepitosa negli accenti, tanto da poter sostenere più ruoli all’interno di uno stesso show. Dopo la radio e la popolarità nazionale con il ruolo di una garrula e pettegola centralinista in The Jack Benny Program, questa attrice, nata ad Albany e cresciuta tra Tulsa e Philadelphia, diventa la voce di tanti personaggi dei cartoni animati, tra cui Jerry. Quando il famoso topolino canta e balla con Gene Kelly in Anchors Aweugh la voce è proprio quella di Sara. Agli inizi degli anni Cinquanta la sua stella di comincia a tramontare, ma per fortuna c’è la televisione. E nel 1959 è sua la voce di una centralinista in North by Northwest, il suo ultimo ruolo al cinema.
Frank Cady decide solo dopo la guerra di dedicarsi completamente alla carriera di attore, anche se la passione per il palcoscenico l’ha accompagnato per tutto il suo percorso scolastico. Si laurea in giornalismo a Stanford e in quel prestigioso ateneo comincia anche a insegnare. Poi scoppia la guerra e Frank si arruola in aereonautica. Tornato dal Pacifico decide di trasferirsi a Hollywood. Il cinema non lo fa diventare una star, ma tra gli anni Sessanta e Settanta il suo viso diventa popolare grazie ad alcune fortunate serie televisive.
Sia per Sara che per Frank Rear Window rimarrà il titolo più importante delle loro carriere cinematografiche, anche se interpretano due personaggi che non hanno neppure un nome: sono la coppia che ha il cane e che, a causa del caldo torrido, dorme sul ballatoio delle scale antincendio. Hitchcock affida alla voce di Sara la lunga tirata sui vicini che dovrebbero aiutarsi, quando la donna scopre che uno di loro ha ucciso il suo piccolo animale, colpevole di scavare dove non avrebbe dovuto: è l’unico del vicinato che ha sempre avuto dei sospetti su quel commesso viaggiatore poco gentile del piano di sotto.
Durante la lavorazione del film Hitchcock non si muove mai dallo studio principale, ossia dall’appartamento di Jeff, perché vuole che quello sia il punto di vista dello spettatore. Tutti noi, quando guardiamo quel film, siamo seduti in quella scomoda sedia a rotelle e scrutiamo il mondo di fuori attraverso l’obiettivo del fotografo. Per questo dà indicazioni agli attori che stanno nel palazzo di fronte con degli invisibili auricolari. Nella scena della pioggia decide di togliere a Sara e Frank gli auricolari e di lasciarli liberi, senza indicazioni. Vuole scoprire, insieme a noi, cosa faranno quando vengono sorpresi dalla pioggia. E loro sono perfetti, perché uno va da una parte e una dall’altra, tirandosi dietro in qualche modo cuscini, lenzuola e materasso, in maniera confusa e disordinata. Proprio come avrebbe fatto qualsiasi coppia in quella situazione.

Charlie, Moe, venite presto. E non fate rumore.
Sei sicuro che tua madre non tornerà?
Tranquilli ragazzi, è andata dalla signora Horowitz per farle provare un vestito e poi deve passare dal negozio di stoffe sulla Grove. Ci metterà almeno due ore.
Per fortuna a quest’ora del pomeriggio lei è sempre in casa a ballare.
Che bella. Speriamo che oggi si tolga il reggiseno.
Di solito quando balla lo tiene.
Magari oggi siamo più fortunati.
Per voi è più bella lei o la fidanzata del fotografo del piano di sopra?
Non so, lei non l’abbiamo mai vista senza vestiti.
Ci vorrebbe qualcuno che abitasse dall’altra parte del cortile.

Ragazzi vi siete accorti che oggi i fiori hanno un’altezza diversa rispetto a ieri?
Charlie, con tutto quel ben di Dio che c’è lassù, tu come fai a pensare ai fiori?



Hitchcock sa che la Paramount è disposta ad aprire i cordoni della borsa pur di poter produrre finalmente un suo film - per di più con due star come James Stewart e Grace Kelly - ma soprattutto sa che in quei grandi studi troverà i tecnici di cui ha bisogno per creare il film che ha in mente da quando ha letto quel racconto di Woolrich.
Il regista spiega ai due scenografi che gli vengono messi a disposizione, Hal Pereira e Joseph McMillan Johnson, che non gli basta un teatro di posa, per quanto grande, vuole un vero cortile con intorno gli appartamenti che si affacciano intorno, facendone uno spazio comune per ogni abitazione. Pereira è a capo del dipartimento scenografico della Paramount dal 1951, da quando è andato in pensione il suo maestro, il grande Hans Dreier, ma ha lavorato con lui fin dall’inizio degli anni Quaranta. Rimarrà in quel posto fino al 1966, ossia quando la casa di produzione viene comprata dalla compagnia petrolifera Gulf and Western: nella sua carriera ottiene ben ventitré nomination, anche se vince un solo Oscar per The Rose Tattoo. McMillan Johnson è un brillante architetto che David O. Selznick vuole nella squadra di creativi di The Wizard of Oz: dopo quell’esperienza esaltante decide di rimanere a Hollywood, anche se nel periodo della “caccia alle streghe”, nel periodo in cui tutti sono spiati, deve tornare a fare l’architetto.
Hitchcock consegna ai due scenografi disegni e bozzetti che lui stesso ha preparato, un’abitudine che ha da quando faceva lo scenografo nel Regno Unito, prima di fare il regista. Con quelle indicazioni precise e seguendo quel progetto ambizioso Hal e Joseph si mettono al lavoro. Per giorni vagano per il Greenvich Village e finalmente trovano, al 125 di Cristopher Street, l’ambiente che soddisfa tutte le richieste di Hitchcock. Adesso basta solo ricostruirlo negli studi di Melrose Avenue a Hollywood. Servono sei settimane, in cui si lavora giorno e notte. L’appartamento di Jeff è lo studio principale, quello dove ci sono le macchine da presa e dove starà il regista, e ovviamente è a livello del terreno. Dal momento che nella finzione l’appartamento si trova in alto, bisogna scavare per realizzare il cortile e dall’altra parte vengono costruite le case, rispettando distanze e proporzioni. E così i tecnici e gli artigiani della Paramount ricostruiscono quel cortile del Village, e lo fanno con una precisione incredibile. Se andate a quell’indirizzo di Cristopher Street non faticherete a riconoscere le finestre dei Thorwald, di Miss Torso o del compositore.
Il set misura quasi trenta metri in larghezza, cinquantasei in lunghezza e più di dodici in altezza. Vi si affacciano trentuno appartamenti, di cui otto sono dotati di luce elettrica, gas e acqua, tanto che molti degli interpreti li usano al posto delle roulotte durante le riprese. Dal momento che una notte piove, i tecnici devono realizzare anche un sistema di drenaggio, affinché il cortile non si allaghi.
Il regista chiede altrettanta attenzione anche ai tecnici che si debbono occupare dell’illuminazione. Predispongono quattro set di luci, per un totale di più di mille fari, montati e smontati a seconda del momento della giornata raccontato dalle riprese: mattina presto, pomeriggio, poco prima del tramonto e notte.
La Paramount investe un milione di dollari per realizzare il film e un quarto di questa cifra è per le scene, mentre solo il dodici per cento per pagare gli attori. Naturalmente si tratta di un investimento oculato, solo nella sua corsa iniziale in Nord America il film incassa 5,3 milioni di dollari. Il film è un successo. Nel 1968 Hitchcock ne acquista i diritti: è uno dei cinque Missing Hitchcocks, i film che il regista vuole lasciare in eredità alla figlia Patricia. Rear Window verrà proiettato di nuovo solo nel 1984. Solo una volta viene trasmesso dall’ABC, ma illegalmente. Tra i cinque film scelti dal regista ci sono i quattro con James Stewart come protagonista.
Tra i grandi “artigiani” che Hitchcock trova alla Paramount ci sono anche Edith Head e Walter Westmore. Sono loro due che devono rendere Lisa Fremont irresistibile. Wally è il capo della sezione trucco dello studio e naturalmente per quel film così importante deve essere lui a rendere perfetta Grace Kelly. Qualunque grande studio Hitchcock avesse scelto per girare Rear Window quel compito sarebbe toccato a uno dei figli di George Westmore, il parrucchiere inglese che nell’età del muto “inventa” i riccioli di Mary Pickford e crea, insieme a un collega arrivato dalla Polonia, un certo Maksymilian Faktorowicz, la professione del make-up artist. George ha diciannove figli e sei di loro seguono le orme del padre, truccando le dive e i divi della Golden Age di Hollywood: Monte lavora alla Selznick International - lavorando tra gli altri a The Wizard of Oz - Percival alla Warner, Ernest prima alla RKO e poi alla 20th Century Fox, Bud all’Universal, Walter appunto alla Paramount, affiancato da Frank. Edith è destinata a diventare una leggenda di Hollywood, la donna con più Oscar vinti e con più nomination nella storia del cinema: otto statuette su trentacinque partecipazioni. I suoi abiti, come quelli splendidi che crea per Grace Kelly in questo film, entrano nella storia della moda. Nel 1973 appare in un cameo in un episodio di Columbo, ambientato nel mondo del cinema. La “cattiva”, una splendida Anne Baxter, che interpreta una diva sul viale del tramonto, per impressionare il tenente, lo porta in giro per gli studi e arriva con lui nel laboratorio di Edith. Colombo la guarda e chiede: “Ma è proprio quella che si vede sempre agli Oscar?”. È proprio lei.
Hitchcock ritrova alla Paramount il compositore Franz Waxman che ha già lavorato con il regista scrivendo le colonne sonore di Rebecca, Suspicion, The Paradine Case. Anche se il compositore di origine tedesche - è uno dei tanti ebrei fuggiti in America che ha fatto grande Hollywood - è accreditato come autore della colonna sonora, compone soltanto la musica per i titoli di testa e di coda e la melodia che “salva” Miss Lonelyhearts e le fa conoscere l’autore di canzoni. L’interprete di questo personaggio è il musicista Ross Bagdasarian, che qualche anno dopo questo film sarà il creatore di Alvin and the Chipmunks.
Hithcock mette nella riproduzione diegetica dei suoni la stessa meticolosa attenzione che chiede ai tecnici delle luci. Insieme ai rumori della città, dalle finestre degli appartamenti si possono riconoscere Bing Crosby con To See You Is to Love You - dalla colonna sonora del film della Paramount Road to Bali - Nat King Cole con Mona Lisa e Dean Martin con That’s Amore. E poi le musiche di Leonard Bernstein per il balletto di Jerome Robbins Fancy Free, la canzone di Richard Rodgers Lover e l’aria M’appari tutt’amor dall’opera Martha di Friedrich von Flotow, un’opera ormai dimenticata, se non fosse per questa fugace citazione. Chissà da quale finestra esce questa musica?

Alla signora che sta qui sotto, sì quella che fa quelle che fa quelle strane sculture, l’inquilino che abita sotto quelli che hanno il cane non piace affatto. Sì, quello che ha uno strano nome svedese. Ma sai, caro, che io con i nomi… non me li ricordo mai. Invece a me sembra proprio una brava persona. Quando metto il becchime nella gabbia del canarino lo vedo sempre che cura i fiori nella piccola aiuola che ha sotto casa. Uno che ama così i fiori deve essere una brava persona. E poi vedessi come tratta la moglie, tutti i giorni le porta la colazione a letto. Tu quand’è l’ultima volta che mi hai mai portato la colazione a letto? Dovresti prendere esempio da lui.

Apparentemente Rear Window ha la stessa trama del racconto It Had To Be Murder scritto da Cornell Woolrich e pubblicato nel 1942 nella popolare rivista Dime Detective - e infatti, per sfruttare il successo della pellicola, lo stesso Woolrich non esita a ripubblicarlo con il nuovo titolo - ma Hitchcock e il suo sceneggiatore John Michael Hayes - lavoreranno insieme anche nei film successivi: To Catch a Thief, The Trouble with Harry e The Man Who Knew Too Much - realizzano un film molto diverso dal racconto, perché in questo caso il tema centrale diventa il matrimonio. Tanto che l’indizio risolutivo, quello che smaschera l’assassino è, non a caso, una fede nuziale.
Di tutti i personaggi che compaiono nella storia raccontata da Hitchcock solo Miss Hearing Aid, l’eccentrica scultrice che vive a piano terra, non è sposata e vive questa sua condizione con apparente serenità. Ma chissà cosa è successo prima… e forse, qualche anno dopo questa storia, quell’apparentemente innocente signora sarà tra i leader della rivolta di Stonewall. Il matrimonio è il continuo argomento delle discussioni tra Jeff e Lisa. Thorwald ha talmente voglia di sposarsi da essere disposto a uccidere sua moglie pur di poterlo fare. Nel film sono più volte citati, anche se non li vediamo mai, la moglie del Detective Doyle e il marito di Stella. E immaginiamo sia sposato anche l’uomo che desidera la prorompente giovinezza di Miss Torso. Il matrimonio è l’ossessione di Miss Lonelyhearts e magari l’incontro di quelle due solitudini, la sua e quella del compositore, è destinato a creare il rapporto più solido del film. E Jeff, restio al matrimonio - perfino se glielo chiede un’irresistibile Grace Kelly - può osservare, in quel suo involontario esperimento sociale, la vita di tre coppie: gli sposini con la passione destinata a presto a svanire, la coppia con il cagnolino, che si sono ormai adattati alla loro routine domestica, e i Thorwald. E francamente non siamo portati a simpatizzare con la vittima, che brandisce quel loro matrimonio come un’arma contro il povero Lars.
Ed è proprio questo il messaggio che ci lancia il “vecchio” Hitch: attenti, tutti i matrimoni possono finire come quello dei Thorwald.

Pronto? Ciao Stanley. Come stai? Com’è Chicago? Mi manchi tanto. Ma so che tra due giorni sarai di nuovo qui. Questa te la devo proprio raccontare. Te lo ricordi il signor Jefferies, quello che abitava di fronte a me dieci anni fa al Village? Sì, quello che si è quasi fatto ammazzare per catturare quello che aveva ucciso la moglie. Si è fidanzato con Dolores, la mia collega alla Juilliard, sì, quella che insegna canto. È davvero piccolo il mondo. Adesso ha uno studio nell’Upper East Side e fa fotografie a quelli di Broadway. Ha divorziato da quella bella bionda con cui stava allora. Lei aveva deciso di seguirlo nei suoi viaggi avventurosi in giro per il mondo. Poi un bel giorno lui ha mollato tutto, moglie e lavoro, ed è tornato a New York. Si era stancato di quella vita. Spero per Dolores che non sia una delusione. Vorrei che fosse fortunata come me. Ti amo, Stanley.

Finite le riprese, Hitchcock dà a Georgine Darcy un paio di consigli: trovati un agente e vai in Europa a studiare i drammi di Cechov. E le promette che al suo ritorno la farà diventare una star del cinema, come Grace Kelly. Questa prorompente ragazza di Brooklyn crede che il regista stia scherzando.
Non pensa di essere un’attrice. Sa da sempre di essere bella. Sua madre le aveva consigliato di diventare spogliarellista: una carriera dove si guadagna bene e in fretta. A Georgine piace ballare. A sedici anni prende l’autobus e va in California. Quando Hitchcock la chiama, lei non sa nemmeno chi sia quell’ometto bianco. Il regista l’ha scelta personalmente, dopo averla vista in una foto pubblicitaria, splendida in un attillato body nero. Il contratto è ottimo: trecentocinquanta dollari. Edith Head non fa fatica a metterne in risalto le forme con i suoi costumi.
Un giorno Hitchcock le chiede quale torta detestasse e lei, stupita di quella domanda, risponde che non le piace quella di zucca. Il giorno in cui si gira la scena della morte del cagnolino, fa arrivare nel suo appartamento - lei è una di quelle che “vive” nella casa costruita da Hal Pereira e Joseph McMillan Johnson - una fetta di quella torta e riprende la sua espressione. La troupe alla fine delle riprese le regala una torta a forma di ”Miss Torso”, con il seno e tutto il “resto” al posto giusto: durante la lavorazione quella formosa ballerina di Brooklyn è diventata la preferita del set.
Rear Window è il film più importante della carriera di Georgine che, pur non considerandosi mai un’attrice, continua a lavorare, soprattutto in televisione: tra gli altri ruoli è Gipsy, l’irriverente segretaria dello studio legale in Harrigan and Son.
A proposito di avvocati, negli anni successivi diversi membri del cast avranno una parte in uno o più episodi di Perry Mason che, per nove stagioni, dal 1957 al 1966, tiene incollato il pubblico alle “finestre” del più grande “cortile” americano con le storie dell’avvocato che non sbaglia mai, il personaggio che fa diventare Raymond Burr da “cattivo” del cinema a “buono” della televisione. Frank Cady, Jesslyn Fax - Miss Hearing Aid - Rand Harper - lo sposo in luna di miele - Richard Simmons - l’uomo in casa di Miss Torso - e naturalmente Bess Flowers, “The Queen of the Hollywood Extras”, che nel film appare nella festa a casa del compositore, incontrano il collega Burr in quella fortunata serie. Ralph Smiley, il cameriere del 21, non prende parte a questa serie, ma all’inizio degli anni Settanta ritrova Lars Thorwald in Ironside.
Georgine probabilmente fa bene a non fidarsi troppo dei consigli di Hitchcock, che in quei mesi non può certo immaginare che la “sua” Grace lo lascerà per diventare principessa di quel piccolo regno sulla Costa azzurra, costringendolo a cercare nei film successivi una nuova musa, bionda come lei. E quando Scottie Ferguson “trasforma” Judy in Madeleine, in una delle sequenze più drammatiche di Vertigo, Hitchcock racconta la sua ossessione a trasformare in Grace qualsiasi attrice con cui sta lavorando. Ed è ancora James Stewart che, come in Rear Window, è chiamato a interpretare il personaggio che diventa “regista” della storia, il doppio di Hitch.
Ma ovviamente nessuna può essere come “Hot Ice”, così algida e provocante. E se Grace Kelly decide che ti vuole sposare, tu non puoi proprio resisterle.

Charlie, cosa succede? Sembra che hai visto un fantasma.
Moe, è stato il commesso viaggiatore a uccidere il cane. È un assassino.
Come fai a saperlo?
L’ho visto. Ti ricordi che avevo visto che qualcuno aveva smosso i fiori? Stanotte sono scivolato fuori per scoprire cosa era successo. Ho cominciato a scavare e ho trovato qualcosa, ma poi ho sentito che la porta si apriva e sono scappato. Era quel Thorwald, quando ha visto la terra sul vialetto ha pensato che fosse stato il cane che era lì vicino. L’ha preso e l’ha strozzato.
Adesso cosa pensi di fare?
Lo vorrei denunciare alla polizia, ma sono sicuro che non mi crederebbero.

sabato 14 gennaio 2023

Verba volant (825): scarpa...

Scarpa,
sost. f.

Oggi vi racconto la storia di una scarpetta, anzi della scarpetta più famosa della letteratura. Il problema è che non so da dove e da quando cominciare. Forse da un basso napoletano alla fine del Cinquecento. Oppure dall’antico Egitto al tempo dei faraoni della XXVI dinastia. O magari da qualche villaggio del Jiangxi durante il lungo regno dell’imperatore De Zong. Ma Luca Martini mi dice che non devo divagare troppo e quindi ho deciso di cominciare questo racconto nella Parigi del Seicento. Ossia da quando quella magica scarpetta è diventata di vetro.
Siamo nello studio ingombro di antiche carte, polverosi manoscritti e pesanti incunaboli di Charles Perrault. Sì, quello delle fiabe. Tutti, ma proprio tutti, conoscono le sue storie, molti meno il nome dello scrittore, magari confondendosi con i fratelli Grimm, gli austeri filologi tedeschi dell’Ottocento, anch’essi autori di un fortunato volume di fiabe, praticamente le stesse raccontate dal loro predecessore francese, perché tutti loro hanno semplicemente raccolto, riadattandole più o meno fedelmente, storie tradizionali, in qualche caso molto antiche, lo stesso che aveva fatto Giambattista Basile prima di tutti loro. Le stesse storie che nel Novecento hanno saccheggiato quelli della Disney, finendo per esserne considerati gli autori.

Credo che avrete ormai capito che vi voglio parlare di Cenerentola. Spero di non dovervi riassumere la storia, immagino che tutti abbiate visto - da bambini, da genitori, da nonni - il film a cartoni animati del 1950, con le voci, tra le altre, di Eleanor Audley e Verna Felton, rispettivamente la cattiva Lady Tremaine e la distratta Fata madrina - genialmente diventata, nella versione italiana la Fata Smemorina. Queste due attrici sono nomi importanti del doppiaggio dei film di animazione, la prima è stata anche Malefica, mentre la seconda la Regina di cuori e la suocera di Fred Flinstone. Nella versione italiana le voci sono di due artiste altrettanto brave, anche se oggi purtroppo dimenticate: Tina Lattanzi e Laura Carli. Ma questo non c’entra. Torniamo a Parigi.
Anzi, prima di tornare nello studio di Perrault, Zaira mi ricorda che noi siamo di una generazione, prima dell’home video e di internet, che ha imparato a conoscere Cenerentola non dal film della Disney, ma dalle Fiabe sonore della Fratelli Fabbri Editori. Se anche voi siete abbastanza vecchi, vi ricordate certamente quei 45 giri e i grandi albi con le belle illustrazioni realizzate dai migliori disegnatori italiani. E soprattutto ricordate la sigla che precedeva ogni favola: “A mille ce n’è / nel mio cuore di fiabe da narrar”.
Quelle storie erano raccontate dalla bella voce impostata di Silverio Pisu, il figlio di Mario, che, dopo una carriera da cantante impegnato nei cabaret milanesi, si è dedicato con successo al doppiaggio. Ve la ricordate la versione di Addio Lugano bella cantata da Gaber nella trasmissione Questo e quello? Insieme a Giorgio ci sono Enzo Jannacci, Lino Toffolo, Otello Profazio e il nostro Silverio.
Pisu è anche l’autore dei testi delle sessanta favole della raccolta. E si diverte ad aggiungere qualche particolare stravagante. Per Cenerentola inventa Venceslao, il gattone della ragazza, che osserva sgomento - e un po’ arrabbiato, visto che si tratta del suo pranzo - la trasformazione dei topi in cavalli. E, dopo la fatidica mezzanotte, il Principe si lamenta che nessuno ha preso la targa della carrozza.
A questo progetto lavora un bel gruppo di attori, tra cui Ugo Bologna, Sante Calogero, Pupo De Luca e Isa Di Marzio. Mentre tutte le canzoni e le musiche - oltre alla sigla - sono composte da Vittorio Paltrinieri, che le esegue insieme al Quartetto Radar, quelli di Bidibodibù per un celebre “carosello”. Un bel gruppo di bravi artigiani dello spettacolo, di artisti che sapevano fare il loro mestiere. E noi possiamo dire, con affetto e con una punta di nostalgia, di aver avuto la fortuna di ascoltare quegli antichi “audiolibri”, quei piccoli sceneggiati creati apposta per noi bambini.

Adesso basta divagare. Quasi certamente Perrault non pensava che sarebbe diventato famoso grazie a quelle favole, pubblicate nel 1697 con il titolo Histoires ou Contes du temps passé avec des Moralités. Charles aveva mandato alle stampe il libro sotto il nome del suo terzo figlio, Pierre, che si chiamava come uno degli zii, traduttore in francese delle opere di Alessandro Tassoni e Receveur général des finances - ossia il responsabile delle tasse - nel governo di Colbert. Quel ragazzo gli dava dei pensieri: una testa calda, era stato anche in carcere a seguito di una rissa. Perrault era un padre vedovo - la moglie era morta quando i quattro figli erano ancora piccoli - ed era preoccupato per l’avvenire di quel ragazzo scapestrato, la pecora nera della famiglia. Sperava che, leggendo quelle storie edificanti, con la loro brava morale, la nobiltà francese avrebbe pensato che il ragazzo avesse messo la testa a posto. Inoltre il libro era dedicato a “Mademoiselle”, ossia Elisabetta Carlotta di Borbone-Orléans, la nipote del Re Luigi XIV: Perrault sperava in questo modo che il figlio fosse assunto come suo segretario. Il trucco non è andato a buon fine: il mondo intellettuale di Parigi ha capito subito che quel ragazzo diciannovenne non avrebbe potuto scrivere quelle storie, ma soprattutto usare quello stile così forbito, così tipico di suo padre. E quel posto è andato a un altro candidato, certamente più raccomandato del povero Pierre: allora andava così. D’altra parte la “seconda morale” della fiaba di Perrault recita: “Gran che certo, avere ingegno, coraggio, nobiltà, buon senso, e simili pregi che vi vengono dal cielo; ma a nulla vi serviranno per avanzar nella vita, se non avete o dei compari o delle comari che li facciano valere”. In sostanza per avere successo sempre meglio avere una “fata madrina”.
Perrault era certo che i posteri si sarebbero ricordati di lui per gli altri suoi lavori, magari per i suoi versi o forse le opere storiche. Non era certo immodesto, pensava di meritare il posto che gli era stato assegnato tra gli Immortali, il seggio n. 23 dell’Académie française, occupato prima di lui dal poeta Guillaume Colletet, amico di Richelieu, poi dal letterato Gilles Boileau, il più giovane eletto a quel prestigioso consesso, e Jean de Montigny. E su cui ora siede lo storico dell’arte ed ex direttore del Louvre Pierre Max Rosenberg. A proposito, un altro dei fratelli maggiori di Charles si chiamava Claude. Si era laureato in medicina alla Sorbona, ma i suoi interessi spaziavano in molteplici campi: oltre che un grande anatomista, è ricordato come botanico, studioso di meccanica, inventore, appassionato di architettura, tanto da tradurre l’opera di Vitruvio in francese e realizzare la grande facciata orientale del Louvre - quella che adesso dà su rue de l’Amiral de Coligny - con la sua celebre Colonnade, esempio mirabile del classicismo, che ha ispirato la facciata del Campidoglio e del Metropolitan Museum.
A dire la verità ai suoi tempi Charles Perrault era famoso soprattutto per la sua attività di polemista. A fine gennaio del 1687 legge ai suoi colleghi dell’Accademia una poesia intitolata Le Siècle de Louis le Grand. Gli Immortali ascoltano condiscendenti e decisamente annoiati: i soliti versi levigati e di maniera di Perrault. A un certo punto c’è qualcosa che sveglia la loro attenzione: il poeta dice che gli autori classici, a partire da Omero, sono sopravvalutati, molto meglio i poeti del Seicento, il secolo in cui le arti hanno raggiunto il loro apice. Si tratta di una tesi azzardata, ma gran parte degli accademici, punti sulla loro vanità, applaudono con entusiasmo. Pochi storcono la bocca per quei giudizi trancianti rivolti a venerati maestri, ma solo il poeta Nicolas Boileau, soprannominato il “Regent du Parnasse”, il seggio n. 1 dell’Accademia, si alza sdegnato, dicendo che è un crimine continuare ad ascoltare quelle farneticazioni. Comincia così la Querelle des Anciens et des Moderns, un dibattito intellettuale che proseguirà piuttosto stancamente per quasi un decennio.
Perrault è attivissimo come capofila dei “moderni”, scrive opere letterarie, pamphlet, risponde alle satire di Boileau. Il mondo accademico si appassiona a questo, per molti aspetti futile, dibattito. Tutti i letterati e gli intellettuali vi prendono parte, spesso schierandosi per una parte o per l’altra a seconda delle convenienze, seguendo amicizie e consorterie o peggio antipatie personali o sentimenti ancora meno commendevoli. Cose che succedevano tra gli intellettuali francesi del Seicento.
E c’entra anche la politica, perché i sostenitori dei “moderni” sono quelli più fedeli alla Corona, o quelli che sperano in qualche prebenda, mentre quelli che difendono gli “antichi” sono spesso critici verso il potere costituito, chi regge le Accademie e la Sorbona. Paradossalmente sostenere gli “antichi” diventa un segno se non di ribellione, di scarso entusiasmo per il potere. Lo stesso Boileau è vicino alle posizioni di Port-Royal. Anche un altro fratello maggiore di Charles, Nicolas, quello che, a differenza dei fratelli, si era laureato in teologia, era stato espulso dalla Sorbona proprio per le sue opinioni gianseniste, una cosa che per il fratello così ben inserito a Corte e nelle Accademie era un motivo di imbarazzo.

E la scarpetta? Non mi sono dimenticato. Sia Erodoto che Strabone raccontano che i calzari di Rodopi, la “cenerentola” egizia, diventata sposa del faraone Amasis, sono di oro rosso, e di una preziosa stoffa d’oro sono anche i sandali di Ye Xian, la ragazza di cui sappiamo che aveva piedi splendidi e piccolissimi - una caratteristica particolarmente apprezzata ancora oggi dagli uomini cinesi - mentre Giambattista Basile non dice di cosa sono fatte le pianelle di Zezzola, la Gatta cenerentola della tradizione napoletana. Ma come le scarpette della fiaba di Perrault e di quella dei Grimm - anche queste d’oro - tutte queste calzature hanno la peculiare caratteristica di adattarsi soltanto a una persona. Evidentemente queste storie sono molto precedenti al tempo del prêt-à-porter.
La folclorista inglese Marian Roalfe Cox, autrice del fondamentale testo del 1893 Cinderella: Three Hundred and Forty-Five Variants of Cinderella, Catskin and Cap o’Rushes, Abstracted and Tabulated with a Discussion of Medieval Analogues and Notes, dice che delle trecentoquarantacinque versioni della fiaba solo sei citano il vetro come materiale delle scarpette. Ma, grazie a Perrault - e a Disney - ormai nell’immaginario comune quelle scarpette sono di vetro. E The Glass Slipper è il titolo del film del 1955 basato sulla fiaba di Cenerentola, con un’incantevole Leslie Caron nel ruolo della giovane e due grandi caratteriste, Elsa Lanchester ed Estelle Winwood, in quelli rispettivamente della matrigna e di una misteriosa vecchietta si rivelerà una fata. Elsa è la “sposa” di Frankenstein, ma è meglio che mi fermi, anche perché Estelle ha interpretato il suo ultimo ruolo a novantasei anni, alla fine di una carriera lunghissima. E se comincio non finisco più.
Vi devo raccontare del vetro. Genevieve Warwick, che insegna storia dell’arte all’Università di Edimburgo, autrice del saggio Cinderella’s Glass Slipper: Towards a Cultural History of Renaissance Materialities, ci spiega perché Perrault ha fatto questa scelta così inusuale.
Perrault era un borghese, suo nonno realizzava arazzi per la Corte, suo padre era avvocato presso il Parlamento di Parigi, e Charles era nella condizione in cui ci troviamo tanti di noi che ci definiamo scrittori: non poteva sperare di vivere solo scrivendo, e quindi era costretto a lavorare.
Nel 1663 Colbert lo nomina segretario dell’Académie des inscriptions et belles-lettres, l’istituzione che ha il compito di redigere le iscrizioni sui monumenti e sulle medaglie in onore di Luigi XIV, e due anni dopo lo promuove controllore generale della Sovrintendenza agli edifici del Re. Per Charles si tratta di un bel balzo di carriera, che gli offre una notevole influenza nella vita artistica della Corte di Francia. È proprio grazie a questo incarico che riesce a far assegnare a Claude il rifacimento della facciata del Louvre, dopo aver scartato il progetto di Bernini, e a Pierre un progetto sulle fontane della nuova reggia che Luigi vuole costruire a Versailles. Grazie al “piccolo” della famiglia, i Perrault si sono davvero ben sistemati: ecco un’altra cosa che adesso non succede più.
Il Re vuole che nel corpo centrale della sua nuova reggia ci sia una grande sala, che renda evidente ai visitatori la grandezza della Francia sotto il suo regno. Incarica di questo ambizioso progetto Jules Hardouin-Mansart e l’architetto realizza un salone lungo settantatré metri e largo più di dieci che raggiunge l’attico del corpo centrale della reggia, con diciassette grandi finestre ad arco, aperte verso i magnifici giardini, a cui corrispondono sull’altro lato diciassette specchi, altrettanto grandi, in grado di far sembrare la sala ancora più vasta. Poi il re affida a Charles Le Brun la decorazione del soffitto, discutendo animatamente con il pittore sulla scelta dei soggetti: al centro campeggia un dipinto significativamente intitolato Il Re governa autonomamente. Oggi la Galleria degli Specchi è un’attrazione turistica e desta lo stesso ammirato stupore che provocava ai regnanti, ai ministri e agli ambasciatori che Luigi vi riceveva. Feste di nozze, battesimi reali, balli di carnevale: tutto è stato festeggiato in questa sala. E, non a caso, proprio qui nel 1871 Bismarck decide di far proclamare a Guglielmo I la nascita dell’Impero tedesco, dopo la fine della guerra franco-prussiana, e con lo stesso intento simbolico, nel 1919 il governo francese ne fa lo scenario della firma del Trattato di Versailles, che sancisce, tra l’altro, la fine di quell’Impero.
A Perrault viene affidato il delicato compito di sovraintendere alla realizzazione dei vetri e degli specchi che servono per decorare la Grande Galerie. Anche questo, nelle intenzioni del Re, deve essere un segno della grandezza della Francia. Ancora nel XVII secolo Venezia aveva il monopolio della realizzazione degli specchi. È stato proprio Colbert a fondare la Manufacture royale de glaces de miroirs, divenuta poi Compagnie de Saint-Gobain, capace di togliere il monopolio europeo del prodotto agli artigiani veneziani.
Inoltre, seguendo così da vicino il processo di lavorazione del vetro, Perrault impara che quel prodotto nasce dalla cenere. Perché, come dice la prima “morale”: “La buona grazia è il vero dono delle Fate; senza di essa, nulla si può, con essa, tutto". A questo punto di cosa poteva essere fatta la scarpetta che permette a una principessa, ingiustamente relegata al ruolo di sguattera, di tornare al posto che le compete nel mondo? Di vetro ovviamente. E Cenerentola diventa la metafora della Francia tornata grande grazie a Luigi e al suo vetro. Perrault capisce, molto prima di Disney, che le favole possono diventare un ottimo strumento di propaganda politica.
E poco importa se è davvero impossibile ballare indossando delle scarpette di vetro. A proposito nella versione danese le scarpette sono d’oro, ma Askepot, che evidentemente è una ragazza piuttosto previdente e pratica, indossa delle galosce per proteggere le sue preziose calzature, che non si sporchino di fango.

Credo che a questo punto sia necessario ricordare che a metà dell’Ottocento quelle scarpette di vetro hanno scatenato una piccola querelle. Nel 1841 Honoré de Balzac, nel romanzo Sur Catherine de Médicis, fa dire a un suo personaggio, di professione pellicciaio, che le scarpette di Cenerentola non sono di verre, ma di vair, che è la preziosa pelliccia di scoiattolo. Émile Littré, nel suo ponderoso Dictionnaire de la langue française, prende le parti di Balzac e di altri critici che, seguendo il grande romanziere, sostengono che sia molto più “razionale” pensare a scarpette di pelliccia piuttosto che di vetro. Evidentemente né Balzac né Littré erano dei ballerini, perché neppure pantofole foderate di pelliccia sono le calzature più adatte alla danza. Inoltre si adattano molto più facilmente ai piedi: forse perfino le sorellastre sarebbero riuscite a calzarle, senza tentare delle dolorose mutilazioni, come avviene nella più cruenta versione dei Grimm. Anzi, come dirà molti anni dopo Bruno Bettelheim, nel suo importantissimo testo The Uses of Enchantment: The Meaning and Importance of Fairy Tales, sembra molto più “razionale” che una scarpetta di vetro possa essere un pezzo unico e che un solo piede possa calzarla perfettamente. Comunque la querelle sulla presunta omofonia tra verre e vair era già stata risolta, con un sorriso, da Anatole France che, invitando il lettore a “diffidare del buon senso”, spiega che è tanto verosimile che le scarpette siano di vetro quanto che una zucca venga trasformata in una carrozza. La cosa davvero sorprendente, conclude France, sarebbe se una carrozza venisse trasformata in una zucca.
A proposito di letture razionaliste della fiaba, nel 1817 il genio illuminista di Gioachino Rossini accetta di scrivere la musica per un’opera dedicata a Cenerentola solo a patto di togliere tutti gli elementi magici e quindi scompaiono le magiche scarpette limited edition, la zucca - un’altra invenzione di Perrault che non si ritrova nelle versioni precedenti - e soprattutto la Fata madrina, sostituita da Alidoro, filosofo e antico precettore del principe. Il compositore pesarese non vuole magia: noi uomini bastiamo a combinare guai e talvolta a risolverli.
Comunque Perrault, frequentando, seppur soltanto da funzionario, la Corte, deve averne viste di bizzarrie a proposito di scarpe. Molte dame indossavano i cosiddetti “spilli”, scarpette altissime, su cui a fatica riuscivano a camminare, figurarsi se potevano ballare. Luigi era ossessionato dalle scarpe, molto più di Carrie Bradshaw, le cambiava di continuo ed erano sempre più elaborate, sempre più ricche di fiocchi, nappe, gioielli, le scarpe del Re non erano fatte per camminare, ma per essere invidiate. E chissà se Perrault scrivendo il Gatto con gli stivali non volesse rendere un omaggio, seppur velato, al coraggio di Luigi.
E il primo numero delle Fiabe Sonore è proprio dedicato a questa favola, con le splendide illustrazioni di Sergio, come si firmava il pittore Romano Rizzato. E di lui certamente conoscete le famose illustrazioni nell’edizione integrale di Pinocchio dei Fratelli Fabbri del 1965. Ma forse questo è meglio se ve lo racconto un’altra volta.

sabato 7 gennaio 2023

Verba volant (824): fatale...

Fatale
, agg. m. e f.

Lo so che Anjelica è filologicamente perfetta e Catherine è sensualmente letale, ma per quelli della mia generazione Morticia Frump in Addams avrà sempre i grandi occhi azzurri di Carolyn Jones.

Carolyn è una ragazza di Amarillo che nella seconda metà degli anni Quaranta, come tante sue coetanee, divora le riviste dedicate alle dive e ai divi di Hollywood. Ma fin da bambina soffre di asma e questo limita molto le sue attività quotidiane: non riesce neppure ad andare al cinema con le amiche per vedere i suoi eroi sul grande schermo. Il padre ha abbandonato la moglie, lei e sua sorella minore. Il nonno, oltre che ospitarle, fa in modo che la ragazza faccia un intervento di rinoplastica per curare quella malattia e le paga la retta alla prestigiosa scuola di recitazione della Pasadena Playhouse.
Un talent scout la nota proprio in uno degli spettacoli della scuola e Carolyn viene messa sotto contratto dalla Paramount Pictures. E finalmente nel 1952, diretta da William Dieterle, debutta nel classico del noir The Turning Point: è una delle ragazze del nightclub del “cattivo” Ed Begley. I film in cui compare in questi anni non sono capolavori e le sue parti sono piccole, ma Carolyn comincia a farsi notare per la sua bellezza fuori dagli stereotipi dell’epoca e per il suo sguardo penetrante. È la ragazza che il folle scultore, interpretato da Vincent Price, “trasforma” nella statua in cera di Giovanna d’Arco in House of Wax. Interpreta la donna di un gangster in The Big Heat. In Shield for Murder è la biondissima e fatale Beth che fa girare la testa a Edmond O’Brien. Nel 1953 arriva finalmente la grande occasione: il ruolo di Alma in From Here to Eternity, con Burt Lancaster, Montgomery Clift, Frank Sinatra e Deborah Kerr. Ma Carolyn ha un attacco di polmonite, la produzione non si può fermare per quella giovane attrice, che viene sostituita da Donna Reed, che, proprio per quel film, vincerà l’Oscar, uno degli otto di quella fortunata pellicola.
La carriera di Carolyn comunque non si ferma. Nel 1956 è una delle protagoniste di Invasion of the Body Snatchers e ha una piccola parte in The Man Who Knew Too Much di Alfred Hitchcock. Poi arriva la nomination come attrice non protagonista per The Bachelor Party, in cui interpreta una ragazza misteriosa e sensuale, con quel vestito nero e i capelli a caschetto corvini, conosciuta solo con il nome l’Esistenzialista che, nonostante partecipi a ogni genere di feste, è sola ed estremamente malinconica. E ancora è Ronnie in King Creole, la giovane amata da Elvis Presley e uccisa da un perfido Walter Matthau. Lavora con Kirk Douglas, Frank Sinatra, Anthony Quinn e contemporaneamente fa anche molta televisione: con quegli occhi spesso viene scritturata per interpretare la “cattiva”.
Anche per questo quando, alla fine del 1963, David Levy la chiama per offrirle il ruolo della madre in una serie che sta per produrre per la ABC dedicata ai personaggi creati alla fine degli anni Trenta dal fumettista Charles Addams per The New Yorker, Carolyn esita: lei non è un’attrice comica e francamente quel progetto le appare un po’ azzardato. John Astin, il coprotagonista della serie, ha lavorato a Broadway in produzioni importanti come The Threepenny Opera, ma non è molto conosciuto a Hollywood, certamente molto meno di lei. Anche se non hanno mai lavorato insieme, Carolyn conosce ovviamente Jackie Coogan, che dovrebbe interpretare lo zio bizzarro: tutti a Hollywood conoscono Jackie, il “monello” di Chaplin, quello che ha fatto tanto per tutelare gli attori bambini, ma per i ragazzini a cui si rivolge la serie è un illustre sconosciuto. Comunque Carolyn non si può permettere di rinunciare a un ruolo da protagonista in una serie di trentaquattro puntate su una rete nazionale.
Carolyn si diverte molto sul set, fa amicizia con Blossom Rock, che le racconta le storie della vecchia Hollywood, quando lei era Sally, la centralinista del Blair General Hospital, in tutti i film della serie con protagonista il Dr. Kildare, mentre il gigantesco Ted Cassidy, nelle pause di lavorazione, suona il piano per la troupe.
Gli sceneggiatori creano per Carolyn il personaggio di Ophelia Frump, la sorella maggiore di Morticia, la “pecora bianca” della famiglia, visto che, a differenza degli altri, predilige questo colore per vestirsi e ha in testa una corona di fiori le cui radici le scendono fino ai piedi. E con lo svolazzante vestito di Ophelia, Carolyn può finalmente muoversi, e stendere con una mossa di judo il povero Gomez. La mano di Carolyn è anche l’interprete di Lady Fingers, la “cosa” a servizio della principessa Millicent von Schlepp - l’attrice Elvia Allman, la voce di Clarabella - che si fidanzerà con The Thing - che invece è la mano di Ted Cassidy.
La serie si rivela un inaspettato successo, anche se dura soltanto due stagioni. Per Carolyn è il ruolo più importante della carriera, che pure dura ancora molti anni, nei quali dimostra di essere un’ottima attrice. Nel 1967 a Broadway sostituisce Vivien Merchant nel ruolo di Ruth, l’enigmatico personaggio femminile che tutti gli uomini della famiglia del marito finiscono per desiderare, nel dramma di Harold Pinter The Homecoming. Torna anche al cinema: è la tenutaria di un bordello del classico horror del 1976 Eaten Alive. Ma è attiva soprattutto in televisione. È Marsha la Regina dei Diamanti, una delle “special guest villains” della fortunata serie Batman. Nella prima storia in cui compare, al termine del primo episodio l’Uomo Pipistrello non rischia la vita, come succede di solito, ma sta per sposarsi proprio con Marsha, che vuole diventare sua moglie per carpirne tutti i segreti. Servirà il provvidenziale intervento di Alfred, all’inizio del secondo episodio, per far saltare le nozze. Poi Carolyn è Ippolita, la madre di Lynda Carter in Wonder Woman e la moglie del padrone della piantagione in Roots. E appare come guest star in puntate di Ironside, Ellery Queen, Quincy M.E., The Love Boat - in cui fa la parte di una matrigna che vuole tarpare le ali alla carriera di cantate della figlia, aizzata dalle sorelle invidiose - Fantasy Island. Infine, all’inizio degli anni Ottanta, ottiene, anche se minata dal cancro, il ruolo di Myrna, la matriarca della famiglia Clegg, nella soap Capitol. È l’ultima sua parte da “cattiva”, poco prima di morire, a soli cinquantatré anni.

Una lunga parrucca corvina, un attillato vestito nero che termina in una serie di tentacoli e quei grandi occhi chiari che ci ammaliano dallo schermo: in questo modo quell’attrice trentaquattrenne originaria del Texas diventa Morticia, come lo stesso Charles Addams decide di chiamare il suo personaggio. Solo con la serie televisiva infatti gli Addams acquistano un nome di battesimo e si definiscono in maniera precisa i legami familiari e i caratteri dei personaggi, nonché le loro complicate genealogie. E si viene a sapere che sono in qualche modo imparentati con la grande famiglia che ha una sola D nel cognome, quella dei due presidenti: un fatto di cui gli Addams con due D comunque non sono particolarmente fieri.
Per la precisione Addams ha “battezzato” Morticia e Wednesday una paio d’anni prima l’uscita della serie, per lanciare le due bambole con le fattezze dei suoi personaggi: potenza del merchandising.
Charles vuole che anche nella serie, come nelle sue vignette, Morticia sia il vero capo della famiglia, attenta e sempre pronta a prendersi cura degli altri, una perfetta padrona di casa, una moglie innamorata e una madre premurosa. Morticia è, a suo modo, l’ideale mamma americana, come sarà dieci anni dopo Marion Cunningham, anche se un po’ più sofisticata. E decisamente più upper class. Ma è una mamma che taglia i boccioli di rosa per mettere nei vasi soltanto gli steli, cura una pianta carnivora, chiamata Cleopatra, rimane imperturbabile quando Pugsley gioca con gli esplosivi o lo zio Fester accende le lampadine mettendole in bocca o Mano - come chiamiamo in italiano The Thing - spunta da qualsiasi anfratto della casa. La forza comica del personaggio è che Carolyn, con la sua bellezza altera e irrigidita in quell’elegante costume, affronta ogni stranezza che capita nella loro cadente villa vittoriana al 0001 di Cemetery Lane senza minimamente scomporsi.
Accanto ad Addams, per realizzare la serie Levy chiama Nat Perrin, che ha a lungo collaborato con Groucho Marx ed è stato uno degli sceneggiatori di Hellzapoppin’. E Nat mette in pratica tutto quello che ha imparato osservando la comicità surreale dei Marx Brothers. Come loro, gli Addams fanno cose che agli occhi degli altri sembrano folli, ma senza rendersene conto, anzi considerando folli i comportamenti delle persone “normali”. Probabilmente Morticia è una strega - d’altra parte sua madre, la vecchia e dolce Nonna Frump, è Margaret Hamilton, la Malvagia Strega dell’Ovest - e infatti compie ogni genere di magia, ma non è come Samantha di Bewitched - l’altra fortunata serie dell’ABC andata in onda per la prima volta nel 1964 e che in Italia sarà Vita da strega - che è ben consapevole di essere una strega, anche perché sua madre Endora glielo ricorda di continuo, ma vorrebbe essere “normale”. Morticia è semplicemente Morticia. E credo proprio che abbia ragione lei: siamo noi a essere strani.

domenica 18 dicembre 2022

Verba volant (823): rivalità...

Rivalità
, sost. f.

Bernard nasce a New York il 3 giugno 1925. I genitori, Emanuel ed Helen, sono ebrei ungheresi. Il padre fa il sarto e la famiglia, a cui presto si aggiungono altri due bambini, vive nel retro della sua piccola bottega del Bronx. In casa si parla solo in magiaro e fino a sei anni Bernard non conosce una parola di inglese. Sono poverissimi, per un periodo i genitori lasciano i figli in un orfanotrofio. A dieci anni Bernard, che ha smesso di andare a scuola, è un teppista che insieme alla sua banda commette furti nei negozi di quartiere. La madre e uno dei fratelli, Robert, soffrono di schizofrenia, l’altro fratello Julius muore investito da un camion, il destino di Bernard sembra segnato, ma un vicino di casa lo toglie dalla strada e lo manda negli scout. La disciplina imposta in quel campo raddrizza il ragazzo, che riesce a diplomarsi.

Roger nasce a Londra, nel quartiere popolare di Stockwell, il 14 ottobre 1927. Il padre George è un poliziotto e la madre Lilian una casalinga. Come altri ragazzi durante la guerra lascia Londra, frequenta le scuole prima a Devon e poi in Cornovaglia, dove si diploma.

Dopo Pearl Harbor, Bernard si arruola in marina. Viene imbarcato sul sottomarino USS Proteus e ci rimane fino alla fine della guerra con il grado di segnalatore di terza classe. Dal ponte della sua nave, ancorata nella baia di Tokyo, assiste il 2 settembre 1945 alla resa del Giappone. Congedato, grazie agli aiuti per i veterani, si iscrive al City College di New York e studia recitazione alla New School del Greenwich Village, diretta dal regista Erwin Piscator. Quell’anno insieme a lui ci sono Harry Belafonte, Walter Matthau, Rod Steiger e due ragazze che diventeranno regine di Broadway, Elaine Stritch e Beatrice Arthur. È qui che lo nota Joyce Selznick, il nipote di David e uno dei suoi principali talent scout: capisce che quel ragazzo può fare cinema.

Dopo il diploma, Roger viene assunto come apprendista in uno studio di animazione, è bravo a disegnare, ma non ha la pazienza di applicarsi a quel lavoro metodico. A causa dei troppi errori viene licenziato. Nel 1945 il padre George deve indagare su un furto a casa del regista Brian Desmond Hurst: coglie l’occasione per parlargli di suo figlio che sta cercando lavoro. Hurst, che sta collaborando alla produzione di Caesar and Cleopatra, il film di Gabriel Pascal con la grande Vivien Leigh e Claude Rains, lo assume come comparsa. Il regista nota che, durante le riprese, le donne che lavorano negli studi sembrano tutte innamorate di quel bel giovane prestante e così decide di pagargli le tasse per frequentare la Royal Academy of Dramatic Art. Nella sua classe ci sono Yootha Joyce, la Mildred di una fortunata serie della BBC della fine degli anni Settanta, e Lois Maxwell, la prima Miss Moneypenny e quella che interpreterà il personaggio in ben quattordici film della serie dedicata al personaggio di Ian Fleming. Roger si dimostra uno studente volonteroso: proprio alla Rada assume il suo caratteristico accento sofisticato. Alla fine della guerra anche Roger viene arruolato: si occupa di organizzare gli spettacoli per le truppe inglesi di stanza ad Amburgo nella Germania occupata.

Nel 1948 il ventitreenne Bernard è a Hollywood, con un contratto con la Universal Pictures, con il nome di Anthony Curtis. L’Universal lo manda a scuola di scherma e di equitazione, anche se quel bel giovane del Bronx sembra più interessato alle ragazze che ruotano attorno agli studios. Per qualche settimana esce con una giovanissima attrice che non sembra proprio riuscire a sfondare a Hollywood e che, come lui, ha avuto un’infanzia complicata, ma tra Bernard e Norma Jean non scocca la scintilla.
Il suo primo film, anche se non è accreditato, è Criss Cross del 1949: balla la rumba insieme a Yvonne de Carlo. In The Lady Gambles, sempre del 1949, recita quattro battute. Il giovane è bravo e l’Universal lo impiega in diversi film. Non si tratta di pellicole memorabili, ma Tony Curtis - come si fa chiamare dal western Kansas Raiders - diventa un volto popolare al cinema. All’Universal ricevono molte lettere di sue fan e così nel 1951 ottiene il primo ruolo da protagonista in The Prince Who Was a Thief, accanto alla splendida Piper Laurie, con cui reciterà anche in altre commedie del genere.
La carriera di Tony è ormai lanciata. Dal 1951 al ’60 interpreta ben ventinove film, quasi tre ogni anno. Nel 1953, sul set di Houdini recita per la prima volta con la moglie Janet Leigh, che ha sposato due anni prima, nonostante l’opposizione degli studios che lo vorrebbe celibe, con cui ha aperto una propria casa di produzione. Poi nel 1956 è il coprotagonista di Trapeze, con Burt Lancaster e Gina Lollobrigida. Con il drammatico The Defiant Ones del 1958, in cui recita accanto a Sidney Poitier, ottiene la sua unica nomination all’Oscar. Ma la commedia è il genere in cui Tony dà il meglio. Nel 1959 è il protagonista in due classici del genere: è la bellissima Josephine di Some Like It Hot, il capolavoro comico di Billy Wilder - dove ritrova “Sugar” Marilyn - e il tenente Holden in Operation Petticoat di Blake Edwards, in cui torna, anche se solo nella finzione, a imbarcarsi, sotto il comando di Cary Grant, in un sottomarino, il più celebre della storia del cinema. Ma l’anno successivo è Antonino in Spartacus di Stanley Kubrick. Tony è ormai una star di Hollywood, una sicurezza al botteghino. Peccato che non arrivi la consacrazione di un Oscar.
Negli anni Sessanta continua a lavorare senza posa, specialmente nelle commedie - ritrova l’amico Jack Lemmon in The Great Race - ma nessuno di quei titoli riesce a eguagliare il successo del decennio precedente. Per non rinchiudersi in questi ruoli brillanti e dimostrare di essere un attore completo, nel 1968 accetta una riduzione di centomila dollari al suo consueto cachet, pur di tornare a un ruolo drammatico, per The Boston Strangler. È un successo di critica, ma il pubblico lo vuole vedere nelle commedie e i produttori, attenti agli incassi, non vogliono deludere gli spettatori.

Congedato dal Combined Services Entertainment con il grado di capitano, Roger Moore torna a Londra. Interpreta piccoli ruoli in alcuni film, senza essere accreditato. In Trottie True lavora con un altro attore alle prime armi, uno un po’ più vecchio di lui che, dopo una bella carriera nell’esercito, ha deciso di recitare, Christopher Lee. Nel 1949 Roger debutta anche in televisione, ma in questi anni soprattutto fa il modello pubblicitario di prodotti di maglieria, tanto che ottiene il soprannome “The Big Knit”, e anche di un dentifricio. Agli inizi degli anni Cinquanta va a Hollywood e la Metro lo mette sotto contratto per sette anni. Il suo primo film negli Stati Uniti è del 1954, The Last Time I Saw Paris, in cui ha il piccolo ruolo di un giovane che corteggia Elizabeth Taylor. Sembra che la sua carriera possa finalmente iniziare, ma dopo il fallimento del film in costume Diane, in cui recita accanto a Lara Turner, la MGM rescinde il contratto dopo soli due anni.
Torna nel Regno Unito e qui ottiene finalmente il suo primo ruolo da protagonista, nelle serie televisiva Ivanhoe. Si tratta di una serie dedicata a un pubblico molto giovane, ma per Roger è il primo vero successo. Non si risparmia nelle tante scene di battaglia: si rompe alcune costole e grazie al suo vero elmo di ferro evita un colpo d’ascia alla testa. I trentanove episodi vanno in onda dal 1958 al ’59. Roger capisce che il suo mezzo è la televisione. Torna negli Stati Uniti e qui viene messo sotto contratto dalla Warner che lo vuole tra i protagonisti della serie western The Alaskans, altri trentasette episodi tra il 1959 e il ’60. La Warner sfrutta il successo e scrittura Roger per la quarta stagione di Maverick, quella in cui non c’è più James Garner nel ruolo del giocatore d’azzardo Bret Maverick. Roger è il cugino Beau, quello dall’accento inglese.
La carriera di Roger è finalmente decollata, ma grazie a The Saint diventa una star. Questa serie va in onda per sei stagioni, dal 1962 al ’69, per centodiciotto episodi. Moore è anche uno dei produttori e dirige nove episodi. Simon Templar, il ladro gentiluomo che, sfuggendo alla polizia, riesce a colpire i “cattivi” quando la giustizia non riesce a farlo, elegante e sofisticato, impenitente seduttore, diventa un personaggio molto popolare e Roger un divo acclamato in tutto il mondo.
Nel 1970 è il protagonista del thriller The Man Who Haunted Himself, una delle sue migliori interpretazioni, in cui finalmente dimostra di non essere solo capace di alzare il sopracciglio.

Dopo il successo di The Saint, i produttori Robert Baker e Lew Grade sono alla ricerca di un’idea per una nuova serie. In una puntata della sesta stagione, Simon Templar per risolvere uno dei suoi casi collabora con un ricco petroliere texano. Pensano che forse mettere insieme due personaggi, un inglese e un americano, entrambi molto ricchi, ma di estrazione completamente diversa, potrebbe funzionare. Poi basta aggiungere qualche ambientazione esclusiva, ad esempio la Costa Azzurra, molte belle ragazze in bikini e qualche auto sportiva e la serie si scrive da sola.
Per la parte dell’aristocratico inglese, educato a Oxford, impenitente playboy ed ex-pilota automobilistico, Roger Moore - di cui da qualche anno si parla come il nuovo Bond - è perfetto, un nome di sicuro richiamo per il pubblico. Baker e Grade non faticano a convincere l’attore, anche perché la telefonata di Broccoli non arriva e sembra probabile che Connery torni a vestire i passi dell’agente segreto con licenza di uccidere, dopo il disastroso esordio di George Lazenby.
È più difficile trovare un attore per il personaggio del petroliere, uno che è nato povero, in un quartiere popolare di New York e che è riuscito a sfondare negli affari, e adesso viaggia per il mondo, godendosi i soldi che ha guadagnato. Serve un attore americano, in modo che la serie abbia mercato anche negli Stati Uniti. Andrebbe bene Rock Hudson, uno dei belli del cinema degli anni Cinquanta e Sessanta, un attore capace a destreggiarsi tra vari generi, ma rifiuta. Glenn Ford potrebbe funzionare, anche se tra lui e Moore ci sono undici anni di differenza; comunque sarebbe un nome di sicuro richiamo, ma non vuole fare televisione. Tony Curtis sa di non essere la prima scelta, ma ha bisogno di lavorare, di qualcosa che lo faccia tornare nel favore del pubblico.
Nella primavera del 1970 cominciano le riprese di The Persuaders!, la serie che in Italia arriverà con il titolo Attenti a quei due. Curtis e Moore discutono a lungo con i produttori e con gli autori della serie: i loro due personaggi, Danny Wilde e Brett Sinclair, devono essere messi sullo stesso piano, a partire dalla sigla di testa. Il pubblico non deve mai avere l’impressione che uno prevalga sull’altro. E proprio quella sigla, grazie alla musica di John Barry, l’autore delle colonne sonore dei più famosi film su James Bond e già vincitore di tre Oscar - saranno in tutto cinque nel corso della carriera - eseguita da un qanun, uno strumento tradizionale arabo, diventa indimenticabile. Sullo schermo appaiono due cartellette, una rossa e una blu, intestate ai due protagonisti con alcune foto che raccontano la loro vita. La foto di Danny bambino è una foto del piccolo Bernard e anche quella del servizio in marina è originale. Il piccolo Brett è invece il figlio di Moore. E poi ritagli di giornali in cui si raccontano le “gesta” dei protagonisti e immagini delle loro auto fiammanti auto sportive e di belle ragazze.
La cornice è piuttosto semplice. All’inizio della serie i due protagonisti ricevono un misterioso invito in Costa Azzurra. Si incontrano e ovviamente non si piacciono, si sfidano in una corsa d’auto, vengono alle mani e quasi distruggono un ristorante. La mattina successiva scoprono che quell’invito è stato inviato dal Giudice Fulton che li mette davanti a una scelta: o collaborano con lui o passeranno novanta giorni in prigione. L’anziano uomo di legge che compare in alcuni altri episodi e diventa inaspettatamente amico dei due giramondo - oltre che il “motore” delle loro avventure - è interpretato da Laurence Naismith, un ottimo caratterista, specializzato nel ruolo del gentiluomo inglese, del medico, del comandante di una nave, ma anche Merlino in Camelot.
Le trame dei ventiquattro episodi della serie sono abbastanza prevedibili nel loro svolgimento, e siamo all’inizio degli anni Settanta, non c’è una particolare attenzione al politicamente corretto: i cattivi hanno la faccia da cattivi, meglio se italiani, latini o orientali, le donne devono essere attraenti e cadere ai piedi dei due protagonisti, le ambientazioni devono far sognare gli spettatori e le auto devono essere veloci. Brett guida una Aston Martin DBS a sei cilindri gialla, con guida a destra, mentre Danny una Ferrari Dino 246 GT, ovviamente rossa, e con guida a sinistra.
L’Italia non ci fa una gran figura: un paese arretrato in cui la mafia impera, con poliziotti corrotti e incompetenti. Siamo più o meno alla celebre copertina di Stern con gli spaghetti e la P38. E così la Rai non trasmette l’episodio con una bellissima Joan Collins, intitolato Five Miles to Midnight - che non viene neppure doppiato - e fa in modo, con un abile lavoro di doppiaggio e gli opportuni tagli in montaggio, che in un altro caso Danny e Brett arrivino in Spagna invece che nel nostro paese.
Ma al di là di tutto, la forza - e la fortuna, che dura tuttora - della serie è tutta nei due personaggi, nei loro continui contrasti, e nella bravura dei loro interpreti. Anche se nel doppiaggio perdiamo il mirabile gioco degli accenti tra l’americano Curtis e l’inglese Moore.
E ci sono molte storie sulle difficoltà sul set per tenere insieme quei due attori, che in qualche modo hanno finito per incarnare i loro personaggi. Il compassato – e molto british – Moore non riesce proprio a sopportare l’imprevedibile Curtis. Una cosa che Roger proprio non tollera è che Tony faccia uso di marijuana durante la lavorazione. Un giorno sulla Croisette Tony, particolarmente “alterato”, tratta malissimo tutti quelli che lavorano sul set e Roger non riesce a trattenersi. Afferra il collega per la giacca e sembra che lo stia per picchiare, poi sbotta: “E pensare che queste labbra una volta hanno baciato Piper Laurie…”. Tutti, compreso Curtis, scoppiano a ridere. E la crisi viene risolta. Molti anni dopo entrambi, ormai vecchi, negheranno i dissidi, ma immagino si tratti della saggezza della vecchiaia.
Le scene tra loro due vengono girate in genere due volte. Nella prima gli attori seguono il copione, mentre nella seconda gli autori lasciano che Roger e Tony improvvisino e in genere questa è sempre quella migliore, perché quei due scafati professionisti trovano in quegli scambi un’incredibile alchimia. Probabilmente si stanno davvero reciprocamente sulle scatole, ma lo fanno come solo loro sono capaci.

lunedì 12 dicembre 2022

Verba volant (822): filtro...

Fata
, sost. f.

È il 25 dicembre 1909. Siamo all’inizio di un nuovo secolo che sembra offrire incredibili possibilità: qualche settimana prima Guglielmo Marconi ha ricevuto il premio Nobel per l’invenzione della radio e il 31 marzo di quello stesso anno nei cantieri navali Harland and Wolff di Belfast sono iniziati i lavori per la costruzione del Titanic, la più grande nave mai realizzata. Quel giorno nei cinema degli Stati Uniti viene proiettato A Midsummer Night’s Dream, un cortometraggio prodotto dalla Vitagraph, la casa di produzione americana più importante dell’inizio del secolo.
Si tratta del primo adattamento cinematografico dell’omonima commedia di William Shakespeare. E in quel rullo di appena dodici minuti c’è tutta la storia. O almeno quasi tutta. C’è l’imminente matrimonio tra il Duca di Atene Teseo e Ippolita, ci sono le due coppie di giovani innamorati, i cui amori sono però contrastati e complicati dalle decisioni del vecchio Egeo, e c’è un gruppo di artigiani che vuole mettere in scena una commedia per festeggiare le auguste nozze. Ma è il solstizio d’estate, la magica notte in cui tutto può succedere, anche che gli esseri sovrannaturali entrino in contatto con i mortali. Qui c’è l’unica, grande, differenza con la commedia, perché nel film non c’è Oberon, non è per gelosia e dispetto che il Re delle Fate chiede a Puck di organizzare la sua vendetta contro Titania. Gli autori del film, probabilmente perché giudicano sconveniente introdurre una lite per il “possesso” di un bambino, inventano il personaggio di Penelope che, dopo aver litigato con la Regina delle Fate, dà al folletto l’erba magica che può far innamorare chiunque. E da qui la storia prosegue come la conosciamo: le coppie si “intrecciano” e Titania si innamora perdutamente dell’artigiano Bottom, anche se Puck ha trasformato la sua testa in quella di un asino. Alla fine di questa “notte degli imbrogli” Penelope si pente di quello che è successo e arriva l’atteso lieto fine, con i giovani che si sposano, ascoltando soltanto quello che dice loro il cuore.
Il cinema è ancora muto: non possono esserci gli splendidi dialoghi scritti dal Bardo e manca la divertente “commedia nella commedia” del quinto atto, con gli artigiani che mettono in scena la storia d’amore di Piramo e Tisbe, ma il film, nonostante le pose affettate dei suoi protagonisti, restituisce la magia della storia, grazie soprattutto alla tredicenne Gladys Hulette che è un Puck scanzonato e dispettoso: il vero motore della vicenda.
Gladys, per quanto giovanissima, calca le scene già da molti anni. A Broadway ha recitato insieme alla mitica Bertha Kalich, la “Jewish Berhardt”, come la chiamano i giornali. Dopo la sua interpretazione di Puck, la carriera di Gladys continua con altrettanta fortuna sia in teatro che al cinema: sul grande schermo è Alice, nel secondo film tratto dai romanzi di Carroll, mentre a Broadway interpreta Beth in una fortunata messa in scena di Little Women. Poi Gladys si dedica per lo più al cinema, perché è una delle prime a capire che quel nuovo mezzo è destinato a cambiare il mondo e che quelli che fanno i film non sono “bagnini di Coney Island”, come credono sprezzantemente i vecchi teatranti di Broadway. Ma il sonoro blocca la carriera di Gladys, che nel 1948, tornata a New York, lavora nella biglietteria del Radio City Music Hall. Chissà quante storie ha raccontato alle sue giovani colleghe.
La Vitagraph mette in campo i suoi nomi migliori per la realizzazione di quel film. La regia è firmata da James Stuart Blackton e Charles Kent.
Se guardate una vecchia foto di Blackton, con i suoi occhialetti tondi e l’incipiente calvizie, potreste pensare di avere di fronte un professore di Yale o un agente di Wall Street, invece questo inglese nato nel 1875 - emigrato negli Stati Uniti all’età di dieci anni - è uno degli uomini che ha “inventato” il cinema. Gli piace disegnare e con i suoi disegni vuole entrare nel mondo del vaudeville: prepara le diapositive per le “lanterne magiche”. Con lo spettacolo non guadagna abbastanza e il giovane James si adatta a lavori “normali”. Entra nella redazione del New York Evening World che lo manda a intervistare Thomas Edison che ha appena presentato una sua nuova invenzione, il Vitascopio, uno dei primi proiettori cinematografici. Al geniale inventore piace quel reporter che fa quei disegni buffi e gli regala uno di quei proiettori. James chiama i suoi vecchi compagni del vaudeville e fonda la propria compagnia, chiamandola Vitagraph. E fa tutto quello che serve: produce, dirige, scrive le sceneggiature, cura il montaggio, recita. Comincia con cortometraggi animati e poi passa ai veri e propri film. Insieme ai grandi classici della letteratura dell’Ottocento, Shakespeare ispira molte di queste sue prime opere: tra i titoli di questi anni ci sono Macbeth, Romeo and Juliet - che gira tutto in esterni, al Central Park - Richard III, Antony and Cleopatra, Julius Caesar, The Merchant of Venice, King Lear. E appunto A Midsummer Night’s Dream, alla cui regia collabora il suo connazionale Charles Kent, regista e attore, che nel film interpreta anche il ruolo di Teseo.
E nel film recitano i più importanti attori della Vitagraph, a partire da Maurice Costello, nel ruolo di Lisandro. Nato a Pittsburgh nel 1877 da una famiglia irlandese, Maurice, dopo una fortunata carriera nel vaudeville, arriva al cinema nel 1908 con Salome, uno dei successi della compagnia. L’attore diventa ben presto una star, una delle prime della settima arte, l’idolo del pubblico femminile, che segue la sua vita non solo sugli schermi, ma anche dalle cronache mondane dei giornali. E Maurice si sente davvero una star, tanto che sul set pretende di fare “solo” l’attore e non è disposto a fare altri lavori, come fanno tutti gli altri, che aiutano a costruire le scene o a cucire i costumi. William V. Ranous, il divertente Bottom del film, è uno di questi attori che “si sporca le mani”, anche perché, a differenza di Costello, lui di solito è il “cattivo”: Macbeth, Cassio, Riccardo III, Javert. E il pubblico preferisce gli eroi.
Ad accompagnare Titania ci sono due giovanissime fate, Dolores e Helene Costello, di sei e tre anni, figlie di Maurice e dell’attrice Mae Altschuk - ma anche lei usa il cognome “d’arte” Costello - al loro debutto sul grande schermo. Dolores e Helene diventano in pochissimo tempo due famosissime attrici bambine sia al cinema che a Broadway. Dolores fa una grande carriera, è soprannominata “The Goddess of the Silent Screen”. Sul set di The Sea Beast conosce John Barrymore e i due si sposano, anche se i ventitré anni di differenza tra i due sono motivo di scandalo. E così Dolores entra nella “Royal Family” del teatro americano. Per la “dea del cinema muto” il passaggio al sonoro è un dramma, anche se recita in alcuni film importanti e nel 1942 Orson Welles la vuole nel ruolo della decana Isabel in The Magnificent Ambersons. La carriera di Helene non è altrettanto ricca di quella della sorella maggiore: dopo i successi come attrice bambina e qualche ruolo importante - è tra i protagonisti di Lights of New York - il mondo del cinema si dimentica di lei, che cade in una triste spirale di dipendenza e scandali.
Nei ruoli di Hermia e Helena recitano Rose Tapley e Julia Swayne Gordon. Rose negli anni successivi viene chiamata “Mother of Movies”, per celebrare una lunga carriera: all’inizio del secolo è apparsa in un film di Edison e poi in The Money Kings, il primo a due rulli, nell’anno di A Midsummer Night’s Dream firma un contratto con la Vitagraph e per questo è considerata la prima attrice del cinema americano.
Naturalmente non può mancare “The Vitagraph Girl”, la bellissima Florence Turner, che interpreta Titania. Anche Florence ha cominciato a teatro come attrice bambina. Poi nel 1907, a ventidue anni, scopre il cinema. Blackton la mette sotto contratto e in pochi anni Florence diventa il volto della casa di produzione: il pubblico va al cinema per vedere la “ragazza della Vitagraph”. Anche se non conosce il suo nome, non dimentica i suoi grandi occhi scuri. La sua paga arriva alla cifra di ventidue dollari a settimana - che è più bassa di quella di Costello - ma la più alta per un’attrice. Florence Lawrence, che invece è “The Biograph Girl”, ne prende venti. Comunque il suo contratto prevede che Florence lavori anche in sartoria.
Nel 1913 Turner si trasferisce a Londra e qui comincia a scrivere e dirigere i film di cui è protagonista. Fonda anche la sua casa di produzione, la Turner Films. Durante la prima guerra mondiale si esibisce per le truppe e dopo l’armistizio torna in America. Ma il cinema sta cambiando e la sua stella si sta affievolendo. Negli anni Trenta Louis B. Mayer la mette sotto contratto per la Metro, ma si tratta di una sorta di pensione: recita in alcuni film, come comparsa o in piccoli ruoli non accreditati. Quel contratto è però il riconoscimento per una delle artiste che hanno fatto nascere il cinema.

Il 30 ottobre 1935 Florence, ormai dimenticata, è tra il pubblico che assiste alla première di A Midsummer Night’s Dream, il nuovo film prodotto dalla Warner Brothers. Sono passati solo ventisei anni da quello della Vitagraph, anche se sembrano molti di più. Il cinema ha fatto incredibili progressi. Non è più il pioneristico esperimento di alcuni artisti visionari, adesso è un’industria, una delle più importanti del paese. E non si fa più a New York e nelle altre città della East Coast, ma a Hollywood. E anche il mondo è molto cambiato. È come se le speranze del secolo nascente fossero naufragate insieme al Titanic. C’è stata la prima guerra mondiale, in Europa sono finiti i grandi imperi e sotto la cenere di quelle macerie sta covando un nuovo incendio.
Le vicende personali del regista Max Reinhardt raccontano proprio questa storia. È nato nel 1873 a Baden, a pochi chilometri da Vienna, da una ricca famiglia di origine ebraica. Il giovane Max capisce molto presto che il lavoro in banca non fa per lui, perché la sua passione è il teatro. Ama recitare, poi comincia a scrivere, si trasferisce a Berlino e qui diventa regista. In pochi anni questo genio innovatore rifonda il teatro tedesco. Nel 1905 è il direttore del Deutsches Theater e, accanto ai classici tedeschi, alle tragedie greche e a Shakespeare - di cui è uno dei grandi interpreti del Novecento - mette in scena assolute novità, come Spettri di Ibsen, chiedendo a un giovane pittore, Edvard Munch, di disegnare le scene. Reinhardt è uno degli artisti della Repubblica di Weimar, uno degli uomini di cultura che fa della Berlino tra le due guerre una sorta di “nuova Atene”. Nel 1924 mette in scena la versione tedesca di Sei personaggi in cerca d’autore, perché sente che quel gentiluomo italiano sta, come lui, creando un teatro nuovo. Come fanno i suoi amici Brecht e Weill. Max in questi anni scopre anche il cinema e dirige alcuni film.
Ma quel mondo balla sull’orlo della catastrofe: Reinhardt è ebreo, ma soprattutto è un uomo di sinistra, è un rivoluzionario, e il nuovo potere che si sta affermando in Germania non tollera quelli come lui. Nel 1933 si trasferisce in Austria, dove ha fondato nel 1918 il Festival di Salisburgo, spera di poter continuare a fare teatro, ma anche il suo paese diventa ostile e fugge negli Stati Uniti. Qui i produttori della Warner gli propongono di girare un film e Max pensa immediatamente a una nuova versione di A Midsummer Night’s Dream. È un testo che ama moltissimo e che ha messo in scena diverse volte. Nel 1905 è stato il suo primo grande successo: proprio in quell’occasione per la prima volta in un teatro è stato usato un palco girevole. E poi quel testo gli permette di usare la musica e il balletto, come ha fatto il 31 maggio 1931 in una storica messa in scena al Giardino dei Boboli, con le musiche composte da Felix Mendelssohn Bartholdy, con Eva Maltagliati nel ruolo di Titania.
Reinhardt non parla inglese, ma per fortuna da alcuni anni vive a Hollywood un suo giovane amico, William Dieterle, che ha recitato per lui a Berlino e ha diretto alcuni film in Germania. Ma anche lui è dovuto fuggire e da un paio d’anni lavora per la Warner. I produttori danno a Reinhardt carta bianca e lui pensa di realizzare al cinema lo spettacolo che aveva messo in scena a Firenze. Il giovane compositore Erich Wolfgang Korngold, anche lui austriaco di origine ebraiche, viene chiamato per orchestrare le musiche di Mendelssohn Bartholdy, mentre Bronislava Nijinska, la grande ballerina che ha debuttato con i Ballets russes, viene ingaggiata come coreografa.
Questo è il primo e unico film americano di Reinhardt, che preferisce dedicarsi all’insegnamento: fonda un’accademia teatrale e cinematografica. Gli altri diventano invece nomi noti a Hollywood. Dieterle è uno dei grandi artigiani dell’industria del cinema, dirige film, tra cui - uno dei suoi migliori - The Hunchback of Notre Dame del 1939 con il grande Charles Laughton e la sensuale Maureen O’Hara. Nel 1950 dirige un’intensa Anna Magnani in Vulcano. Korngold alla fine degli anni Trenta vince due Oscar, per le colonne sonore di Anthony Adverse e The Adventures of Robin Hood. Anche Nijinska si dedica all’insegnamento: molte ballerine di Hollywood vengono dalla sua scuola, compresa Cyd Charisse.
Per quel cast la Warner vuole mettere in campo gli attori migliori che ha sotto contratto. A Dick Powell non entusiasma affatto la proposta di interpretare Lisandro, ma non può rifiutarsi. Vorrebbe uscire dall’immagine del bravo ragazzo, dell’eroe romantico che Hollywood ha costruito per lui, ma è bello, sa cantare: è il ragazzo che le mamme vorrebbero come fidanzato per le loro figlie. Solo a metà degli anni Quaranta arriverà la svolta per la sua carriera, con It Happened Tomorrow di René Clair e soprattutto Murder, My Sweet di Edward Dmytryk, in cui interpreta Philip Marlowe, il primo di una lunga serie di attori a dare il volto al detective creato da Chandler. E così il bravo ragazzo dell’Arkansas diventa un duro dei noir.
Invece sembra un azzardo la scelta di affidare a James Cagney il ruolo di Bottom. È uno degli attori più noti della Warner, un nome spendibile al botteghino, ma non per una commedia, per di più di Shakespeare: James ha la faccia da gangster, è Tom Powers di The Public Enemy, il duro che schiaccia un pompelmo in faccia alla sua ragazza. Ma James è un attore che ha sulle spalle, nonostante la giovane età, una lunga gavetta, è un ottimo ballerino di tip tap, ha recitato nel vaudeville, sa destreggiarsi tra i generi. A Midsummer Night’s Dream sarà l’unico titolo shakespeariano della sua lunga e fortunata carriera, ma certamente una sfida vinta.
Vanno ricordati anche i nomi degli altri attori che formano la compagnia degli artigiani: Frank McHugh, Dewey Robinson, Hugh Herbert, Otis Harlan e Joe E. Brown. Sono tutti eccellenti caratteristi, facce e voci note agli amanti del cinema - Otis è Gongolo nel classico Disney - almeno quanto sono sconosciuti i loro nomi. Un accenno in più lo merita Brown, che nel film interpreta Flute. E lui sapete davvero tutti che faccia ha, perché nel 1959 Billy Wilder - un altro degli uomini fuggiti dalla natia Europa che hanno creato il grande cinema americano - gli affida la parte di Osgood Fielding II e la più memorabile - e citata - battuta finale di un film.
Come detto, la Warner sceglie tutti gli attori tra quelli che ha sotto contratto, come la bionda e dolce Anita Louise per il ruolo di Titania, tranne una debuttante per il ruolo di Hermia. Una collaboratrice di Reinhardt ha notato questa ragazza interpretare il ruolo in una compagnia di Saratoga. Ha grandi occhi scuri. Prendono informazioni su di lei: è di origini inglesi, anche se è nata a Tokyo, ma vive da tempo in California, insieme alla madre e alla sorella, dopo che il padre, un avvocato specializzato in brevetti, ha abbandonato la famiglia. Lì in America ha cominciato a recitare. E dicono sia brava, anche se la ragazza vuole fare l’insegnante. Reinhardt e Dieterle pensano sia perfetta e così la Warner la mette sotto contratto per duecento dollari alla settimana. Quello di Olivia de Havilland è uno dei debutti più fragorosi di Hollywood.
Poi serve Puck. Nessuno degli attori bambini della Warner sembra soddisfare le esigenti richieste di Reinhardt. C’è questo ragazzino che viene da New York, ha debuttato a due anni nel vaudeville, esibendosi con il padre. Poi è arrivato a Hollywood e ha ottenuto la parte di Mickey McGuire - un personaggio dei fumetti ideato dal cartoonist Fontaine Fox - e l’ha interpretato in ben settantotto cortometraggi, dai sette ai tredici anni. Si è così identificato nel personaggio da scegliere come nome d’arte Mickey. Max Reinhardt capisce subito che quel Mickey Rooney è perfetto per interpretare Puck. Ma quando Mickey, andando in slittino, si rompe una gamba, i produttori non sanno cosa fare, metà film è già girato e non possono aspettare che il ragazzino guarisca. E così grazie a una controfigura e a parecchi trucchi, tra cui buchi ricavati nelle scene per nascondere la gamba ingessata e abbondanti dosi di foglie per celare quello che non deve essere visto, si riesce a terminate. Rooney dirà che Jack Warner era così furioso da minacciare di ucciderlo e poi di spezzargli l’altra gamba.
Il film si rivela un disastro al botteghino. Molti cinema decidono di non proiettarlo nemmeno. Non si capisce che roba sia. È una commedia? Ma il pubblico davvero può ridere con Shakespeare? È un film d’amore? Non si capisce. Meglio non rischiare. Anche i critici non sono particolarmente entusiasti. Ed effettivamente lo stile di Reinhardt è troppo moderno per i canoni dell’epoca.

Devono passare sessantaquattro anni prima che negli Stati Uniti venga prodotto un nuovo film tratto dalla commedia di Shakespeare. Nel frattempo ce ne sono stati uno cecoslovacco, un paio inglesi - entrambi con Helen Mirren, una volta Hermia e l’altra Titania - uno francese. Per tacere delle riduzioni, delle citazioni, delle parodie. Credo meriti ricordare che nel 1964 la BBC ha trasmesso uno speciale in cui quattro giovani e irriverenti musicisti hanno rappresentato la scena I dell’atto V della commedia: Paul come Piramo, John come Tisbe, George come il Chiaro di luna e Ringo come il Leone.
L’ultimo A Midsummer Night’s Dream esce il 14 maggio 1999, un secolo dopo quello della Vitagraph. Certo anche il modo di fare film è cambiato, le tecnologie sono sempre più presenti - a volte troppo - ma, a pensarci bene non come nei ventisei anni tra i primi due di cui ho parlato. Il mondo invece è cambiato. Molto. Nel frattempo c’è stata un’altra guerra mondiale, e poi la cosiddetta “guerra fredda” e infine il 1989. È sparita l’Unione Sovietica. E ormai Titanic è solo un film, anzi il film - insieme a Ben Hur - che ha vinto il maggior numero di Oscar: ben undici.
È Michael Hoffman il regista che, poco più che quarantenne, accetta la sfida di riportare sullo schermo la commedia di Shakespeare, ambientandola in una Toscana immaginaria - e molto british - di fine Ottocento, in cui alle note di Mendelssohn Bartholdy si mescolano quelle di Giuseppe Verdi. I suoi film precedenti sono andati bene, ma non sono certo incredibili successi: Promised Land, Some Girls, Soapdish - il mio preferito tra questi, il più originale - Restoration, One Fine Day. E credo che A Midsummer Night’s Dream sia il suo migliore, ma d’altra parte con uno sceneggiatore come William Shakespeare è difficile sbagliare.
E grande merito va agli interpreti. Il cast è certamente la cosa migliore di questo film. La scelta di far interpretare a Stanley Tucci il ruolo di Puck è certo la più geniale. Perché Stanley è bravissimo e soprattutto perché ha una quarantina d’anni, è più o meno coetaneo di Oberon e Titania e certamente più vecchio dei giovani innamorati che si perdono nel bosco. Di conseguenza il suo Puck non è solo dispettoso, è anche a suo modo saggio, è un folletto che ha una certa esperienza delle cose del mondo e ne ha già viste parecchie. Osserva le vittime dei suoi incantesimi, specialmente i ragazzi, con un’aria benevola, quasi paterna, e anche disincantata. Come se sapesse che quelle loro parole, quei vaneggiamenti amorosi, non sono davvero causati dalla sua magia, ma da loro stessi. Puck è un mago che non crede più alle sue magie, ma lascia che ci credano gli altri.
E certo non serve una magia perché Bottom si innamori di Titania. Chi non cadrebbe ai piedi di Isabeau D’Anjou, di Marie de Tourvel, di Susie Diamond, di Catwoman, diventate la splendente Regina delle fate? E forse neppure serve un incantesimo per ricambiare l’amore di Kevin Kline, che rimane affascinante, anche con le orecchie d’asino, perché sono i versi che ci fanno innamorare. E Otto West, che oltre a essere un truffatore, è uno dei migliori interpreti shakespeariani della sua generazione, lo sa bene.
Quello di Hoffman non è l’ultimo dei cinematografici sogni shakespeariani. C’è anche un cartone animato in cui i giovani innamorati sono Topolino, Paperino, Minnie e Paperina. E Pippo è Bottom. Poi c’è un film del 2017 ambientato a Los Angeles. con la cantante Mia Doi Todd nel ruolo di Titania.
Arriverà al cinema un nuovo A Midsummer Night’s Dream? Certo, perché Shakespeare è immortale e perché tonerà sempre il solstizio d’estate, la magica notte in cui tutto può succedere.

sabato 3 dicembre 2022

Verba volant (821): dinastia...

Dinastia
, sost. f.

Anche se suo padre vuole farne un avvocato, per Oscar Hammerstein II il teatro è una carriera inevitabile, un destino che si porta nel nome, che è lo stesso di suo nonno, l’uomo che ha creato Broadway. E nel caso del vecchio Hammerstein non si tratta di un’iperbole retorica.

Ma facciamo un passo indietro. Questa storia comincia a metà dell’Ottocento, in Pomerania, nel Regno di Prussia, al tempo di Federico Guglielmo IV. A Stettino per la precisione, dove Oscar - il primo Oscar di questa nostra storia - nasce l’8 maggio 1846. Il giovane ha la passione per la musica, suona il flauto e il violino, ma suo padre Abraham ne vuole fare un mercante e un uomo d’affari. A diciotto anni i dissidi in famiglia diventano insostenibili e quando Abraham frusta il figlio perché un pomeriggio è andato a pattinare, contravvenendo a un suo divieto, la misura è colma. Oscar vende il violino e fugge da Stettino. Arriva a Liverpool e da qui, salito su un piroscafo, parte per l’America.
Oscar nel 1864 è a New York, senza un soldo. Trova lavoro in una fabbrica di sigari in Pearl Street, nel Lower Manhattan. Adesso questa strada è nel cuore finanziario di Wall Street, ma allora era uno dei quartieri industriali della città. Il ragazzo fa carriera, in pochi anni diventa direttore e poi crea una sua fabbrica. Registra numerosi brevetti che rendono più efficiente la produzione dei sigari e dopo vent’anni è uno dei maggiori produttori degli Stati Uniti. Abraham non lo saprà mai, ma suo figlio è diventato quello che lui aveva sperato: un ricco e rispettato uomo d’affari.
Oscar però non ha mai dimenticato la sua passione per la musica. E così nel 1889 decide di investire i guadagni della sua fabbrica di sigari per costruire un teatro, l’Harlem Opera House, sulla 125esima Strada, e un paio d’anni dopo, su quella stessa via, il Colombus Theatre. Harlem in quegli anni non è ancora il quartiere dei neri, ma è abitato dalla ricca borghesia bianca che non vuole più stare nel centro della città, che sta diventando troppo caotico. I due teatri vanno abbastanza bene, ma Oscar sogna di diventare un grande impresario, vuole portare l’opera a New York. Nel 1893 costruisce il Manhattan Opera House, vuole farne un importante teatro lirico, ma per gestirlo deve associarsi con gli impresari John Koster e Albert Bial, che ne fanno una sala per il vaudeville. Oscar non si arrende e nel 1895 costruisce il suo quarto teatro, l’Olympia: si tratta di un vasto edificio in stile rinascimentale che ospita un teatro, un music hall, una sala da concerti e un giardino pensile per gli spettacoli all’aperto. Per l’Olympia Oscar scrive un’operetta, intitolata Santa Maria, che, anche se incontra il favore del pubblico, è per Hammerstein un disastro finanziario. Non bada a spese: ingaggia una stella come Camille D’Arville - la grande cantante di origini olandesi che ha lavorato a lungo a Londra - impiega un’orchestra di più di cinquanta elementi - mentre di solito ce ne sono la metà - e per il terzo atto fa costruire un “palazzo di ghiaccio” in alluminio, una cosa mai vista fino a quel momento in un teatro.
La grande facciata dell’Olympia Theatre occupa una buona parte di un’ampia piazza triangolare all’incrocio tra la Settima Avenue e Broadway; allora quella piazza si chiama ancora Longacre Square, ma che nel 1904 verrà ribattezzata Times Square. E poco lontano da quella piazza Hammerstein costruisce negli anni successivi altri tre teatri, il Victoria, di cui mantiene la gestione, per gli spettacoli di vaudeville, il Theatre Republic, che invece viene ceduto a David Belasco, il prete diventato drammaturgo, regista, attore, scopritore di talenti - e che è l’autore dei drammi che diventeranno, grazie al genio di Puccini, Madama Butterfly e La fanciulla del West - e infine il Lew Fields Theatre, ceduto appunto al celebre attore e produttore che vuole dare il proprio nome a un teatro. In breve altri impresari decidono di aprire le loro sale in quella zona di Midtown Manhattan, che si riempie, oltre che di teatri, di locali notturni, ristoranti, night club, facendo di Times Square il cuore della Great White Way, perché l’illuminazione pubblica, i cartelloni pubblicitari e le insegne dei teatri – grazie a quella diavoleria moderna dell’elettricità – illuminano a giorno quel breve tratto di strada. E così in pochi anni, grazie all’intuizione del primo Oscar, nasce quella che noi chiamiamo Broadway, una delle metonimie più famose del Novecento.
Il rispettato produttore di sigari, che intanto ha fondato anche un quotidiano, l’United States Tobacco Journal, continua a covare l’idea di costruire un grande teatro dell’opera che possa stare alla pari del Metropolitan, anzi che lo possa superare. Oscar considera il Met troppo elitario, vuole che tutti i cittadini di New York possano andare all’opera, come vanno agli spettacoli di vaudeville. Costruisce così il suo ottavo teatro, al 311 West della 34esima Strada, il secondo Manhattan Opera House. Il debutto avviene il 6 dicembre 1906 con una storica edizione de I puritani di Vincenzo Bellini, con la direzione del parmigiano Cleofonte Campanini - che nel 1903 è il successore di Toscanini alla direzione della Scala - e un cast di grande rilievo, in cui spiccano il tenore Alessandro Bonci e il baritono Mario Ancona. In pochi anni il Manhattan Opera House si afferma come un importante teatro d’opera: ospita le prime americane di Pelleas et Melisande, Elektra, Salome. E il debutto dell’operetta Naughty Marietta di Victor Herbert. Hammerstein vuole i migliori cantanti, ingaggia Mary Garden e Luisa Tetrazzini e “strappa” al Metropolitan Nellie Melba, il celebre soprano australiano, a cui Escoffier ha dedicato uno dei suoi dolci più famosi. Queste ricche e dispendiose produzioni - a cui corrispondono prezzi dei biglietti decisamente popolari - rischiano di far fallire il teatro, ma anche il Met soffre, perché, per sostenere la concorrenza di Hammerstein, è costretto ad aumentare i costi dei propri spettacoli. Nel 1910 Arthur, il figlio a cui il vecchio Oscar ha affidato la gestione di quel teatro - così come ha fatto con William per il Victoria - riesce a salvare il Manhattan Opera House trovando un accordo proprio con il Met. Il Metropolitan versa agli Hammerstein 1,2 milioni di dollari in cambio dell’impegno a non produrre opere liriche per dieci anni.
Ma Oscar vuole continuare a costruire teatri. Nonostante l’insuccesso finanziario del Philadelphia Opera House, che apre nel 1908 e vende due anni dopo, grazie ai soldi del Metropolitan va a Londra e nella capitale inglese costruisce il suo decimo teatro, il London Opera House. E anche qui vuole far concorrenza con uno storico teatro, addirittura il Royal Opera House di Covent Garden. Ma dopo due anni Oscar chiude anche questa impresa, torna a New York e apre il suo undicesimo - e ultimo - teatro, il Lexington Opera House. Ma i soldi per produrre le opere sono finiti e così questa sala diventa subito un cinema. Oscar muore nel 1919. Sta aspettando che finisca il “contratto” con il Met: nel 1920 potrà finalmente produrre una grande opera lirica a Broadway.

William nasce a New York il 26 settembre 1875, è il quartogenito di Oscar e Rosa Blau. Anche il padre di Rosa è tedesco ed è un produttore di sigari. Il giovane Hammerstein, come il padre, ama il teatro e l’opera, ma non condivide l’ostinazione paterna a voler rendere accessibile al maggior numero di persone questo tipo di spettacolo. William conosce meglio di Oscar i gusti del pubblico e decide di assecondarli. Il suo teatro non vuole parlare alla testa e al cuore del pubblico, ma, nel migliore dei casi, alla pancia. E con questo è convinto di poter salvare le spericolate “avventure” teatrali del padre.
Prima, insieme a suo fratello Arthur, lavora come addetto stampa nei teatri del padre e poi costruisce una sua piccola sala, il Little Coney Island, in cui organizza spettacoli di burlesque. Poi ritorna a lavorare con Oscar quando questi apre l’Olympia: gestisce le attività del locale che si trova nel giardino pensile. Sembra che l’attività sia destinata a fallire e allora William decide che bisogna cambiare strada: “Finora ho provato il meglio ed è andata così, vorrà dire che proverò il peggio”. E ingaggia le Cherry Sisters.
Sono tre sorelle, non particolarmente attraenti, dell’Iowa che portano in giro nei locali di vaudeville del Midwest uno spettacolo scritto da loro intitolato Something Good, Something Sad: è un’accozzaglia di canzoni religiose, patriottiche, sentimentali, composte dalle tre sorelle, che viene accolto in genere piuttosto rumorosamente dal pubblico. E anche i giornali scrivono critiche molto pesanti contro di loro, tanto che le sorelle Cherry decidono di denunciare per diffamazione l’editore del Des Moines Leader. Il caso arriva fino alla Corte Suprema dell’Iowa che stabilisce che un giornale “ha il diritto, e il dovere, di pubblicare commenti equi e ragionevoli” su chiunque. La “Cherry vs. Des Moines Leader” è una sentenza che farà storia nella giurisprudenza americana a favore della libertà di stampa, facendo guadagnare, in maniera assolutamente inaspettata, alle tre sorelle un posto nella storia dello spettacolo americano.
William le conosce bene e proprio per questo ingaggia il trio, assicurandosi di installare una rete di protezione tra loro e il pubblico, che fermi gli ortaggi e gli oggetti che gli spettatori più facinorosi gettano contro le sorelle. William ha ragione: quello spettacolo registra ogni sera il tutto esaurito, salvando, almeno per qualche anno, l’Olympia.
E così nel 1904 Oscar affida a suo figlio la gestione del Victoria Theatre, l’unico teatro della zona di Times Square a presentare spettacoli di vaudeville. In pochissimo tempo, grazie anche ai prezzi molto bassi dei biglietti, il Victoria diventa uno dei teatri più frequentati della nascente Broadway e una sicura fonte di reddito per la famiglia Hammerstein, provvidenziale, visti i dispendiosi tentativi di Oscar di diventare il più importante impresario di opere liriche della città.
I conti vanno bene anche perché William produce spettacoli dove accanto a poche celebrità, c’è un gran numero di giovani sconosciuti. La forza degli spettacoli di William è che ogni giorno e ogni sera il pubblico può trovare un po’ di tutto: le gag di un giovanissimo Buster Keaton e la bellezza conturbante di Mae West, le acrobazie con il lazo di Will Rogers e le canzoni di Irving Berlin. E Don il cane parlante, un incrocio tra un setter e un pointer, che può vocalizzare otto parole in tedesco, oltre a dire ja, nein e il proprio nome. Poi ci sono ballerine, molte ballerine, vestite il meno possibile, acrobati, comici, animali ammaestrati, suonatori di ragtime, fenomeni da baraccone: nelle “extravaganze” del Victoria potete trovare davvero ogni genere di curiosità. E il pubblico vuole credere che quella ragazza dalla bellezza esotica sia proprio Shekla, la maga di corte dello Scià di Persia, o quella giovane poco vestita sia Mademoiselle Fatima, una danzatrice scappata da un harem, o qualsiasi altra bugia Hammerstein sia in grado di inventare. Poi William capisce che il pubblico vuole andare a teatro anche per vedere i protagonisti delle più sordide storie di cronaca nera e così ingaggia la bellissima Evelyn Nesbit, “The Girl in the Red Velvet Swing”, la musa ispiratrice del pittore Charles Dana Gibson, il sogno proibito dell’America di inizio Novecento e soprattutto la protagonista, seppur involontaria, di un efferato omicidio: accecato dalla gelosia, il marito, il milionario Harry Kendall White, ha ucciso un antico amante della donna, Stanford White, il grande architetto che ha progettato tanti edifici a New York, l’esponente di punta del cosiddetto Rinascimento americano. Il pubblico per pochi dollari può sentirsi parte di questo mondo dorato.
Qualche anno dopo credo che Irving Berlin si sia ricordato di questi spettacoli del Victoria per scrivere il testo di una delle sue canzoni più famose There’s No Business Like Show Business:
The butcher, the baker, the grocer, the clerk
Are secretly unhappy men because
The butcher, the baker, the grocer, the clerk
Get paid for what they do but no applause.
They’d gladly bid their dreary jobs goodbye
for anything theatrical and why?
Non abbiamo fotografie di William, che non ama la ribalta né la vita mondana. Finito lo spettacolo, torna alla sua bella casa al 315 di Central Park West. Non vuole nemmeno che nelle locandine compaia il suo nome. Non riesce proprio a condividere la smania di protagonismo del suo collega Ziegfeld, che invece vuole che tutti gli spettacoli che produce portino il proprio nome. E soprattutto William non vuole che i suoi figli si dedichino al teatro.

E così Oscar Hammerstein II, nato a New York il 12 luglio 1895, nonostante la sua passione per il teatro, obbedisce al padre e si iscrive alla facoltà di giurisprudenza della Columbia University. Ha ottimi voti e quel ragazzone così alto si distingue anche come prima base della squadra di baseball dell’ateneo. Vorrebbe partecipare al Varsity Show, lo spettacolo che ogni anno è allestito dagli studenti della Columbia, ma non vuole disobbedire al padre. William purtroppo soffre di una grave malattia ai reni e nel 1914, a soli trentotto anni, muore. E allora Oscar si unisce alla Columbia University Players. L’anno successivo è uno degli interpreti di On the Way, ma capisce presto che è molto più bravo a scrivere canzoni che a interpretarle. E così per lo spettacolo del 1916, intitolato The Peace Pirates, comincia a scrivere i testi. Nel 1917 lascia la Columbia. Lo zio Arthur lo presenta a Otto Harbach, uno dei più celebri autori di operette, che diventa il mentore del ragazzo, che finalmente, nel 1920, un anno dopo la morte del nonno, debutta a Broadway. Per Always You scrive il libretto e i testi delle canzoni, mentre Herbert Stothart è l’autore delle musiche. Stothart è un prolifico compositore, attivo sia a Broadway che a Hollywood: è l’autore della colonna sonora di The Wizard of Oz, per cui ottiene un meritato Oscar.
Il giovane autore ha l’ambizione di creare qualcosa di nuovo. Come suo nonno, ama l’opera. E come suo padre, conosce bene i gusti degli americani. Il pubblico ama le canzoni che passano alla radio e che vengono presentate negli spettacoli di Broadway - le canzoni che anche lui ha cominciato a scrivere - e Oscar immagina come sarebbe usare quelle canzoni per raccontare una storia.
E così il 27 dicembre 1927 debutta al Ziegfeld Theatre Show Boat. Oscar ha scritto il libretto, la storia di un gruppo di artisti che lavorano sulla Cottom Blossom, una delle più celebri “show boats” - le caratteristiche imbarcazioni con le grandi ruote - che percorrono il Mississipi, fermandosi di città in città per i loro spettacoli: c’è una travagliata e tragica storia d’amore, sullo sfondo delle tensioni razziali degli Stati del Sud. E ha scritto anche i testi delle canzoni, perché in questo nuovo spettacolo canzoni e dialoghi sono tutt’uno, proprio come succede nell’opera tanto amata dal nonno. L’amico Jerome Kern scrive le musiche ed ecco che è nata una cosa assolutamente nuova, che non è né un’operetta né uno spettacolo di vaudeville, in cui i pezzi musicali sono staccati l’uno dall’altro. È nato il musical. E curiosamente i soldi li mette proprio Ziegfeld, il re delle Follies, del vecchio modo di fare teatro, l’unico che abbia i mezzi per farlo e soprattutto l’unico che capisce che quel giovane alto e massiccio sta per fare una rivoluzione. Infatti dopo Show Boat il teatro musicale cambia. Per sempre.
Show Boat è un successo, Oscar continua a lavorare con Kern e con altri musicisti, poi nel 1943 ritrova un compositore un po’ più giovane di lui, che aveva conosciuto ai tempi della Columbia, Richard Rodgers, che fino a quel momento aveva lavorato con Lorenz Hart - anche lui, da studente, impegnato nei Varsity - e nasce la “ditta” Rodgers e Hammerstein: Oklahoma!, Carousel, Allegro, South Pacific, The King and I, Me and Juliet, Pipe Dream, Cinderella, Flower Drum Song, The Sound of Music. Questi musical, i film tratti da questi spettacoli e i loro due autori collezionano ben trentaquattro Tony, quindici Oscar, un Pulitzer e due Grammy. Rodgers e Hammerstein sono tra gli autori più importanti del teatro musicale americano. E le loro canzoni, parte fondamentale del Great American Songbook, continuano a essere cantate, in ogni parte del mondo: sono classici intramontabili.
Ma l’opera continua a essere un’ossessione per l’ultimo degli Hammerstein. Oklahoma!, il primo grande successo firmato Rodgers e Hammerstein, debutta il 31 marzo 1943, al St. James Theatre. Ma il 2 dicembre di quello stesso anno debutta al Broadway Theatre un altro musical con il libretto e i testi di Hammerstein II. E questa volta è una cosa che a Broadway non si è mai vista. E che non si vedrà mai più. Perché Oscar prende un’opera, la Carmen di Georges Bizet, tiene la musica del grande compositore francese - nato all’epoca della Monarchia di Luglio, qualche anno prima di suo nonno - e riscrive completamente il libretto e i testi delle arie. Chissà cosa ne avrebbe pensato il vecchio Hammerstein?
Oscar convince Billy Rose a produrre Carmen Jones, dopo che tutti gli altri produttori di Broadway gli hanno sbattuto la porta in faccia. Billy - che ha imparato da William che il pubblico non va educato, ma sedotto - produce riviste, vaudeville, vorrebbe essere il nuovo Ziegfeld, anche se ormai quegli spettacoli non vanno più di moda, però capisce che quello è un musical che entrerà nella storia del teatro. Perché Oscar non si è limitato a riscrivere il libretto, attualizzando la tragica storia della sigaraia - anche questo un destino della famiglia Hammerstein - ma vuole che il cast sia composto solo da attori afroamericani. Per gli anni Quaranta negli Stati Uniti si tratta di una scelta che crea inevitabilmente delle polemiche, ma che è una precisa presa di posizione da parte dell’autore.
Nella rilettura di Hammerstein Carmen e le sue compagne lavorano in una fabbrica di paracaduti nella Carolina all’inizio della seconda guerra mondiale. Carmen è bellissima - e libera - e fa innamorare Joe, un giovane aviatore, che perde la testa per lei, tanto da disertare e abbandonare la sua fidanzata Cindy Lou. Ma la relazione tra Carmen e Joe diventa sempre più difficile, perché della donna si innamora anche Husky, un pugile dalla brillante carriera che la vuole sposare e portare a Chicago. La fine è nota: Joe uccide Carmen, perché non sopporta che sia di un altro.
Carmen Jones è un successo: chiude il 10 febbraio 1945 dopo cinquecentotre repliche. Perché quella storia è eterna e la musica di Bizet riesce a raccontare l’amore e la passione in maniera perfetta. In qualsiasi tempo.
Come canta Carmen sulla musica dell’Habanera.
Love’s a baby that grows up wild
And he don’t do what you want him to
Il giovane Oscar dimostra che aveva ragione il vecchio Hammerstein: l’opera vince sempre.

sabato 26 novembre 2022

"A favore delle omissioni" di Han Magnus Enzenberger


Classici non letti, invenzioni
che ha risparmiato a sé e ad altri,
scommesse perdute,
pistole con la sicura,
titoli, posti, onorificenze
che si è lasciato scappare,
aerei persi all’ultimo momento,
indimenticabili cilecche, misere vittorie
che per un pelo ha scansato, e donne
con cui mai andò a letto:

nella tua sedia a rotelle ripensa,
tenero e riconoscente,
a quanto ha evitato,
risparmiando il mondo.

martedì 15 novembre 2022

Verba volant (820): orgoglio...

Orgoglio
, sost. m.

Confesso di aver seguito molto distrattamente l’assegnazione dei ministeri e di conseguenza mi sono completamente disinteressato della spartizione dei posti di sottogoverno. Poi da alcuni giorni vedo sulla bacheca di Facebook, condivisa polemicamente da diversi amici sdegnati, la foto di un ragazzotto vestito da nazista. E così ho saputo che Galeazzo Bignami è diventato viceministro. Conosco quella foto da parecchio tempo, perché da ancora più tempo conosco Galeazzo. Siamo più o meno coetanei - anche se lui è un po’ più giovane di me - siamo entrambi di Bologna e alla fine del Novecento facevamo lo stesso lavoro. Non eravamo né amici né conoscenti: se a quel tempo ci incrociavamo sotto i portici della nostra città non ci salutavamo, ma io sapevo chi era lui, come lui sapeva chi ero io. Proprio per questo posso dire che quel posto, nonostante quella stupida mascherata, se l’è guadagnato sul campo: è una persona che ha una lunga esperienza politica e potrebbe perfino capirci qualcosa di quello di cui si dovrà occupare.
Poi Galeazzo è un fascista che viene da una famiglia di fascisti - lo si capisce fin dal nome: sua sorella si chiama Maria Runa - e non si vergogna di esserlo. Come io sono un comunista che viene da una famiglia di comunisti. Neppure io mi vergogno di esserlo. Anche se forse non è sempre stato così: ecco credo che il punto fondamentale sia questo.
Facciamo un passo indietro: il 21 ottobre 1998 Massimo D’Alema diventa Presidente del Consiglio. È il primo - e l’unico - che viene dal Pci ad avere svolto quell’incarico. E, vista l’aria che tira, immagino che sarà anche l’ultimo. Ci sono voluti ventiquattro anni perché una persona che aveva militato nel Msi raggiungesse un tale obiettivo. Giorgia Meloni è arrivata a Palazzo Chigi perché ha vinto nettamente le elezioni. Anche il partito di D’Alema - quello che allora era anche il mio partito - aveva ottenuto un buon risultato alle elezioni del 1996, ma quel governo è nato a seguito di una crisi politica. Una parte di Rifondazione Comunista aveva tolto la fiducia al governo Prodi e un gruppo di parlamentari di centrodestra, ispirati da Francesco Cossiga, si erano dichiarati disponibili a sostenere un nuovo governo di centrosinistra a patto che non fosse guidato dal rancoroso professore bolognese. Al di là delle ricostruzioni fantasiose che allora hanno occupato i giornali e i talk-show, non si è trattato di un “golpe”. L’Italia era - ed è ancora - una repubblica parlamentare e quel governo era assolutamente legittimo. Eppure alcuni - e io ero tra questi - pensavano che sarebbe stato meglio andare alle elezioni, anche se quasi sicuramente avremmo perso. I due governi D’Alema, che io pure ho sempre sostenuto - anche perché qualche mese dopo sarei diventato funzionario di quel partito - hanno rappresentato un momento simbolico della nostra morte politica. Ma non è di questo che voglio parlare: ormai non serve più recriminare. Mi interessa invece la differenza antropologica tra noi e loro. Anche perché, forse più della politica, questa differenza spiega perché noi siamo morti, mentre loro sono vivi e vegeti.
Allora non abbiamo festeggiato il fatto che uno di noi era finalmente arrivato a Palazzo Chigi, anzi un po’ ci siamo vergognati e comunque sottolineavamo di continuo che eravamo cambiati, che non eravamo più quelli di prima, che eravamo come i socialisti europei o addirittura come i democratici americani, insomma che eravamo qualcosa d’altro - ricordate i dibattiti sulla “terza via” e la foto di Firenze, con D’Alema, Clinton, Blair, Jospin, Schroeder e Cardoso? Insomma non sapevamo cosa eravamo - e su questo avevamo idee diverse - l’unica cosa su cui eravamo d’accordo è che non dovevamo più chiamarci comunisti. E vivevamo il nostro passato, anche quello più glorioso, con un qualche imbarazzo.
Per loro non è affatto così. Al di là delle più o meno credibili prese di distanza, i fascisti arrivati al governo sono orgogliosi di rivendicare la loro storia, di mostrare i simboli del proprio passato, anche quelli decisamente più kitsch. Anche quelli più imbarazzanti. Immagino che oggi Bignami un po’ si penta di aver scelto quel costume per un addio al celibato, ma certamente quella serata lui e i suoi amici si sono divertiti parecchio, perché quello è un loro simbolo, con cui è possibile perfino giocare. E forse non si pente così tanto, perché anche quella mascherata adesso che è arrivato al governo è un simbolo della loro rivalsa. Ci stanno sbattendo in faccia che adesso sono decisamente “usciti dalle fogne”, ma che si ricordano bene la puzza.