giovedì 28 gennaio 2016
Verba volant (243): nascondere...
Nascondere, v. tr.
Un curioso paradosso: proprio mentre stavamo celebrando il Giorno della memoria, ossia l'anniversario in cui è stato svelato al mondo l'orrore dei campi di sterminio nazisti, sugli organi di informazione si è parlato soprattutto di due nascondimenti.
Della decisione - non si capisce ancora di chi - di nascondere le statue antiche raffiguranti dei nudi all'interno dei Musei capitolini, per non offendere il presidente iraniano Rouhani, si è parlato molto. Ha fatto molto meno notizia - anche se è più grave, perché non c'è nemmeno l'attenuante della stupidità - un'altra copertura. A Londra, su un muro che si trova proprio davanti all'ambasciata francese, l'artista inglese Bansky ha tratteggiato in lacrime Cosette, nell'immagine divenuta un'icona pop grazie al musical Les Misérables, con alle spalle un tricolore francese sfrangiato e ai piedi una bomboletta e una nube di gas, per denunciare l'uso dei lacrimogeni sparati dalla polizia francese per respingere i migranti a Calais; la società proprietaria dell'edificio ha nascosto l'opera con un pannello di legno, evidentemente per non offendere le autorità francesi.
Se invito a cena un amico vegetariano evito di preparare i tagliolini ai quattro salumi - che pure sono una mia specialità - come nel caso in cui l'amico sia musulmano (in questo caso evito di mettere in tavola anche il vino): si tratta, con tutta evidenza, di regole di buon senso e di educazione, quella che insegnavano le nonne. Lo stesso buon senso avrebbe dovuto evitare di convocare la conferenza stampa di Rouhani proprio sotto l'immagine della Venere capitolina, per fare in modo che non apparisse in tutte le foto del presidente iraniano quel seno scoperto, per quanto di marmo: in quel caso, per non incorrere in una gaffe diplomatica, bastava scegliere un'altra sala. Coprire - e in quel modo - le statue che si trovavano lungo il percorso è stato invece un grave errore, anche dal punto di vista diplomatico, perché abbiamo trattato Rouhani - che è persona intelligente e colta - come un talebano, come un Adinolfi qualsiasi. Però la cosa preoccupante della vicenda di Roma è la stupidità. Sinceramente mi preoccupa che il cerimoniale, che è un aspetto importante e non marginale della vita di uno stato, perché attiene ai simboli che rappresentano il paese e quindi tutti noi cittadini, venga lasciato nelle mani di persone che evidentemente non sono capaci di fare il proprio lavoro. Così come è stato imbarazzante il successivo teatrino del rimpallo delle responsabilità, come se gli unici a dover pagare di questo errore fossero i falegnami che hanno montato quelle brutte casse.
Quella decisione è grave perché è stupida e perché è il segno che la stupidità - e non la fantasia come si sperava una volta - è al potere. Devo dire, per completezza, che è intriso di stupidità anche gran parte del dibattito che è seguito a questa bizzarra decisione. Non è questione di sudditanza all'islam, come hanno tuonato leghisti, fascisti e crociati di varia natura, ma è mancanza di consapevolezza che queste opere sono parte di un patrimonio culturale comune a tutta l'umanità. Se giustamente tutti deploriamo la distruzione di Palmira, allo stesso modo non possiamo nascondere le opere che raccontano la nostra civiltà. Che è anche la loro civiltà, visto che nel museo archeologico di Teheran ci sono opere fondamentali dell'arte greca. Quella Venere doveva essere liberata da quella brutta cassa non solo perché è una statua bellissima, ma soprattutto perché rappresenta le nostre comuni radici. Perché è il bello che ci potrà salvare in questo mondo in cui predominano sempre più il brutto e l'ignoranza.
La decisione di coprire l'opera di Bansky è più grave perché più consapevole. Chi lo ha ordinato sa che quella è un'opera d'arte - anche con un suo valore commerciale - e quindi non l'ha cancellata, come è avvenuto negli anni passati con tanti lavori di quell'artista, ma l'ha nascosta, perché quel messaggio evidentemente disturba. E certamente quel viso piangente, quel gas che sale, quella bandiera strappata, quel tricolore che in tanti altri quadri è simbolo di libertà, di lotta all'ingiustizia, di democrazia, sono un'offesa, un'offesa ben più provocatoria di un seno nudo.
Quell'immagine ci ricorda che oggi, a più di settant'anni dalla fine dei lager nazisti, in questo mondo - anche in questa parte del mondo, quella che ha liberato Auschwitz - ci sono ancora troppi campi di concentramento, che ovviamente non si chiamano più così, ma in cui donne e uomini vengono rinchiusi solo perché arrivano da un certo paese, solo perché la loro pelle ha un certo colore o solo perché sono poveri. Quell'immagine ci ricorda che c'è ancora un potere che usa la forza non per proteggere i deboli, ma difendere i privilegi dei ricchi. E' questo che dà così fastidio a tutti i potenti più di quanto un culo ben modellato offenda i cardinali o gli ayatollah. Bansky, con pochi tratti delle sue bombolette, ci dice che sono ancora troppi i miserabili che vivono nelle nostre città, tentando di fuggire da un potere che non ha nemmeno più l'ideale di ordine e la fedeltà alle leggi di Javert, ma solo l'avidità e la rapacità di Thénardier. E per questo il potere fa crescere in noi cittadini la paura, ci rende sempre più cattivi verso gli altri, che invece sono come noi, soffrono come noi.
E' difficile immaginare due opere d'arte così radicalmente diverse come la Venere capitolina e un graffito di Bansky. Eppure tutte e due sono state nascoste, perché evidentemente il potere ha paura dell'arte, della poesia, della cultura, perché evidentemente quelle due opere, per quello che rappresentano, sono uno schiaffo al potere che ci vuole sudditi ignoranti. Per questo noi abbiamo così bisogno che l'arte non sia nascosta, per questo abbiamo così bisogno che l'ignoranza sia sconfitta, per questo abbiamo così bisogno di cultura.
lunedì 25 gennaio 2016
Verba volant (242): banchetto...
Banchetto, sost. m.
Ho sempre cercato di avere attenzione e rispetto per le parole, anche prima di imbarcarmi in questa avventura di scrivere un vocabolario, perché credo che le parole raccontino molto, anche al di là del modo in cui noi le usiamo, o le sappiamo usare. Mi hanno colpito oggi alcune espressioni usate per raccontare la visita del presidente iraniano Rouhani in Italia. L'Italia al banchetto iraniano titola un giornale; nell'articolo si parla dei molti accordi commerciali che verranno firmati e viene usata l'espressione bottino italiano, per dire che saranno particolarmente lucrosi per alcune imprese di questo paese. Queste parole non sono state usate in senso negativo, ma in un articolo, peraltro ospitato in un giornale dei padroni, il cui autore voleva esprimere evidentemente tutto il proprio entusiasmo per questi soldi in arrivo verso le aziende del nostro paese.
In uno sketch degli anni Ottanta in cui si mettevano alla berlina i primi politici leghisti che allora cominciavano ad apparire in televisione, il rappresentante di uno di questi fantomatici partiti del nord - peraltro interpretato da un comico del sud - diceva: non siamo noi a essere razzisti, siete voi a essere meridionali. Ecco, a proposito di quell'articolo mi verrebbe da dire: non siamo noi a essere anticapitalisti, siete voi a essere ladri. Perché non lo riuscite proprio a nascondere che in fondo il capitalismo è quella roba lì: un furto su larghissima scala, in cui le autorità che dovrebbero sanzionarvi non solo non fanno rispettare le leggi e la giustizia, ma sono vostri complici. I guadagni di queste aziende che da oggi torneranno a commerciare con l'Iran non rappresentano un beneficio per tutto il paese, ma solo per i padroni di quelle aziende. Per anni ci hanno fatto credere che fosse vera la frase attribuita a Gianni Agnelli che ciò che va bene per la Fiat va bene per l'Italia. No, non è così: ciò che va bene per la Fiat va bene per i padroni della Fiat, e gli interessi dei padroni della Fiat sono diversi, in alcuni casi, in conflitto, con gli interessi del paese, a partire da quelli dei lavoratori; eppure questa retorica funziona ancora, è entrata in circolo come un veleno e non riusciamo più a eliminarla. Anzi in nome di questa retorica, e degli affari che questa nasconde, si conduce tutta la politica. Il viaggio di Rouhani lo dimostra bene.
Leggendo quel titolo mi è venuta in mente anche la scena con cui si conclude La Fattoria degli animali di George Orwell, il banchetto in cui, per la prima volta, si ritrovano allo stesso tavolo i maiali e i proprietari delle fattorie vicine; gli altri animali, che guardano da fuori della finestra, non riescono più a distinguere quali siano gli uomini e quali i maiali. Ancora noi li distinguiamo i nostri maiali dai loro, perché il nostro presidente ha la cravatta e il loro ha un turbante, ma quelli del seguito, quelli per cui è stato davvero organizzato questo viaggio, sono indistinguibili, perché gli affari sono affari e quelli parlano tutti la stessa lingua, quella dei soldi, hanno tutti le stesse facce. Facce di cui non possiamo fidarci.
Ci sarebbero molte ragioni per essere soddisfatti di questo viaggio del presidente iraniano, della fine delle sanzioni, del ruolo che quel paese torna a svolgere in un'area del mondo in cui ha da sempre rappresentato un elemento centrale. Ci sarebbe da essere soddisfatti perché potrebbe significare che quel regime è destinato a cambiare, anche sotto la pressione di un'opinione pubblica che è tutt'altro che monolitica e in cui i giovani stanno svolgendo un ruolo importante. Noi dovremmo guardare con più attenzione a quel grande paese, dalla storia così ricca, cercando di capire come aiutare chi sta provando davvero a cambiare. Eppure questo è solo un viaggio per fare affari, per far arricchire ancora di più quelli che sono già ricchi e far diventare più poveri quelli che sono già poveri, perché il capitalismo, a cui nonostante tutto, nonostante tutta la retorica, anche gli ayatollah si sono piegati, come hanno fatto, prima di loro, i dirigenti comunisti cinesi, ha vinto. E vuole stravincere; anche nell'uso delle parole.
Ho sempre cercato di avere attenzione e rispetto per le parole, anche prima di imbarcarmi in questa avventura di scrivere un vocabolario, perché credo che le parole raccontino molto, anche al di là del modo in cui noi le usiamo, o le sappiamo usare. Mi hanno colpito oggi alcune espressioni usate per raccontare la visita del presidente iraniano Rouhani in Italia. L'Italia al banchetto iraniano titola un giornale; nell'articolo si parla dei molti accordi commerciali che verranno firmati e viene usata l'espressione bottino italiano, per dire che saranno particolarmente lucrosi per alcune imprese di questo paese. Queste parole non sono state usate in senso negativo, ma in un articolo, peraltro ospitato in un giornale dei padroni, il cui autore voleva esprimere evidentemente tutto il proprio entusiasmo per questi soldi in arrivo verso le aziende del nostro paese.
In uno sketch degli anni Ottanta in cui si mettevano alla berlina i primi politici leghisti che allora cominciavano ad apparire in televisione, il rappresentante di uno di questi fantomatici partiti del nord - peraltro interpretato da un comico del sud - diceva: non siamo noi a essere razzisti, siete voi a essere meridionali. Ecco, a proposito di quell'articolo mi verrebbe da dire: non siamo noi a essere anticapitalisti, siete voi a essere ladri. Perché non lo riuscite proprio a nascondere che in fondo il capitalismo è quella roba lì: un furto su larghissima scala, in cui le autorità che dovrebbero sanzionarvi non solo non fanno rispettare le leggi e la giustizia, ma sono vostri complici. I guadagni di queste aziende che da oggi torneranno a commerciare con l'Iran non rappresentano un beneficio per tutto il paese, ma solo per i padroni di quelle aziende. Per anni ci hanno fatto credere che fosse vera la frase attribuita a Gianni Agnelli che ciò che va bene per la Fiat va bene per l'Italia. No, non è così: ciò che va bene per la Fiat va bene per i padroni della Fiat, e gli interessi dei padroni della Fiat sono diversi, in alcuni casi, in conflitto, con gli interessi del paese, a partire da quelli dei lavoratori; eppure questa retorica funziona ancora, è entrata in circolo come un veleno e non riusciamo più a eliminarla. Anzi in nome di questa retorica, e degli affari che questa nasconde, si conduce tutta la politica. Il viaggio di Rouhani lo dimostra bene.
Leggendo quel titolo mi è venuta in mente anche la scena con cui si conclude La Fattoria degli animali di George Orwell, il banchetto in cui, per la prima volta, si ritrovano allo stesso tavolo i maiali e i proprietari delle fattorie vicine; gli altri animali, che guardano da fuori della finestra, non riescono più a distinguere quali siano gli uomini e quali i maiali. Ancora noi li distinguiamo i nostri maiali dai loro, perché il nostro presidente ha la cravatta e il loro ha un turbante, ma quelli del seguito, quelli per cui è stato davvero organizzato questo viaggio, sono indistinguibili, perché gli affari sono affari e quelli parlano tutti la stessa lingua, quella dei soldi, hanno tutti le stesse facce. Facce di cui non possiamo fidarci.
Ci sarebbero molte ragioni per essere soddisfatti di questo viaggio del presidente iraniano, della fine delle sanzioni, del ruolo che quel paese torna a svolgere in un'area del mondo in cui ha da sempre rappresentato un elemento centrale. Ci sarebbe da essere soddisfatti perché potrebbe significare che quel regime è destinato a cambiare, anche sotto la pressione di un'opinione pubblica che è tutt'altro che monolitica e in cui i giovani stanno svolgendo un ruolo importante. Noi dovremmo guardare con più attenzione a quel grande paese, dalla storia così ricca, cercando di capire come aiutare chi sta provando davvero a cambiare. Eppure questo è solo un viaggio per fare affari, per far arricchire ancora di più quelli che sono già ricchi e far diventare più poveri quelli che sono già poveri, perché il capitalismo, a cui nonostante tutto, nonostante tutta la retorica, anche gli ayatollah si sono piegati, come hanno fatto, prima di loro, i dirigenti comunisti cinesi, ha vinto. E vuole stravincere; anche nell'uso delle parole.
mercoledì 20 gennaio 2016
Verba volant (241): licenziare...
Licenziare, v. tr.
Sono un dipendente pubblico, che cerca di fare il proprio lavoro nel miglior modo possibile. Tempo fa - una vita fa, a dire il vero - sono stato anche un amministratore, in un Comune. Per esperienza quindi so che ci sono tanti dipendenti pubblici bravi e naturalmente so anche che ce ne sono alcuni che meriterebbero di essere mandati a casa; in meno di 48 ore.
Proprio perché lavoro in un Comune sono contento che alcuni miei "colleghi" che lavoravano a Sanremo siano stati licenziati; spero anche che il lavoro della commissione disciplinare non si fermi lì e verifichi bene le responsabilità di quello che è accaduto. Perché se tante persone lavorano così male o non lavorano affatto, come pare sia accaduto in quell'ente, è difficile credere che la colpa sia solo di quei dipendenti infedeli, anzi sarebbe troppo comodo cavarsela così, con un po' di licenziamenti, peraltro sacrosanti - lo ripeterò allo sfinimento per non essere frainteso. Come mai i dirigenti ben pagati di quel Comune ci hanno impiegato così tanto tempo a capire cosa stava accadendo, peraltro in maniera così sfrontata e plateale? Dove erano gli amministratori che avrebbero dovuto accorgersi di quello che succedeva nella loro, neppure grandissima, città?
In Italia spesso siamo abituati ad affrontare le cose con questo impeto gattopardesco: ci infuriamo se qualcosa va male, incolpiamo qualcuno - in genere uno dei più sfigati - e poi ci disinteressiamo delle cause di quel problema, che infatti si ripresenterà, magari dopo qualche anno, in maniera perfino più grave. Pensate a quello che è successo negli anni Novanta con il fenomeno che ci siamo abituati a chiamare Tangentopoli: tutti in piazza, indignati verso chi rubava, tutti a richiedere misure esemplari, tutti a sventolare cappi o a gettare monetine, poi qualche pesce piccolo è rimasto nella rete, qualcuno ha fatto un po' di meritata galera, ma dopo qualche anno abbiamo scoperto che sostanzialmente il sistema delle tangenti è rimasto in piedi, a volte con gli stessi protagonisti di allora, specialmente tra i pagatori, che furono abbastanza scaltri e lesti da mettersi dalla parte delle vittime.
Adesso è popolare scagliarsi contro i dipendenti pubblici, anzi in questo paese lo è sempre stato: da sempre siamo oggetto di satira e di sberleffo, molto prima che arrivasse Checco Zalone. E quindi la politica cavalca questo sentimento popolare, anche se non proprio commendevole. Si richiedono interventi esemplari, ci spiegano che servono norme severe, severissime, per punire i dipendenti che fanno i furbi, che devono essere licenziati in 48 ore. Non ci dicono però che le leggi per licenziare i dipendenti che rubano lo stipendio, o che rubano altro, ci sono già, bisogna applicarle, come hanno fatto a Sanremo e, come ho detto, bisognerebbe applicarle con più rigore, andando più a fondo, senza guardare in faccia a nessuno, senza timore di urtare equilibri politici e sindacali consolidati e ben oliati. Perché - e lo dobbiamo dire senza ipocrisie - anche un certo modo di fare sindacato all'interno della pubblica amministrazione ci ha portato a questa situazione.
Non so se si farà questa legge per il licenziamento veloce. Spero di no, perché sarebbe un grave errore. Ma ormai non è neppure importante farla, perché il messaggio è passato: il governo è schierato con i cittadini vessati dai burocrati che timbrano il cartellino in mutande e sarà implacabile nel punirli. E da domani - al massimo da dopodomani - tutto tornerà come prima. Quelli che meriterebbero di andare a casa staranno lì, a fare poco o niente - quando va bene e non fanno danni - perché protetti da un sistema che in fondo non vuole davvero risolvere i problemi della pubblica amministrazione, ma preferisce tenerci così, come un alibi sempre a disposizione, quando qualcosa va male; e qualcosa che va male c'è sempre. Questo non va? E' colpa di quei dipendenti pubblici incapaci. Quest'altro non funziona? E' colpa di questi altri che hanno rubato. Ma tutto si risolverà, in 48 ore e poi in 24 e poi all'istante, perché prima o poi verrà il ministro che proporrà il licenziamento immediato, con l'esposizione del colpevole sulla pubblica gogna. E non dimentichiamo che ci sono quelli che ci guadagnano a dire che noi dipendenti pubblici siamo incapaci, inetti, furbastri, perché sono gli stessi che dicono che i privati - ossia loro - possono fare meglio di noi quello che noi facciamo male. Ovviamente lo fanno prendendo più soldi di quanti ne prendiamo noi e nessuno a loro sembra chiedere conto di come fanno quello che fanno, perché il privato è sempre bello e il pubblico sempre brutto e cattivo.
Ovviamente dopo questa ennesima sfuriata rimarranno al loro posto gli amici, gli amici degli amici, gli iscritti al circolo della canasta - ormai ai partiti non si iscrive più nessuno - e quelli che rubano molto, perché in genere sono quelli che hanno più amici. E anche noi rimarremo, noi che lavoriamo, noi che abbiamo pochi amici, noi che ci arrabattiamo con una legislazione sempre più confusa e bizantina, con mezzi sempre meno adeguati e con risorse ogni giorno più modeste. In attesa della prossima sfuriata che non cambierà nulla.
Sono un dipendente pubblico, che cerca di fare il proprio lavoro nel miglior modo possibile. Tempo fa - una vita fa, a dire il vero - sono stato anche un amministratore, in un Comune. Per esperienza quindi so che ci sono tanti dipendenti pubblici bravi e naturalmente so anche che ce ne sono alcuni che meriterebbero di essere mandati a casa; in meno di 48 ore.
Proprio perché lavoro in un Comune sono contento che alcuni miei "colleghi" che lavoravano a Sanremo siano stati licenziati; spero anche che il lavoro della commissione disciplinare non si fermi lì e verifichi bene le responsabilità di quello che è accaduto. Perché se tante persone lavorano così male o non lavorano affatto, come pare sia accaduto in quell'ente, è difficile credere che la colpa sia solo di quei dipendenti infedeli, anzi sarebbe troppo comodo cavarsela così, con un po' di licenziamenti, peraltro sacrosanti - lo ripeterò allo sfinimento per non essere frainteso. Come mai i dirigenti ben pagati di quel Comune ci hanno impiegato così tanto tempo a capire cosa stava accadendo, peraltro in maniera così sfrontata e plateale? Dove erano gli amministratori che avrebbero dovuto accorgersi di quello che succedeva nella loro, neppure grandissima, città?
In Italia spesso siamo abituati ad affrontare le cose con questo impeto gattopardesco: ci infuriamo se qualcosa va male, incolpiamo qualcuno - in genere uno dei più sfigati - e poi ci disinteressiamo delle cause di quel problema, che infatti si ripresenterà, magari dopo qualche anno, in maniera perfino più grave. Pensate a quello che è successo negli anni Novanta con il fenomeno che ci siamo abituati a chiamare Tangentopoli: tutti in piazza, indignati verso chi rubava, tutti a richiedere misure esemplari, tutti a sventolare cappi o a gettare monetine, poi qualche pesce piccolo è rimasto nella rete, qualcuno ha fatto un po' di meritata galera, ma dopo qualche anno abbiamo scoperto che sostanzialmente il sistema delle tangenti è rimasto in piedi, a volte con gli stessi protagonisti di allora, specialmente tra i pagatori, che furono abbastanza scaltri e lesti da mettersi dalla parte delle vittime.
Adesso è popolare scagliarsi contro i dipendenti pubblici, anzi in questo paese lo è sempre stato: da sempre siamo oggetto di satira e di sberleffo, molto prima che arrivasse Checco Zalone. E quindi la politica cavalca questo sentimento popolare, anche se non proprio commendevole. Si richiedono interventi esemplari, ci spiegano che servono norme severe, severissime, per punire i dipendenti che fanno i furbi, che devono essere licenziati in 48 ore. Non ci dicono però che le leggi per licenziare i dipendenti che rubano lo stipendio, o che rubano altro, ci sono già, bisogna applicarle, come hanno fatto a Sanremo e, come ho detto, bisognerebbe applicarle con più rigore, andando più a fondo, senza guardare in faccia a nessuno, senza timore di urtare equilibri politici e sindacali consolidati e ben oliati. Perché - e lo dobbiamo dire senza ipocrisie - anche un certo modo di fare sindacato all'interno della pubblica amministrazione ci ha portato a questa situazione.
Non so se si farà questa legge per il licenziamento veloce. Spero di no, perché sarebbe un grave errore. Ma ormai non è neppure importante farla, perché il messaggio è passato: il governo è schierato con i cittadini vessati dai burocrati che timbrano il cartellino in mutande e sarà implacabile nel punirli. E da domani - al massimo da dopodomani - tutto tornerà come prima. Quelli che meriterebbero di andare a casa staranno lì, a fare poco o niente - quando va bene e non fanno danni - perché protetti da un sistema che in fondo non vuole davvero risolvere i problemi della pubblica amministrazione, ma preferisce tenerci così, come un alibi sempre a disposizione, quando qualcosa va male; e qualcosa che va male c'è sempre. Questo non va? E' colpa di quei dipendenti pubblici incapaci. Quest'altro non funziona? E' colpa di questi altri che hanno rubato. Ma tutto si risolverà, in 48 ore e poi in 24 e poi all'istante, perché prima o poi verrà il ministro che proporrà il licenziamento immediato, con l'esposizione del colpevole sulla pubblica gogna. E non dimentichiamo che ci sono quelli che ci guadagnano a dire che noi dipendenti pubblici siamo incapaci, inetti, furbastri, perché sono gli stessi che dicono che i privati - ossia loro - possono fare meglio di noi quello che noi facciamo male. Ovviamente lo fanno prendendo più soldi di quanti ne prendiamo noi e nessuno a loro sembra chiedere conto di come fanno quello che fanno, perché il privato è sempre bello e il pubblico sempre brutto e cattivo.
Ovviamente dopo questa ennesima sfuriata rimarranno al loro posto gli amici, gli amici degli amici, gli iscritti al circolo della canasta - ormai ai partiti non si iscrive più nessuno - e quelli che rubano molto, perché in genere sono quelli che hanno più amici. E anche noi rimarremo, noi che lavoriamo, noi che abbiamo pochi amici, noi che ci arrabattiamo con una legislazione sempre più confusa e bizantina, con mezzi sempre meno adeguati e con risorse ogni giorno più modeste. In attesa della prossima sfuriata che non cambierà nulla.
martedì 19 gennaio 2016
"Ai miei amici di Romagna" di Andrea Costa
Lugano, 1879
Miei cari amici,
fin da che uscii dal carcere di Parigi e potei ritornare a me stesso e parlare e scrivere liberamente, pensai di rivolgervi alcune parole, che vi dimostrassero come io, nonostante la lunga separazione e le pratiche diverse della vita e gli avvenimenti, era pur sempre vostro e non domandava di meglio che di riprendere con voi l’opera della nostra comune emancipazione; ma le poche notizie che aveva del movimento attuale italiano, le tristi condizioni di buona parte dei nostri amici e un po’ anche il mio stato di salute, mi trattennero dallo scrivervi.
[...] Miei cari amici! Noi ci troviamo, parmi, alla vigilia di un rinnovamento. Noi sentiamo tutti o quasi tutti che ciò che abbiam fatto fino ad ora non basta più a soddisfare né la nostra attività, né quel bisogno di movimento senza cui un partito non esiste: noi sentiamo insomma che dobbiamo rinnovarci o che i frutti del lavoro che abbiam fatto fin qui saran raccolti da altri. Io sono ben lungi dal negare il passato. Ciò che facemmo ebbe la sua ragion d’essere; ma se noi non ci svolgessimo, se non offrissimo maggior spazio alla nostra attività, se non tenessimo conto delle lezioni che l’esperienza di sette od otto anni ci ha date, noi ci fossilizzeremmo: noi potremmo fare oggi a noi stessi le medesime accuse che facevamo ai Mazziniani nel ‘71 e nel ‘72. Quando non si va avanti, si va necessariamente indietro: io credo che noi vogliamo tutti andare avanti.
Noi facemmo quello che dovevamo fare. Trovandoci da un lato tra un idealismo stantìo (il Mazzinianesimo) che senza tener conto dei postulati della scienza metteva la ragion d’essere dei diritti e della nobiltà dell’uomo non nell’uomo stesso, ma al di fuori di lui - in Dio -; trovandoci dall’altro tra un partito d’azione generoso, ma cieco e senza idee determinate, vagante dalle elevate concezioni della democrazia alla dittatura militare, (dei partiti governativi e del clericale non parlo perché sono fuori di discussione), noi rivelammo energicamente ed affermammo la forza viva del secolo - la classe operaia; ma senza racchiudervi in uno stretto cerchio di casta, voi accettaste il concorso fraterno di quella piccola parte della borghesia, di quei giovani soprattutto, che, i privilegi della loro classe, essendo loro odiosi, si mescolarono fra di voi, e vi sostennero coi mezzi medesimi che la borghesia loro aveva dati, aprendo ad essi l’adito alla scienza. Nel tempo stesso che noi affermavamo l’emancipazione dei lavoratori (cioè coloro che producono cose utili), noi sollevammo ed agitammo tutte le questioni che vi si riferiscono: proprietà, famiglia, stato, religione, dando ad esse una soluzione in armonia con la scienza e con la rivoluzione. Oltre a ciò noi non negammo le tradizioni rivoluzionarie del popolo italiano e soprattutto quel principio che inspirava fin dal ‘57 i nostri eroici precursori della spedizione di Sapri, la propagazione delle idee per mezzo dei fatti. Donde, il lavoro che facemmo contemporaneamente: lavoro di svolgimento intellettuale e morale per mezzo delle conferenze, dei giornali, dei congressi e tentativi rivoluzionarii per abituare il popolo alla resistenza e propagare colla evidenza dei fatti le idee ed ove fosse possibile attuarle.
Ma i tentativi di rivoluzione falliti avendoci privati per anni interi della libertà, o avendoci condannati all’esilio, noi ci disavvezzammo disgraziatamente dalle lotte quotidiane e dalla pratica della vita reale: noi ci racchiudemmo troppo in noi stessi e ci preoccupammo assai più della logica delle nostre idee e della composizione di un programma rivoluzionario che ci sforzammo di attuare senza indugio, anziché dello studio delle condizioni economiche e morali del popolo e de’ suoi bisogni sentiti ed immediati. Noi trascurammo così fatalmente molte manifestazioni della vita, noi non ci mescolammo abbastanza al popolo e quando, spinti da un impulso generoso, noi abbiamo tentato d’innalzare la bandiera della rivolta, il popolo non ci ha capiti, e ci ha lasciati soli.
Che le lezioni dell’esperienza ci approfittino. Compiamo ora ciò che rimase interrotto. Rituffiamoci nel popolo e ritempriamo in esso le forze nostre...
Noi dobbiamo fare assai più di quel che facemmo sino ad ora; ma in sostanza dobbiamo restare quel che fummo: un partito di azione. Ma essere un partito d’azione non significa voler l’azione ad ogni costo e ad ogni momento. La rivoluzione è una cosa seria. Un partito deve comporsi di elementi diversi che si compiano a vicenda. Ed un partito come il nostro che si propone di affrettare la trasformazione inevitabile delle condizioni sociali e dell’uomo - che s’inspira alla scienza - che non vede limiti al suo svolgimento - che non si occupa solo degli interessi economici del popolo, ma vuole soddisfatte tutte le sue facoltà intellettuali e morali, oltre al proletariato - uomini e donne - deve necessariamente comporsi della gioventù, dei pensatori e delle donne della borghesia a cui l’attuale stato di cose riesce odioso e che desiderano maggiore giustizia nei rapporti sociali: esso deve infondere nell’uomo uno spirito nuovo e - per quanto lo permettono le tristi condizioni sociali in cui viviamo e la cattiva educazione che abbiamo tutti ricevuta - dare a’ suoi membri quella forza e quella vita morale che li renderà un esempio vivente di vita nuova.
Non pensiamo che basti gettare al popolo il grido del «Pane!» per sollevarlo. Il popolo è di natura sua idealista (il Lazzaretti ce l’ha provato) e non si solleverà se non quando le idee socialistiche abbiano per lui il prestigio e la forza di attrazione che ebbe un tempo la fede religiosa.
Ma verrà tempo di occuparci come conviene anche delle questioni morali. Ora ne abbiamo altre che ci stringono più da vicino.
La rivoluzione è inevitabile; ma l’esperienza ci ha, credo, dimostrato che non è affare né di un giorno né di un anno. Perciò, aspettando e provocando il suo avvenimento fatale, cerchiamo quale è il programma generale intorno a cui si raccolgono tutte le forze vive e progressive della generazione nostra. Questo programma è, secondo me: il Collettivismo come mezzo, l’Anarchia come fine - programma d’oggi, che fu il nostro programma d’ieri. Intorno al Collettivismo si raccolgono oggi non solamente gli operai italiani che si occupano della loro emancipazione, ma la maggioranza degli operai francesi, belgi, spagnuoli, tedeschi, danesi e gran parte dei nichilisti russi. Non solo, ma il suo avvenimento inevitabile è così evidente, che dei pensatori usciti dalla borghesia, degli economisti, dei professori all’università di ogni nazione lo accettano a fondamento inevitabile del riordinamento sociale.
L’accomunamento della terra e degli strumenti da lavoro avrà per conseguenza necessaria l’accomunamento dei prodotti del lavoro; e quando questo accomunamento abbia luogo, ogni legge che regoli i rapporti fra gli uomini deve necessariamente sparire giacché e l’abbondanza della produzione e la nuova educazione, che le nuove condizioni sociali e la pratica della solidarietà umana daranno all’uomo, le renderanno inutili. Allora potrà attuarsi quel comunismo anarchico che oggi apparisce come il più perfetto ordinamento sociale. Ma per noi non si tratta solamente di proporre un ideale lontano che fra qualche anno forse potrà sparire offuscato da un ideale ancor più luminoso. Per noi si tratta di sceglierci un programma immediatamente attuabile, e questo crediamo di trovarlo nel collettivismo considerato come fondamento economico della società e nella federazione dei comuni autonomi considerata come organamento politico. Giacché la rivoluzione si compierà e non potrà compiersi che in condizioni economiche e morali relativamente all’avvenire assai tristi e non attuerà immediatamente, se non ciò che la maggioranza avrà dentro. Onde la necessità di un ordinamento interno. Quanto tempo questo abbia a durare, non so; ma esso si trasformerà ogni qualvolta ne sarà sentito il bisogno e si andranno man mano scoprendo le leggi dei rapporti sociali, giacché i fenomeni sociali come i naturali avvengono secondo leggi determinate, che non s’inventano né si decretano ma si scoprono; e l’uomo naturalmente - senza violenza alcuna - vi si uniformerà come si uniforma oggi alle leggi della gravitazione.
Il programma largo ed umano che mi sforzai di tracciarvi è oggi sostenuto dalla maggior parte de’ socialisti; ed io spero che sarà accettato da tutti coloro che non vogliono chiudersi la via ad un’azione efficace sul loro secolo e sul loro paese. Or mi resterebbe a dirvi quali mezzi pratici io penso che si debbano mettere in opera per farci sempre più largo tra il popolo, quale condotta dobbiamo tenere, sia verso il governo, sia verso gli altri partiti politici e quale importanza daremo alle riforme politiche, nella speranza delle quali si culla oggi gran parte del popolo italiano; ma la mia lettera è già troppo lunga; ed io spero che tali questioni le risolveremo insieme in un Congresso che si terrà quando che sia. Per ora, secondo me, la cosa più importante da farsi è quella di ricostituire il Partito socialista rivoluzionario italiano, che continuerà l’opera incominciata dall’Internazionale e che, federandosi o prima o poi coi partiti simili esistenti negli altri paesi, ristabilirà su basi solide la Internazionale, ora dappertutto in isfacelo. L’Internazionale - come esisté fino ad ora - rappresentò un momento storico della vita delle plebi; ma non potrebbe rappresentare tutta la loro vita: noi non abbandoneremo per altro il nome dell’Internazionale; ma vogliamo che non sia un semplice spauracchio, si bene che si fondi sull’organamento solido de’ partiti socialistici esistenti ne’ paesi diversi.
Questo, amici miei, è quanto doveva dirvi. Come vedete, non si tratta di rigettare il nostro passato, di cui, nonostante le sventure e i molti disinganni sofferti, possiamo per sempre andar fieri: né di cessar di essere quel che fummo; si tratta solamente di far di più e di far meglio. L’Internazionale ha fatto molto in Italia. Pensate a quel che eravamo sette od otto anni fa e a qual punto siamo ora, e vedrete.
[...] Coraggio adunque! Pensate quanti tentativi falliti prima che l’indipendenza d’Italia si compisse; e non isgomentiamoci se fino ad ora non ottenemmo tutto quello che avremmo voluto. Prepariamoci ad ottenere maggiormente. Grande compito è il nostro, o amici; e il momento di attendervi è propizio. Il movimento di pacificazione fra le diverse fazioni di socialisti, incominciato al Congresso di Gand, si va operando, grazie sopratutto alle persecuzioni internazionali dei governi. I vari partiti socialistici desistono dalle loro pretensioni assolute e, in luogo di cercare la divisione, si cerca dappertutto il contatto fraterno perché si sente che s’avvicina un tempo in cui dovremo disporre di tutte le forze nostre. Gli uomini, conosciutisi meglio, cominciano a stimarsi; e, se non vanno compiutamente d’accordo, non ricomincieranno giammai le polemiche dolorose degli anni passati. Le idee e il sentimento umano che si svolge ogni giorno più in noi ci animano alla lotta.
All’opera dunque! All’opera!
Il vostro Andrea Costa
Miei cari amici,
fin da che uscii dal carcere di Parigi e potei ritornare a me stesso e parlare e scrivere liberamente, pensai di rivolgervi alcune parole, che vi dimostrassero come io, nonostante la lunga separazione e le pratiche diverse della vita e gli avvenimenti, era pur sempre vostro e non domandava di meglio che di riprendere con voi l’opera della nostra comune emancipazione; ma le poche notizie che aveva del movimento attuale italiano, le tristi condizioni di buona parte dei nostri amici e un po’ anche il mio stato di salute, mi trattennero dallo scrivervi.
[...] Miei cari amici! Noi ci troviamo, parmi, alla vigilia di un rinnovamento. Noi sentiamo tutti o quasi tutti che ciò che abbiam fatto fino ad ora non basta più a soddisfare né la nostra attività, né quel bisogno di movimento senza cui un partito non esiste: noi sentiamo insomma che dobbiamo rinnovarci o che i frutti del lavoro che abbiam fatto fin qui saran raccolti da altri. Io sono ben lungi dal negare il passato. Ciò che facemmo ebbe la sua ragion d’essere; ma se noi non ci svolgessimo, se non offrissimo maggior spazio alla nostra attività, se non tenessimo conto delle lezioni che l’esperienza di sette od otto anni ci ha date, noi ci fossilizzeremmo: noi potremmo fare oggi a noi stessi le medesime accuse che facevamo ai Mazziniani nel ‘71 e nel ‘72. Quando non si va avanti, si va necessariamente indietro: io credo che noi vogliamo tutti andare avanti.
Noi facemmo quello che dovevamo fare. Trovandoci da un lato tra un idealismo stantìo (il Mazzinianesimo) che senza tener conto dei postulati della scienza metteva la ragion d’essere dei diritti e della nobiltà dell’uomo non nell’uomo stesso, ma al di fuori di lui - in Dio -; trovandoci dall’altro tra un partito d’azione generoso, ma cieco e senza idee determinate, vagante dalle elevate concezioni della democrazia alla dittatura militare, (dei partiti governativi e del clericale non parlo perché sono fuori di discussione), noi rivelammo energicamente ed affermammo la forza viva del secolo - la classe operaia; ma senza racchiudervi in uno stretto cerchio di casta, voi accettaste il concorso fraterno di quella piccola parte della borghesia, di quei giovani soprattutto, che, i privilegi della loro classe, essendo loro odiosi, si mescolarono fra di voi, e vi sostennero coi mezzi medesimi che la borghesia loro aveva dati, aprendo ad essi l’adito alla scienza. Nel tempo stesso che noi affermavamo l’emancipazione dei lavoratori (cioè coloro che producono cose utili), noi sollevammo ed agitammo tutte le questioni che vi si riferiscono: proprietà, famiglia, stato, religione, dando ad esse una soluzione in armonia con la scienza e con la rivoluzione. Oltre a ciò noi non negammo le tradizioni rivoluzionarie del popolo italiano e soprattutto quel principio che inspirava fin dal ‘57 i nostri eroici precursori della spedizione di Sapri, la propagazione delle idee per mezzo dei fatti. Donde, il lavoro che facemmo contemporaneamente: lavoro di svolgimento intellettuale e morale per mezzo delle conferenze, dei giornali, dei congressi e tentativi rivoluzionarii per abituare il popolo alla resistenza e propagare colla evidenza dei fatti le idee ed ove fosse possibile attuarle.
Ma i tentativi di rivoluzione falliti avendoci privati per anni interi della libertà, o avendoci condannati all’esilio, noi ci disavvezzammo disgraziatamente dalle lotte quotidiane e dalla pratica della vita reale: noi ci racchiudemmo troppo in noi stessi e ci preoccupammo assai più della logica delle nostre idee e della composizione di un programma rivoluzionario che ci sforzammo di attuare senza indugio, anziché dello studio delle condizioni economiche e morali del popolo e de’ suoi bisogni sentiti ed immediati. Noi trascurammo così fatalmente molte manifestazioni della vita, noi non ci mescolammo abbastanza al popolo e quando, spinti da un impulso generoso, noi abbiamo tentato d’innalzare la bandiera della rivolta, il popolo non ci ha capiti, e ci ha lasciati soli.
Che le lezioni dell’esperienza ci approfittino. Compiamo ora ciò che rimase interrotto. Rituffiamoci nel popolo e ritempriamo in esso le forze nostre...
Noi dobbiamo fare assai più di quel che facemmo sino ad ora; ma in sostanza dobbiamo restare quel che fummo: un partito di azione. Ma essere un partito d’azione non significa voler l’azione ad ogni costo e ad ogni momento. La rivoluzione è una cosa seria. Un partito deve comporsi di elementi diversi che si compiano a vicenda. Ed un partito come il nostro che si propone di affrettare la trasformazione inevitabile delle condizioni sociali e dell’uomo - che s’inspira alla scienza - che non vede limiti al suo svolgimento - che non si occupa solo degli interessi economici del popolo, ma vuole soddisfatte tutte le sue facoltà intellettuali e morali, oltre al proletariato - uomini e donne - deve necessariamente comporsi della gioventù, dei pensatori e delle donne della borghesia a cui l’attuale stato di cose riesce odioso e che desiderano maggiore giustizia nei rapporti sociali: esso deve infondere nell’uomo uno spirito nuovo e - per quanto lo permettono le tristi condizioni sociali in cui viviamo e la cattiva educazione che abbiamo tutti ricevuta - dare a’ suoi membri quella forza e quella vita morale che li renderà un esempio vivente di vita nuova.
Non pensiamo che basti gettare al popolo il grido del «Pane!» per sollevarlo. Il popolo è di natura sua idealista (il Lazzaretti ce l’ha provato) e non si solleverà se non quando le idee socialistiche abbiano per lui il prestigio e la forza di attrazione che ebbe un tempo la fede religiosa.
Ma verrà tempo di occuparci come conviene anche delle questioni morali. Ora ne abbiamo altre che ci stringono più da vicino.
La rivoluzione è inevitabile; ma l’esperienza ci ha, credo, dimostrato che non è affare né di un giorno né di un anno. Perciò, aspettando e provocando il suo avvenimento fatale, cerchiamo quale è il programma generale intorno a cui si raccolgono tutte le forze vive e progressive della generazione nostra. Questo programma è, secondo me: il Collettivismo come mezzo, l’Anarchia come fine - programma d’oggi, che fu il nostro programma d’ieri. Intorno al Collettivismo si raccolgono oggi non solamente gli operai italiani che si occupano della loro emancipazione, ma la maggioranza degli operai francesi, belgi, spagnuoli, tedeschi, danesi e gran parte dei nichilisti russi. Non solo, ma il suo avvenimento inevitabile è così evidente, che dei pensatori usciti dalla borghesia, degli economisti, dei professori all’università di ogni nazione lo accettano a fondamento inevitabile del riordinamento sociale.
L’accomunamento della terra e degli strumenti da lavoro avrà per conseguenza necessaria l’accomunamento dei prodotti del lavoro; e quando questo accomunamento abbia luogo, ogni legge che regoli i rapporti fra gli uomini deve necessariamente sparire giacché e l’abbondanza della produzione e la nuova educazione, che le nuove condizioni sociali e la pratica della solidarietà umana daranno all’uomo, le renderanno inutili. Allora potrà attuarsi quel comunismo anarchico che oggi apparisce come il più perfetto ordinamento sociale. Ma per noi non si tratta solamente di proporre un ideale lontano che fra qualche anno forse potrà sparire offuscato da un ideale ancor più luminoso. Per noi si tratta di sceglierci un programma immediatamente attuabile, e questo crediamo di trovarlo nel collettivismo considerato come fondamento economico della società e nella federazione dei comuni autonomi considerata come organamento politico. Giacché la rivoluzione si compierà e non potrà compiersi che in condizioni economiche e morali relativamente all’avvenire assai tristi e non attuerà immediatamente, se non ciò che la maggioranza avrà dentro. Onde la necessità di un ordinamento interno. Quanto tempo questo abbia a durare, non so; ma esso si trasformerà ogni qualvolta ne sarà sentito il bisogno e si andranno man mano scoprendo le leggi dei rapporti sociali, giacché i fenomeni sociali come i naturali avvengono secondo leggi determinate, che non s’inventano né si decretano ma si scoprono; e l’uomo naturalmente - senza violenza alcuna - vi si uniformerà come si uniforma oggi alle leggi della gravitazione.
Il programma largo ed umano che mi sforzai di tracciarvi è oggi sostenuto dalla maggior parte de’ socialisti; ed io spero che sarà accettato da tutti coloro che non vogliono chiudersi la via ad un’azione efficace sul loro secolo e sul loro paese. Or mi resterebbe a dirvi quali mezzi pratici io penso che si debbano mettere in opera per farci sempre più largo tra il popolo, quale condotta dobbiamo tenere, sia verso il governo, sia verso gli altri partiti politici e quale importanza daremo alle riforme politiche, nella speranza delle quali si culla oggi gran parte del popolo italiano; ma la mia lettera è già troppo lunga; ed io spero che tali questioni le risolveremo insieme in un Congresso che si terrà quando che sia. Per ora, secondo me, la cosa più importante da farsi è quella di ricostituire il Partito socialista rivoluzionario italiano, che continuerà l’opera incominciata dall’Internazionale e che, federandosi o prima o poi coi partiti simili esistenti negli altri paesi, ristabilirà su basi solide la Internazionale, ora dappertutto in isfacelo. L’Internazionale - come esisté fino ad ora - rappresentò un momento storico della vita delle plebi; ma non potrebbe rappresentare tutta la loro vita: noi non abbandoneremo per altro il nome dell’Internazionale; ma vogliamo che non sia un semplice spauracchio, si bene che si fondi sull’organamento solido de’ partiti socialistici esistenti ne’ paesi diversi.
Questo, amici miei, è quanto doveva dirvi. Come vedete, non si tratta di rigettare il nostro passato, di cui, nonostante le sventure e i molti disinganni sofferti, possiamo per sempre andar fieri: né di cessar di essere quel che fummo; si tratta solamente di far di più e di far meglio. L’Internazionale ha fatto molto in Italia. Pensate a quel che eravamo sette od otto anni fa e a qual punto siamo ora, e vedrete.
[...] Coraggio adunque! Pensate quanti tentativi falliti prima che l’indipendenza d’Italia si compisse; e non isgomentiamoci se fino ad ora non ottenemmo tutto quello che avremmo voluto. Prepariamoci ad ottenere maggiormente. Grande compito è il nostro, o amici; e il momento di attendervi è propizio. Il movimento di pacificazione fra le diverse fazioni di socialisti, incominciato al Congresso di Gand, si va operando, grazie sopratutto alle persecuzioni internazionali dei governi. I vari partiti socialistici desistono dalle loro pretensioni assolute e, in luogo di cercare la divisione, si cerca dappertutto il contatto fraterno perché si sente che s’avvicina un tempo in cui dovremo disporre di tutte le forze nostre. Gli uomini, conosciutisi meglio, cominciano a stimarsi; e, se non vanno compiutamente d’accordo, non ricomincieranno giammai le polemiche dolorose degli anni passati. Le idee e il sentimento umano che si svolge ogni giorno più in noi ci animano alla lotta.
All’opera dunque! All’opera!
Il vostro Andrea Costa
lunedì 18 gennaio 2016
Verba volant (240): vittima...
Vittima, sost. f.
Secondo l'etimologista Otorino Pianigiani ci sono diverse ipotesi per spiegare l'origine di questa parola. Potrebbe derivare da victus, ossia vitto, perché si trattava appunto del cibo offerto agli dei; oppure potrebbe essere legata al termine victoria perché gli antichi immolavano agli dei affinché questi li aiutassero a vincere le battaglie e, una volta ottenuta la vittoria, erano proprio i vinti le prime vittime dei loro sacrifici; infine potrebbe essere collegata al verbo vigere, ossia essere forte, perché venivano sacrificati gli animali più robusti, migliori, per compiacere in questo modo gli dei. Fortunatamente non esiste nessun dio e, se esistesse, non si curerebbe affatto di queste nostre inutili offerte.
Oggi voglio parlarvi di una vittima, il cui sacrificio è stato certamente inutile e l'etimologia mi viene davvero in aiuto. Ashley era certamente migliore dell'uomo che l'ha uccisa, che forse lo ha fatto proprio perché si è sentito più debole di quella donna indipendente e libera. Ashley era certamente migliore di molti di quelli - per lo più maschi - che hanno parlato e scritto di quell'omicidio. Perché Ashley è stata non solo la vittima di quell'uomo che l'ha uccisa, ma è stata soprattutto la vittima di un'ipocrisia diffusa, di una morbosità pornografica imperante nei mezzi di informazione. Se la vittima di quella tragica notte di sesso fosse stato il maschio, i commentatori avrebbero certamente accusato la donna, colpevole di aver eliminato quell'uomo che l'aveva voluta solo per una notte; quel maschio sarebbe stato presentato come un dongiovanni, un donnaiolo, ma nessuno avrebbe scritto se l'è andata a cercare. Ashley invece è colpevole anche se è stata uccisa, perché evidentemente una donna, per di più fidanzata, che si porta a letto un uomo, per di più nero - e irregolare ricordano i leghisti - solo per una notte, in fondo è un po' zoccola e quindi lei se l'è andata a cercare, come molti hanno pensato, o almeno non è stata prudente, come molti altri, più ipocriti, hanno scritto. Niente candele sui social per una così, niente di quelle forme di pietà a buon mercato che esibiamo quando muore qualcuno di cui ci importa poco o nulla, ma che ci servono a far bella figura in questa piazza virtuale.
Ashley era una donna di trentacinque anni - smettiamola anche di etichettarla come giovane, solo in una società gerontocratica, maschilista e sessuofoba come la nostra una donna di trentacinque anni è una giovane, e quindi stupida - era una donna libera e capace di scegliere, che aveva il diritto di scegliere e doveva essere sicura quando lo faceva, libera anche di scegliere chi portarsi a letto; anche solo per una notte.
Sono più di vent'anni che la nostra sedicente civiltà è in guerra, con il pretesto di portare in un altro mondo il nostro stile di vita, giustificando quell'eterno conflitto con la necessità - che nessuno di noi nega - di riconoscere alle donne di quei paesi i diritti che sarebbero riconosciuti alle nostre donne. Anche il diritto di fare sesso con chi vogliono? Anche per una sola notte? Curiosamente quelli che sono così battaglieri nel voler togliere il burqa alle donne islamiche sono gli stessi che dicono che una donna occidentale - nostra figlia, nostra sorella, una nostra amica - in minigonna o con i jeans attillati non può essere considerata una vittima, perché ha provocato il povero uomo, evidentemente incapace di intendere e di volere. Sono davvero pedanti questi maschi che pretendono di dire cosa le donne devono o non devono indossare. Forse allora il problema di questi maschi non sono i vestiti, ma sono proprio le donne, perché si sentono minacciati da loro.
So bene che le donne di questa parte del mondo - diciamo per semplicità la nostra - stanno meglio delle donne dell'altra parte, per merito soprattutto delle donne, della loro capacità di lottare, perché se avessero aspettato noi maschi sarebbero rimaste ancora un bel po' indietro. Però la storia di Ashley ci dice che quel cammino non è compiuto, perché in una società in cui la mobilità sociale è così frenetica può succedere che si incontrino elementi di culture così differenti e che l'incontro tra un maschio cresciuto in una società fortemente misogina - perfino più della nostra - e una donna libera abbia esiti drammatici. Perché per molte persone - specialmente maschi purtroppo - il sesso è ancora qualcosa di misterioso, difficile da capire e da interpretare; e quello che potrebbe essere un atto di gioia, un momento di incontro, anche occasionale, diventa una relazione di potere, qualcosa che possiamo ottenere pagando, in segno del nostro potere, visto che, finite le guerre di conquista e la possibilità di stuprare le prigioniere, ci rimangono solo le puttane. Perché ancora per troppi giudici dei nostri civilissimi paesi se una donna apre le gambe non è stupro. E perché, nel modo in cui raccontiamo questo incontro - specialmente quando diventa scontro, come nel caso di Ashley - c'è ancora qualcosa che tradisce tutti i nostri pregiudizi, tutta la la nostra arretratezza, tutta la nostra ignoranza.
Dovremmo riconoscere che sono più forti, migliori di noi, ma non per questo devono diventare vittime.
Secondo l'etimologista Otorino Pianigiani ci sono diverse ipotesi per spiegare l'origine di questa parola. Potrebbe derivare da victus, ossia vitto, perché si trattava appunto del cibo offerto agli dei; oppure potrebbe essere legata al termine victoria perché gli antichi immolavano agli dei affinché questi li aiutassero a vincere le battaglie e, una volta ottenuta la vittoria, erano proprio i vinti le prime vittime dei loro sacrifici; infine potrebbe essere collegata al verbo vigere, ossia essere forte, perché venivano sacrificati gli animali più robusti, migliori, per compiacere in questo modo gli dei. Fortunatamente non esiste nessun dio e, se esistesse, non si curerebbe affatto di queste nostre inutili offerte.
Oggi voglio parlarvi di una vittima, il cui sacrificio è stato certamente inutile e l'etimologia mi viene davvero in aiuto. Ashley era certamente migliore dell'uomo che l'ha uccisa, che forse lo ha fatto proprio perché si è sentito più debole di quella donna indipendente e libera. Ashley era certamente migliore di molti di quelli - per lo più maschi - che hanno parlato e scritto di quell'omicidio. Perché Ashley è stata non solo la vittima di quell'uomo che l'ha uccisa, ma è stata soprattutto la vittima di un'ipocrisia diffusa, di una morbosità pornografica imperante nei mezzi di informazione. Se la vittima di quella tragica notte di sesso fosse stato il maschio, i commentatori avrebbero certamente accusato la donna, colpevole di aver eliminato quell'uomo che l'aveva voluta solo per una notte; quel maschio sarebbe stato presentato come un dongiovanni, un donnaiolo, ma nessuno avrebbe scritto se l'è andata a cercare. Ashley invece è colpevole anche se è stata uccisa, perché evidentemente una donna, per di più fidanzata, che si porta a letto un uomo, per di più nero - e irregolare ricordano i leghisti - solo per una notte, in fondo è un po' zoccola e quindi lei se l'è andata a cercare, come molti hanno pensato, o almeno non è stata prudente, come molti altri, più ipocriti, hanno scritto. Niente candele sui social per una così, niente di quelle forme di pietà a buon mercato che esibiamo quando muore qualcuno di cui ci importa poco o nulla, ma che ci servono a far bella figura in questa piazza virtuale.
Ashley era una donna di trentacinque anni - smettiamola anche di etichettarla come giovane, solo in una società gerontocratica, maschilista e sessuofoba come la nostra una donna di trentacinque anni è una giovane, e quindi stupida - era una donna libera e capace di scegliere, che aveva il diritto di scegliere e doveva essere sicura quando lo faceva, libera anche di scegliere chi portarsi a letto; anche solo per una notte.
Sono più di vent'anni che la nostra sedicente civiltà è in guerra, con il pretesto di portare in un altro mondo il nostro stile di vita, giustificando quell'eterno conflitto con la necessità - che nessuno di noi nega - di riconoscere alle donne di quei paesi i diritti che sarebbero riconosciuti alle nostre donne. Anche il diritto di fare sesso con chi vogliono? Anche per una sola notte? Curiosamente quelli che sono così battaglieri nel voler togliere il burqa alle donne islamiche sono gli stessi che dicono che una donna occidentale - nostra figlia, nostra sorella, una nostra amica - in minigonna o con i jeans attillati non può essere considerata una vittima, perché ha provocato il povero uomo, evidentemente incapace di intendere e di volere. Sono davvero pedanti questi maschi che pretendono di dire cosa le donne devono o non devono indossare. Forse allora il problema di questi maschi non sono i vestiti, ma sono proprio le donne, perché si sentono minacciati da loro.
So bene che le donne di questa parte del mondo - diciamo per semplicità la nostra - stanno meglio delle donne dell'altra parte, per merito soprattutto delle donne, della loro capacità di lottare, perché se avessero aspettato noi maschi sarebbero rimaste ancora un bel po' indietro. Però la storia di Ashley ci dice che quel cammino non è compiuto, perché in una società in cui la mobilità sociale è così frenetica può succedere che si incontrino elementi di culture così differenti e che l'incontro tra un maschio cresciuto in una società fortemente misogina - perfino più della nostra - e una donna libera abbia esiti drammatici. Perché per molte persone - specialmente maschi purtroppo - il sesso è ancora qualcosa di misterioso, difficile da capire e da interpretare; e quello che potrebbe essere un atto di gioia, un momento di incontro, anche occasionale, diventa una relazione di potere, qualcosa che possiamo ottenere pagando, in segno del nostro potere, visto che, finite le guerre di conquista e la possibilità di stuprare le prigioniere, ci rimangono solo le puttane. Perché ancora per troppi giudici dei nostri civilissimi paesi se una donna apre le gambe non è stupro. E perché, nel modo in cui raccontiamo questo incontro - specialmente quando diventa scontro, come nel caso di Ashley - c'è ancora qualcosa che tradisce tutti i nostri pregiudizi, tutta la la nostra arretratezza, tutta la nostra ignoranza.
Dovremmo riconoscere che sono più forti, migliori di noi, ma non per questo devono diventare vittime.
domenica 10 gennaio 2016
Verba volant (239): bomba...
Bomba, sost. f.
I miei lettori più giovani non lo possono ricordare, ma per noi - e soprattutto per la generazione prima della nostra - la bomba è stata una minaccia reale, molto concreta per quanto lontana. Noi avevamo paura della bomba, anche se naturalmente nessuno ne aveva subito gli effetti e - per fortuna - li avrebbe mai subiti. Ovviamente non mi riferisco alle bombe "convenzionali" che purtroppo abbiamo visto e sentito scoppiare, anche molto vicino a noi, alle bombe che hanno ucciso a Milano, a Brescia, a Bologna, ma alla bomba atomica e a quella ad idrogeno, le bombe che erano state usate soltanto ad Hiroshima e a Nagasaki e che riempivano gli arsenali degli Stati Uniti, dell'Unione Sovietica e di alcuni altri paesi.
Razionalmente sapevamo che quelle bombe erano efficaci solo se non scoppiavano, anzi proprio perché non sarebbero mai scoppiate, che servivano a quella che si chiamava deterrenza, eppure ne avevamo comunque paura, perché i loro effetti sarebbero stati imprevedibili. Avevamo paura che una bomba scoppiasse per errore o per mano di un folle, dando così il via a un conflitto dagli esiti catastrofici per l'intero pianeta. La paura della bomba era qualcosa che tentavamo di esorcizzare in molti modi, perfino a scuola, nei disegni in cui ingenuamente rappresentavamo gli uomini di paesi diversi, un bianco, un nero, un cinese e così via - anche se i neri non avevano la bomba - tenersi la mano in un girotondo di pace, in un mondo finalmente libero dalla bomba. Capita ancora qualche volta di imbattersi in cartelli con la scritta Comune denuclearizzato; anche quello era un modo per esprimere, in maniera certamente velleitaria, l'impegno per la pace e per un mondo senza bombe. Quei cartelli avevano la stessa efficacia dei disegni che noi facevamo alle elementari. La bomba era un pericolo reale e incombente, contro cui le nostre speranze e anche il nostro impegno finivano inevitabilmente per soccombere.
Dopo qualche anno, a un certo punto, praticamente all'improvviso, abbiamo smesso di avere paura della bomba. Le bombe c'erano - e ci sono - ancora, sono sempre là dov'erano prima, custodite negli stessi arsenali - anche se in qualche caso è cambiata la bandiera che ci sventola sopra. Molte negli anni sono state distrutte, ma non tutte, e sappiamo che quelle poche che sono rimaste sarebbero sufficienti per distruggere il pianeta. Non c'è ragione per essere tranquilli, eppure non abbiamo più paura. Immagino che a scuola non si facciano più gli stessi ingenui disegni che facevamo allora e i cartelli Comune denuclearizzato sono ormai un oggetto di "archeologia amministrativa". Eppure il mondo è più complesso ora di allora, ci sono più soggetti fuori controllo, le bombe potrebbero molto più facilmente di allora cadere in mano a pazzi o a fanatici o a disperati. Ma non abbiamo più paura, neppure la notizia che forse il regime della Corea del nord potrebbe avere la bomba ci ha davvero spaventato, nonostante l'impegno con cui i mezzi di informazione hanno tentato di far rinascere la paura, disegnando un "nuovo cattivo" contro cui dovremmo batterci.
Forse è successo perché adesso abbiamo una paura più concreta, più reale, più probabile, come quella di rimanere vittime di un attentato terroristico, mentre assistiamo a un concerto, a una partita di calcio, o semplicemente perché un giorno abbiamo preso un vagone della metropolitana piuttosto che un altro o imboccato con la nostra auto una strada proprio in quel fatale momento.
In fondo la bomba ci proteggeva, perché contribuiva a dare un ordine al mondo che, mancata la paura della bomba, è andato inesorabilmente perduto. Ovviamente questo è qualcosa che riguarda soltanto noi, che abbiamo avuto la fortuna di vivere in questa parte del mondo, quella che aveva la bomba, perché nei quasi cinquant'anni in cui è durata la "pace delle bombe", negli altri paesi del mondo, quelli che non avevano la bomba, le guerre sono continuate e là le donne e gli uomini hanno continuato a morire per colpa delle bombe "normali". Noi vivevamo protetti dal fungo atomico, mentre là fuori i poveri si scannavano, quasi sempre in conflitti in cui combattevano al nostro posto. Allora qualcuno di noi pensava e diceva che le guerre, tutte le guerre, dovevano finire, che non avrebbe più dovuto esserci la bomba, ma che avremmo dovuto anche rimuovere le cause che provocavano quei conflitti, che si continuavano a combattere con i fucili, in alcuni casi perfino con le spade e i coltelli. Non è successo. La bomba è stata in qualche modo disinnescata, ma le cause di quei conflitti sono ancora tutte lì, anzi sono state in qualche modo acuite, perché è cresciuto il divario tra i pochissimi che hanno quasi tutto e i moltissimi che non hanno quasi niente, perché la guerra di classe che i ricchi combattono contro i poveri è sempre più violenta e crudele. E così la guerra delle bombe "normali", dei fucili, perfino dei coltelli è tornata anche qui, dove ci eravamo dimenticati cosa significasse. Per questo dobbiamo riannodare il filo del nostro impegno politico, ricordare cosa dicevamo un tempo, fare in modo che la nostra lotta sia la lotta di quella degli altri popoli, che non devono più essere nostri nemici, ma diventare nostri alleati. Dobbiamo ricordare, a noi e a loro, che i poveri del mondo devono combattere la stessa guerra, perché hanno gli stessi nemici, mentre ora ci fanno combattere su fronti opposti. E che, se vinceremo, vinceremo insieme.
E' così che ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba.
I miei lettori più giovani non lo possono ricordare, ma per noi - e soprattutto per la generazione prima della nostra - la bomba è stata una minaccia reale, molto concreta per quanto lontana. Noi avevamo paura della bomba, anche se naturalmente nessuno ne aveva subito gli effetti e - per fortuna - li avrebbe mai subiti. Ovviamente non mi riferisco alle bombe "convenzionali" che purtroppo abbiamo visto e sentito scoppiare, anche molto vicino a noi, alle bombe che hanno ucciso a Milano, a Brescia, a Bologna, ma alla bomba atomica e a quella ad idrogeno, le bombe che erano state usate soltanto ad Hiroshima e a Nagasaki e che riempivano gli arsenali degli Stati Uniti, dell'Unione Sovietica e di alcuni altri paesi.
Razionalmente sapevamo che quelle bombe erano efficaci solo se non scoppiavano, anzi proprio perché non sarebbero mai scoppiate, che servivano a quella che si chiamava deterrenza, eppure ne avevamo comunque paura, perché i loro effetti sarebbero stati imprevedibili. Avevamo paura che una bomba scoppiasse per errore o per mano di un folle, dando così il via a un conflitto dagli esiti catastrofici per l'intero pianeta. La paura della bomba era qualcosa che tentavamo di esorcizzare in molti modi, perfino a scuola, nei disegni in cui ingenuamente rappresentavamo gli uomini di paesi diversi, un bianco, un nero, un cinese e così via - anche se i neri non avevano la bomba - tenersi la mano in un girotondo di pace, in un mondo finalmente libero dalla bomba. Capita ancora qualche volta di imbattersi in cartelli con la scritta Comune denuclearizzato; anche quello era un modo per esprimere, in maniera certamente velleitaria, l'impegno per la pace e per un mondo senza bombe. Quei cartelli avevano la stessa efficacia dei disegni che noi facevamo alle elementari. La bomba era un pericolo reale e incombente, contro cui le nostre speranze e anche il nostro impegno finivano inevitabilmente per soccombere.
Dopo qualche anno, a un certo punto, praticamente all'improvviso, abbiamo smesso di avere paura della bomba. Le bombe c'erano - e ci sono - ancora, sono sempre là dov'erano prima, custodite negli stessi arsenali - anche se in qualche caso è cambiata la bandiera che ci sventola sopra. Molte negli anni sono state distrutte, ma non tutte, e sappiamo che quelle poche che sono rimaste sarebbero sufficienti per distruggere il pianeta. Non c'è ragione per essere tranquilli, eppure non abbiamo più paura. Immagino che a scuola non si facciano più gli stessi ingenui disegni che facevamo allora e i cartelli Comune denuclearizzato sono ormai un oggetto di "archeologia amministrativa". Eppure il mondo è più complesso ora di allora, ci sono più soggetti fuori controllo, le bombe potrebbero molto più facilmente di allora cadere in mano a pazzi o a fanatici o a disperati. Ma non abbiamo più paura, neppure la notizia che forse il regime della Corea del nord potrebbe avere la bomba ci ha davvero spaventato, nonostante l'impegno con cui i mezzi di informazione hanno tentato di far rinascere la paura, disegnando un "nuovo cattivo" contro cui dovremmo batterci.
Forse è successo perché adesso abbiamo una paura più concreta, più reale, più probabile, come quella di rimanere vittime di un attentato terroristico, mentre assistiamo a un concerto, a una partita di calcio, o semplicemente perché un giorno abbiamo preso un vagone della metropolitana piuttosto che un altro o imboccato con la nostra auto una strada proprio in quel fatale momento.
In fondo la bomba ci proteggeva, perché contribuiva a dare un ordine al mondo che, mancata la paura della bomba, è andato inesorabilmente perduto. Ovviamente questo è qualcosa che riguarda soltanto noi, che abbiamo avuto la fortuna di vivere in questa parte del mondo, quella che aveva la bomba, perché nei quasi cinquant'anni in cui è durata la "pace delle bombe", negli altri paesi del mondo, quelli che non avevano la bomba, le guerre sono continuate e là le donne e gli uomini hanno continuato a morire per colpa delle bombe "normali". Noi vivevamo protetti dal fungo atomico, mentre là fuori i poveri si scannavano, quasi sempre in conflitti in cui combattevano al nostro posto. Allora qualcuno di noi pensava e diceva che le guerre, tutte le guerre, dovevano finire, che non avrebbe più dovuto esserci la bomba, ma che avremmo dovuto anche rimuovere le cause che provocavano quei conflitti, che si continuavano a combattere con i fucili, in alcuni casi perfino con le spade e i coltelli. Non è successo. La bomba è stata in qualche modo disinnescata, ma le cause di quei conflitti sono ancora tutte lì, anzi sono state in qualche modo acuite, perché è cresciuto il divario tra i pochissimi che hanno quasi tutto e i moltissimi che non hanno quasi niente, perché la guerra di classe che i ricchi combattono contro i poveri è sempre più violenta e crudele. E così la guerra delle bombe "normali", dei fucili, perfino dei coltelli è tornata anche qui, dove ci eravamo dimenticati cosa significasse. Per questo dobbiamo riannodare il filo del nostro impegno politico, ricordare cosa dicevamo un tempo, fare in modo che la nostra lotta sia la lotta di quella degli altri popoli, che non devono più essere nostri nemici, ma diventare nostri alleati. Dobbiamo ricordare, a noi e a loro, che i poveri del mondo devono combattere la stessa guerra, perché hanno gli stessi nemici, mentre ora ci fanno combattere su fronti opposti. E che, se vinceremo, vinceremo insieme.
E' così che ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba.
lunedì 4 gennaio 2016
Verba volant (238): rovescio...
Rovescio, agg. e sost. m. e f.
In questi primissimi giorni del 2016 si sta parlando molto, e quasi sempre a sproposito, dell'errore di oltre un minuto con cui Rai Uno ha annunciato in anticipo l'arrivo del nuovo anno. Ormai non sanno fare più nemmeno il conto alla rovescia, ma francamente mi pare un errore veniale. Non è scandaloso quello sbaglio nella sincronizzazione dell'orologio con cui tanti di noi hanno fatto il conto alla rovescia per stappare le bottiglie di spumante e in fondo non è neppure scandalosa la bestemmia scritta in un sms da un telespettatore e trasmessa inavvertitamente per pochi secondi, insieme agli altri auguri che passavano velocemente nella parte bassa del teleschermo.
Naturalmente la cosa sta facendo rumore perché è stato nominato Dio invano e questo disturba l'azionista di maggioranza della televisione pubblica italiana: se fosse stato un insulto a carattere sessuale rivolto a una donna le gerarchie vaticane avrebbero fatto molto meno casino e di questo episodio non parleremmo più. Il funzionario colpevole di questa disattenzione ha detto che quella bestemmia gli è sfuggita perché prima aveva già dovuto cancellare più di trecento messaggi con contenuti inappropriati e questo la dice lunga sul genere di società in cui viviamo, se trecento persone si sono prese la briga di mandare un sms con una bestemmia o una sconcezza solo per il gusto di vederla in televisione. Per non parlare di quelli che hanno letto tutti quegli inutili messaggi con la sola segreta speranza di leggere una bestemmia o qualche altra volgarità.
E questo paese è anche così becero e spesso squallido, perché la televisione è becera e spesso squallida: e lo spettacolo dell'altra notte ne è l'esempio più eclatante. Lo scandalo vero, la cosa di cui dovremmo indignarci, è che il più importante canale televisivo pubblico di questo paese non sia riuscito a fare nulla di meglio di uno spettacolo indecoroso e triste come L'anno che verrà, anzi che da molti anni non riesca a fare nulla di meglio di così. Lo scandalo è l'assoluta incapacità di fare qualcosa di meglio di questa esanime e ripetitiva sagra da strapaese.
La Rai quest'anno ha deciso di trasmettere lo spettacolo di fine d'anno da Matera e non più da Courmayeur, un po' perché la Regione Val d'Aosta ha deciso di smettere di tirare fuori dei soldi per finanziare questo preteso "evento", e un po' per avere il pretesto di festeggiare la prossima capitale europea della cultura. E così i guitti sono scesi, armi e bagagli, nella città lucana - miracolando Rocco Papaleo, per la ragione che è l'unico lucano che conoscono - e hanno messo in piedi un carrozzone fatto di battute di terz'ordine, di qualche ragazza scosciata, di imitazioni di basso livello, di qualche canzone troppo conosciuta: ormai qualunque telespettatore con un po' di memoria potrebbe indovinare quali brani verranno trasmessi in una trasmissione del genere. Ai preti, ai benpensanti, agli intellettuali di questo paese non dà fastidio che le donne in televisione vengano usate solo come tappezzeria? Che vengano valutate solo per la taglia del reggiseno? Ai preti, ai benpensanti, agli intellettuali non disturba la stupidità, la mancanza di fantasia, la scarsa professionalità? No, a loro importa solo dell'ora esatta e delle bestemmie. L'unica idea avuta dagli autori dello spettacolo è il rapporto con il pubblico, che fa tanto social, rappresentato appunto da quello scorrere di messaggi inutili e sgrammaticati, che ha tirato fuori il peggio dei telespettatori, al netto della censura poco efficace. Non c'è da stupirsi, se la televisione da anni insegna che per far ridere basta dire merda o cazzo e che un bel sedere fa alzare l'audience cosa possiamo aspettarci da quelli che smanettano da casa con il loro cellulare?
Nessuno si aspetta che lo spettacolo di fine d'anno debba essere un evento culturale, debba essere qualcosa di memorabile. In molte case si accende la televisione proprio perché c'è il conto alla rovescia e quindi se ormai non serve neppure a questo c'è poco da guardare. Né potevamo pensare che quello spettacolo davvero rappresentasse la cultura dell'Italia o di Matera o del nostro Mezzogiorno, o forse purtroppo la rappresenta, anche troppo bene.
Quello spettacolo dovrebbe essere soltanto uno spettacolo, un varietà si diceva una volta, qualcosa di leggero, che possa accompagnare le famiglie che rimangono a casa e davanti alla televisione, fino alla mezzanotte, possibilmente senza sbagliare nell'indicare l'ora esatta. Non sarebbero necessari fior di autori o i più bei nomi dello spettacolo italiano, basterebbe che vi è impegnato sapesse far bene il proprio lavoro. Spesso è impietoso confrontare il livello dei varietà della Rai in bianco e nero con quelli di oggi, eppure bisogna farlo per capire come è peggiorata non solo la televisione, ma tutta la nostra società. E quella era pure una società chiusa, bigotta, maschilista - democristiana in una parola sola - che la televisione, governata appunto dai democristiani, rappresentava in tutti i suoi limiti. Però chi faceva la televisione lo sapeva fare. Il "segreto" di quegli spettacoli che adesso ancora guardiamo divertendoci, è piuttosto semplice: erano realizzati da artisti, da autori, da tecnici, capaci di fare il proprio mestiere, da bravi artigiani, da "lavoratori dello spettacolo", secondo la definizione dell'Enpals. A volte erano artisti di grande livello, a volte no, ma erano comunque persone del mestiere. Perché bisogna essere capaci, anche a fare i censori.
Altrimenti si rischia inevitabilmente di andare a rovescio.
In questi primissimi giorni del 2016 si sta parlando molto, e quasi sempre a sproposito, dell'errore di oltre un minuto con cui Rai Uno ha annunciato in anticipo l'arrivo del nuovo anno. Ormai non sanno fare più nemmeno il conto alla rovescia, ma francamente mi pare un errore veniale. Non è scandaloso quello sbaglio nella sincronizzazione dell'orologio con cui tanti di noi hanno fatto il conto alla rovescia per stappare le bottiglie di spumante e in fondo non è neppure scandalosa la bestemmia scritta in un sms da un telespettatore e trasmessa inavvertitamente per pochi secondi, insieme agli altri auguri che passavano velocemente nella parte bassa del teleschermo.
Naturalmente la cosa sta facendo rumore perché è stato nominato Dio invano e questo disturba l'azionista di maggioranza della televisione pubblica italiana: se fosse stato un insulto a carattere sessuale rivolto a una donna le gerarchie vaticane avrebbero fatto molto meno casino e di questo episodio non parleremmo più. Il funzionario colpevole di questa disattenzione ha detto che quella bestemmia gli è sfuggita perché prima aveva già dovuto cancellare più di trecento messaggi con contenuti inappropriati e questo la dice lunga sul genere di società in cui viviamo, se trecento persone si sono prese la briga di mandare un sms con una bestemmia o una sconcezza solo per il gusto di vederla in televisione. Per non parlare di quelli che hanno letto tutti quegli inutili messaggi con la sola segreta speranza di leggere una bestemmia o qualche altra volgarità.
E questo paese è anche così becero e spesso squallido, perché la televisione è becera e spesso squallida: e lo spettacolo dell'altra notte ne è l'esempio più eclatante. Lo scandalo vero, la cosa di cui dovremmo indignarci, è che il più importante canale televisivo pubblico di questo paese non sia riuscito a fare nulla di meglio di uno spettacolo indecoroso e triste come L'anno che verrà, anzi che da molti anni non riesca a fare nulla di meglio di così. Lo scandalo è l'assoluta incapacità di fare qualcosa di meglio di questa esanime e ripetitiva sagra da strapaese.
La Rai quest'anno ha deciso di trasmettere lo spettacolo di fine d'anno da Matera e non più da Courmayeur, un po' perché la Regione Val d'Aosta ha deciso di smettere di tirare fuori dei soldi per finanziare questo preteso "evento", e un po' per avere il pretesto di festeggiare la prossima capitale europea della cultura. E così i guitti sono scesi, armi e bagagli, nella città lucana - miracolando Rocco Papaleo, per la ragione che è l'unico lucano che conoscono - e hanno messo in piedi un carrozzone fatto di battute di terz'ordine, di qualche ragazza scosciata, di imitazioni di basso livello, di qualche canzone troppo conosciuta: ormai qualunque telespettatore con un po' di memoria potrebbe indovinare quali brani verranno trasmessi in una trasmissione del genere. Ai preti, ai benpensanti, agli intellettuali di questo paese non dà fastidio che le donne in televisione vengano usate solo come tappezzeria? Che vengano valutate solo per la taglia del reggiseno? Ai preti, ai benpensanti, agli intellettuali non disturba la stupidità, la mancanza di fantasia, la scarsa professionalità? No, a loro importa solo dell'ora esatta e delle bestemmie. L'unica idea avuta dagli autori dello spettacolo è il rapporto con il pubblico, che fa tanto social, rappresentato appunto da quello scorrere di messaggi inutili e sgrammaticati, che ha tirato fuori il peggio dei telespettatori, al netto della censura poco efficace. Non c'è da stupirsi, se la televisione da anni insegna che per far ridere basta dire merda o cazzo e che un bel sedere fa alzare l'audience cosa possiamo aspettarci da quelli che smanettano da casa con il loro cellulare?
Nessuno si aspetta che lo spettacolo di fine d'anno debba essere un evento culturale, debba essere qualcosa di memorabile. In molte case si accende la televisione proprio perché c'è il conto alla rovescia e quindi se ormai non serve neppure a questo c'è poco da guardare. Né potevamo pensare che quello spettacolo davvero rappresentasse la cultura dell'Italia o di Matera o del nostro Mezzogiorno, o forse purtroppo la rappresenta, anche troppo bene.
Quello spettacolo dovrebbe essere soltanto uno spettacolo, un varietà si diceva una volta, qualcosa di leggero, che possa accompagnare le famiglie che rimangono a casa e davanti alla televisione, fino alla mezzanotte, possibilmente senza sbagliare nell'indicare l'ora esatta. Non sarebbero necessari fior di autori o i più bei nomi dello spettacolo italiano, basterebbe che vi è impegnato sapesse far bene il proprio lavoro. Spesso è impietoso confrontare il livello dei varietà della Rai in bianco e nero con quelli di oggi, eppure bisogna farlo per capire come è peggiorata non solo la televisione, ma tutta la nostra società. E quella era pure una società chiusa, bigotta, maschilista - democristiana in una parola sola - che la televisione, governata appunto dai democristiani, rappresentava in tutti i suoi limiti. Però chi faceva la televisione lo sapeva fare. Il "segreto" di quegli spettacoli che adesso ancora guardiamo divertendoci, è piuttosto semplice: erano realizzati da artisti, da autori, da tecnici, capaci di fare il proprio mestiere, da bravi artigiani, da "lavoratori dello spettacolo", secondo la definizione dell'Enpals. A volte erano artisti di grande livello, a volte no, ma erano comunque persone del mestiere. Perché bisogna essere capaci, anche a fare i censori.
Altrimenti si rischia inevitabilmente di andare a rovescio.
sabato 2 gennaio 2016
Verba volant (237): allarme...
Allarme, sost. m.
E così, in qualche modo, abbiamo passato anche questo capodanno, con tutta la sua retorica, con tutti i suoi annessi e connessi.
Da qualche anno uno dei topos dell'informazione nella settimana tra Natale e san Silvestro è rappresentato dai botti. Nessun telegiornale, nessun organo di informazione, si fa mancare una serie di servizi per invitare alla prudenza nell'utilizzo dei fuochi d'artificio, leciti e illeciti. Vengono intervistati pompieri, medici del pronto soccorso, esperti in fuochi artificiali e poi la solita compagnia di giro degli opinionisti, ossia di quelli che, non occupandosi di niente, hanno un'opinione su tutto. Alcune amministrazioni comunali, seguendo la moda imperante, hanno fatto ordinanze, inapplicabili e sostanzialmente inapplicate, per vietare i botti nei loro rispettivi territori, e quelle che non le hanno emanate, per realistico buon senso, sono state costrette a giustificarsi, invitando comunque i propri cittadini al buon senso. Molti cittadini hanno chiesto ai propri sindaci che fossero vietati i botti, gli stessi che si sarebbero fieramente opposti se i loro sindaci avessero emesso un'ordinanza per vietare l'uso delle auto, a causa dell'inquinamento. I detrattori dei botti hanno poi trovato dei formidabili alleati tra coloro che amano gli animali e, dal momento che molti prestano più attenzione alle sofferenze degli animali che a quelle dei cristiani, verso i botti è stata montata una vera e propria campagna denigratoria, che è riuscita a limitarne la vendita e l'utilizzo. Personalmente non me ne rammarico: i botti mi sono sempre piaciuti poco e fatico ad associarli alle feste.
Vorrei però farvi notare una cosa. Nella notte tra il 31 dicembre e il 1° gennaio al pronto soccorso del Maggiore di Parma è arrivata una sola persona con una ferita provocata dai botti, mentre ne sono arrivate quindici con problemi legati all'abuso di alcol; e qualcosa di sostanzialmente analogo è avvenuto negli altri ospedali della nostra regione. E mentre i botti sono un problema prettamente di questo periodo festivo, il numero delle persone portate all'ospedale perché ubriache è pressoché costante tutto l'anno. Allora chiediamoci cosa fa più danni? La faciloneria con cui alcuni improvvisati "bombaroli" danno fuoco alle polveri o l'uso smodato di alcolici? Almeno numericamente il secondo, però il problema dell'abuso di alcol non è avvertito come un dramma sociale, non è sentito come un problema, non c'è alcun tipo di allarme e nessun organo di informazione si sognerebbe mai di fare un servizio il 31 dicembre per raccontare dei morti per alcol nel nostro paese. Anche perché nessuno fa ubriacare il proprio cane.
Leggendo i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità, l'uso di alcol nel 2012 ha causato nel mondo 3,3 milioni di morti, ossia il 5,9% di tutti i decessi, e il 5,1% degli anni di vita persi a causa di malattia, disabilità o morte prematura. Il consumo di bevande alcoliche è responsabile o aumenta il rischio dell'insorgenza di molte malattie ed è responsabile di molti danni indiretti dovuti a comportamenti associati a stati di intossicazione acuta, ad esempio infortuni sul lavoro, incidenti stradali ed episodi di violenza domestica. L'alcol è una sostanza tossica, potenzialmente cancerogena e con la capacità di indurre dipendenza: causa danni diretti alle cellule di molti organi, soprattutto fegato e sistema nervoso centrale, e in particolare alle cellule del cervello. Però non c'è un allarme sociale sui rischi dell'abuso di alcol, così come c'è un allarme sociale sull'abuso di tabacco. E infatti l'alcol è disponibile ovunque e non c'è alcun controllo all'acquisto e al consumo: un minorenne può tranquillamente acquistarlo al supermercato e nessuno gli dirà mai nulla. Di alcol in giro ce n'è tanto, costa relativamente poco e può essere acquistato senza problemi.
L'allarme sociale sull'abuso del tabacco comincia a dare i suoi frutti, perché, anche se meno lentamente di come si potrebbe sperare, cala il numero dei fumatori e soprattutto cresce la percezione che il fumo sia un problema e che fumare sia un segno distintivo negativo. Sul bere non abbiamo fatto nulla e così per molti giovanissimi - ragazzi e anche moltissime ragazze - bere superalcolici è ancora un rito di passaggio, un modo per sentirsi grandi, per sentirsi apprezzati dagli altri. Ovviamente non credo che proibire sia la strada giusta - come mi è già capitato di dire, io sono anche per la legalizzazione di alcune droghe - ma credo sia necessario avviare una campagna sull'abuso di alcol, che in questo paese non abbiamo mai davvero cominciato. Sul tabacco abbiamo fatto tante campagne, tanto lavoro nelle scuole, spesso inutilmente retorico, ma a volte efficace. Bisogna cominciare a farlo anche sull'alcol. Se ci dedicassimo con lo stesso impegno con cui parliamo dei botti credo sarebbe già un successo.
E così, in qualche modo, abbiamo passato anche questo capodanno, con tutta la sua retorica, con tutti i suoi annessi e connessi.
Da qualche anno uno dei topos dell'informazione nella settimana tra Natale e san Silvestro è rappresentato dai botti. Nessun telegiornale, nessun organo di informazione, si fa mancare una serie di servizi per invitare alla prudenza nell'utilizzo dei fuochi d'artificio, leciti e illeciti. Vengono intervistati pompieri, medici del pronto soccorso, esperti in fuochi artificiali e poi la solita compagnia di giro degli opinionisti, ossia di quelli che, non occupandosi di niente, hanno un'opinione su tutto. Alcune amministrazioni comunali, seguendo la moda imperante, hanno fatto ordinanze, inapplicabili e sostanzialmente inapplicate, per vietare i botti nei loro rispettivi territori, e quelle che non le hanno emanate, per realistico buon senso, sono state costrette a giustificarsi, invitando comunque i propri cittadini al buon senso. Molti cittadini hanno chiesto ai propri sindaci che fossero vietati i botti, gli stessi che si sarebbero fieramente opposti se i loro sindaci avessero emesso un'ordinanza per vietare l'uso delle auto, a causa dell'inquinamento. I detrattori dei botti hanno poi trovato dei formidabili alleati tra coloro che amano gli animali e, dal momento che molti prestano più attenzione alle sofferenze degli animali che a quelle dei cristiani, verso i botti è stata montata una vera e propria campagna denigratoria, che è riuscita a limitarne la vendita e l'utilizzo. Personalmente non me ne rammarico: i botti mi sono sempre piaciuti poco e fatico ad associarli alle feste.
Vorrei però farvi notare una cosa. Nella notte tra il 31 dicembre e il 1° gennaio al pronto soccorso del Maggiore di Parma è arrivata una sola persona con una ferita provocata dai botti, mentre ne sono arrivate quindici con problemi legati all'abuso di alcol; e qualcosa di sostanzialmente analogo è avvenuto negli altri ospedali della nostra regione. E mentre i botti sono un problema prettamente di questo periodo festivo, il numero delle persone portate all'ospedale perché ubriache è pressoché costante tutto l'anno. Allora chiediamoci cosa fa più danni? La faciloneria con cui alcuni improvvisati "bombaroli" danno fuoco alle polveri o l'uso smodato di alcolici? Almeno numericamente il secondo, però il problema dell'abuso di alcol non è avvertito come un dramma sociale, non è sentito come un problema, non c'è alcun tipo di allarme e nessun organo di informazione si sognerebbe mai di fare un servizio il 31 dicembre per raccontare dei morti per alcol nel nostro paese. Anche perché nessuno fa ubriacare il proprio cane.
Leggendo i dati dell'Organizzazione mondiale della sanità, l'uso di alcol nel 2012 ha causato nel mondo 3,3 milioni di morti, ossia il 5,9% di tutti i decessi, e il 5,1% degli anni di vita persi a causa di malattia, disabilità o morte prematura. Il consumo di bevande alcoliche è responsabile o aumenta il rischio dell'insorgenza di molte malattie ed è responsabile di molti danni indiretti dovuti a comportamenti associati a stati di intossicazione acuta, ad esempio infortuni sul lavoro, incidenti stradali ed episodi di violenza domestica. L'alcol è una sostanza tossica, potenzialmente cancerogena e con la capacità di indurre dipendenza: causa danni diretti alle cellule di molti organi, soprattutto fegato e sistema nervoso centrale, e in particolare alle cellule del cervello. Però non c'è un allarme sociale sui rischi dell'abuso di alcol, così come c'è un allarme sociale sull'abuso di tabacco. E infatti l'alcol è disponibile ovunque e non c'è alcun controllo all'acquisto e al consumo: un minorenne può tranquillamente acquistarlo al supermercato e nessuno gli dirà mai nulla. Di alcol in giro ce n'è tanto, costa relativamente poco e può essere acquistato senza problemi.
L'allarme sociale sull'abuso del tabacco comincia a dare i suoi frutti, perché, anche se meno lentamente di come si potrebbe sperare, cala il numero dei fumatori e soprattutto cresce la percezione che il fumo sia un problema e che fumare sia un segno distintivo negativo. Sul bere non abbiamo fatto nulla e così per molti giovanissimi - ragazzi e anche moltissime ragazze - bere superalcolici è ancora un rito di passaggio, un modo per sentirsi grandi, per sentirsi apprezzati dagli altri. Ovviamente non credo che proibire sia la strada giusta - come mi è già capitato di dire, io sono anche per la legalizzazione di alcune droghe - ma credo sia necessario avviare una campagna sull'abuso di alcol, che in questo paese non abbiamo mai davvero cominciato. Sul tabacco abbiamo fatto tante campagne, tanto lavoro nelle scuole, spesso inutilmente retorico, ma a volte efficace. Bisogna cominciare a farlo anche sull'alcol. Se ci dedicassimo con lo stesso impegno con cui parliamo dei botti credo sarebbe già un successo.
giovedì 31 dicembre 2015
Messaggio di fine anno (nel mio piccolo)...

martedì 29 dicembre 2015
Verba volant (236): coperta...
Un'indispensabile premessa per i miei lettori che non conoscono Parma. La Pilotta è l'unica parte ancora conservata del vasto complesso di edifici che costituivano il palazzo ducale, in particolare gli spazi di servizio dove si trovavano le stalle, le scuderie, le abitazioni della servitù, e che delimitavano alcuni cortili, in uno dei quali si giocava appunto la pelota. Attualmente è la sede di alcuni importanti musei e della biblioteca civica; inoltre ospita lo splendido Teatro Farnese, un gioiello poco conosciuto del nostro paese, che vi invito a visitare.
Nella Pilotta trovano rifugio i senzatetto della città. Di giorno si disperdono per le vie e le piazze di Parma e noi non li vediamo, o almeno possiamo fare finta di non vederli. Ma di notte, specialmente durante le rigide e nebbiose notti invernali padane, quei portici - tra i pochissimi della nostra città - offrono loro un riparo di fortuna, ma almeno sicuro, anche perché quell'area è sorvegliata dalle telecamere. Qualche giorno fa, un po' prima delle feste, gli agenti della polizia municipale hanno raccolto e portato via le coperte che i senzatetto avevano utilizzato la notte precedente e che avrebbero usato quella successiva, perché quelle coperte abbandonate offendevano il decoro della città. È vero, quelle coperte - donate ai senzatetto da alcune associazioni cittadine - effettivamente sono brutte, sporche, e offrono una pessima immagine ai cittadini e ai turisti che passano ogni giorno per la Pilotta. Non voglio sembrare più buono di quanto sia: anche a me quelle coperte danno fastidio, ne sento la puzza quando ci passo accanto, e penso anche che qualcuna di quelle persone in fondo meriti quello che gli è capitato e che la colpa non sia sempre del destino cinico e baro.
In questi giorni la decisione della polizia municipale è stata criticata da più parti - almeno in pubblico - perché certe cose a Natale, quando tutti facciamo finta di essere più buoni, non si fanno - meglio farle dopo il 6 gennaio, quando siamo liberi di essere stronzi - e soprattutto perché così si può criticare un'amministrazione comunale che non piace (e che personalmente non mi sta neppure antipatica, anzi). Naturalmente in tanti - ovviamente in privato - hanno pensato che la polizia municipale abbia fatto bene a fare quello che ha fatto e che anzi avrebbe dovuto fare di più. A molti di quelli che in questi giorni hanno deplorato l'azione dei vigili - penso al pd e ai suoi fiancheggiatori - non frega nulla dei senzatetto - e infatti quando hanno governato non hanno fatto nulla per risolvere i loro problemi - ma serve a farsi belli a buon mercato, con una buona dose di ipocrisia. In sostanza le coperte della Pilotta sono diventate l'ennesima occasione offerta a una classe dirigente inadeguata per fare un po' di propaganda, lasciando sostanzialmente tutto come prima. Tanto prima o poi arriverà l'estate e quelle coperte non saranno più necessarie.
Quelle coperte sono davvero un'offesa per il decoro della nostra città. Quelle coperte offendono le nostre coscienze, le nostre convinzioni, le nostre sicurezze, perché ci ricordano che ci sono cittadini che la casa non ce l'hanno, non l'hanno mai avuta, l'hanno avuta e ora l'hanno perduta, non la possono avere. Lo scandalo non sono quelle coperte sporche abbandonate sotto i portici della Pilotta, ma le persone che tutte le notti hanno bisogno di quelle coperte. Nascondere quelle coperte in qualche magazzino del Comune - magari dicendo che rimangono a disposizione dei senzatetto, come un qualsiasi oggetto smarrito - non significa risolvere il problema dei senzatetto, che è grave, che coinvolge molte persone, italiane e straniere, vecchie e giovani, donne e uomini; spesso persone come me, come voi, persone che hanno avuto meno opportunità, che hanno avuto minor fortuna, persone che hanno fatto errori, a volte anche gravi. Solo nasconde il problema, lo mette sotto un'altra coperta, non meno indecorosa di quelle raccolte dalla polizia municipale.
Quelle coperte ci offendono perché ci chiedono cosa abbiamo fatto, ci interrogano sulle nostre responsabilità. Tanti di quelli che passano in Pilotta credono di non essere responsabili, magari si sentono perfino buoni perché hanno donato una di quelle coperte. E' colpa anche nostra, perché non ci arrabbiamo, o facciamo finta di arrabbiarci, perché pensiamo che il problema sia sempre un altro e che ci sia qualcun altro che se ne deve occupare. Invece è qualcosa di cui dovremmo occuparci noi. E non ospitando qualcuno di quei senzatetto, come ci provoca immediatamente uno di quei benpensanti non appena alziamo la voce, o organizzando uno di quei stucchevoli pranzi delle feste per i poveri, a beneficio dei fotografi dei giornali. La soluzione non è nella carità individuale, ma nella solidarietà civica.
Quelle coperte ci offendono perché ci chiedono cosa abbiamo fatto, ci interrogano sulle nostre responsabilità. Tanti di quelli che passano in Pilotta credono di non essere responsabili, magari si sentono perfino buoni perché hanno donato una di quelle coperte. E' colpa anche nostra, perché non ci arrabbiamo, o facciamo finta di arrabbiarci, perché pensiamo che il problema sia sempre un altro e che ci sia qualcun altro che se ne deve occupare. Invece è qualcosa di cui dovremmo occuparci noi. E non ospitando qualcuno di quei senzatetto, come ci provoca immediatamente uno di quei benpensanti non appena alziamo la voce, o organizzando uno di quei stucchevoli pranzi delle feste per i poveri, a beneficio dei fotografi dei giornali. La soluzione non è nella carità individuale, ma nella solidarietà civica.
Per quanto sia meritorio donare coperte a chi ne ha bisogno, non possiamo dire che questo sia sufficiente. Se critichiamo l'ipocrisia di chi non vuole che i senzatetto passino la notte sotto i portici della Pilotta, non possiamo neppure dire che ci accontentiamo di questa soluzione. Il meno peggio non smette mai di essere peggio e dobbiamo fare di tutto affinché nessuno sia costretto a dormire in strada. Lo scandalo vero è il numero di case vuote: a Parma, come in ogni altra città, ci sono centinaia di case disabitate, magari in rovina. Case spesso di proprietà pubblica, che lo stato non sa nemmeno di avere, e case lasciate così per gli interessi dei privati, che preferiscono lasciarle andare in malora piuttosto che affittarle a chi ne ha bisogno. Ci sono centinaia di case oggetto di speculazione, per far diventare ricco chi è già ricco. Lo scandalo è l'indifferenza, lo scandalo è l'avidità, lo scandalo è l'ipocrisia e non c'è una coperta abbastanza grande e spessa per nasconderle. Allora il nostro compito è sollevare questa coperta e buttarla in faccia, con tutto il suo marciume, a chi l'ha messa lì.
Mi pare un buon augurio per il prossimo anno.
Mi pare un buon augurio per il prossimo anno.
da "Il monopolio dell'uomo" di Anna Kuliscioff
Mi pare quindi, che solo col lavoro equamente retribuito, o retribuito almeno al pari dell'uomo, la donna farà il primo passo avanti ed il più, importante, perché soltanto col diventare economicamente indipendente, essa si sottrarrà al parassitismo morale, e potrà conquistare la sua libertà, la sua dignità ed il vero rispetto dell'altro sesso. Credo che soltanto allora le donne avranno la forza morale di non subire più le pressioni del padre, del marito, del fratello, e potranno creare anch'esse, in mezzo al loro sesso, quell'arme potente delle lotte sociali moderne, ch'è l’associazione, per conquistare poi con quest'arme i diritti civili e politici, che sono loro negati come agli uomini interdetti per imbecillità, per pazzia o per delinquenza.
Le leggi vigenti infliggono alla donna questa umiliazione atroce, perché non solo gli uomini, ma anche le donne stesse considerano la donna come un'eterna minorenne, ed essa non potrà mai diventare maggiorenne se non quando potrà bastare a se stessa colla propria intelligenza, le proprie capacità e le proprie forze morali.
In America c'è voluto un mezzo secolo di lavoro femminile nell'industria, nell'istruzione pubblica, nelle professioni libere, nessuna esclusa, perché le donne americane ottenessero, non il diritto al voto deliberativo, che si è ottenuto in uno solo degli Stati Uniti, ma soltanto il diritto al voto consultivo nei corpi politici, nelle commissioni legislative e nelle assemblee generali.
Non sono che sette anni che la legislatura del Kentuky sentiva due donne, la Benet e la Hoggart, patrocinare i diritti del loro sesso. Le donne avvocatesse di se medesime suscitarono, naturalmente, grande curiosità sia fra i deputati sia fra il pubblico accorso numerosissimo alla Camera. Gli scettici ed i maligni furono disarmati e vinti dall'eloquenza e dall'erudizione giuridica della Miss Hoggart; e lo stesso giorno fu presentato un bill, che conferiva alle donne il diritto all'amministrazione dei loro beni ed alle madri un'autorità sui figli eguale a quella del padre.
Questo fatto, che troverebbe in Francia, in Inghilterra ed altrove molti riscontri, che qui ometto per amore di brevità, non è che un esempio isolato inteso a dimostrare, come le leggi giuridiche sono la conseguenza di abitudini e costumi sociali, e non altro che la sanzione dei rapporti sociali già esistenti, allo stesso modo che le leggi cosmiche e biologiche non sono che la sintesi dei fenomeni osservati.
Non voglio però cadere nell'assoluto e non negherò che, se oggi, per una specie di miracolo, i legislatori uomini concedessero alle donne i diritti civili e politici, questo fatto eserciterebbe un'immensa influenza sul loro sviluppo intellettuale e morale, poiché è legge biologica che le funzioni nuove creano, a poco a poco, organi loro adatti. Fra le donne sarebbe avvenuto su per giù lo stesso fenomeno che si osserva nella gran massa degli operai, uomini poco atti ancora alla vita civile e politica. Eppure, dopo pochi anni di partecipazione diretta degli operai alla vita politica, vediamo come dal loro balbettare quasi infantile si sviluppano oratori poderosi, forniti di cognizioni serie e di studi profondi sulle questioni vitali che agitano la loro classe.
Ma ormai nessuna persona intelligente e di buon senso crede più ai miracoli; e le leggi vigenti, che riguardano le donne, subiranno la stessa evoluzione di tutte le altre leggi. Perché, direi colle parole dello Spencer, che "a misura che la cooperazione volontaria modifica sempre più il carattere del tipo sociale, il principio tacitamente ammesso dell'eguaglianza dei diritti per tutti diventa condizione fondamentale della legge."
Le donne, quindi, cooperando a titolo eguale degli uomini al lavoro sociale sotto qualsiasi aspetto, renderanno impossibili le leggi attuali, che le mettono in condizione d'inferiorità fra i minorenni e fra gli incapaci per imbecillità o pazzia quanto ai diritti politici, e assegnano loro un posto così inferiore in famiglia quanto ai diritti civili. Certo è che, finché la donna non potrà bastare a se stessa e per vivere dovrà dipendere dall'uomo, la legge, che la considera come proprietà del marito, dovendo la moglie seguirlo dovunque, rimarrà in tutto il suo vigore; e se quell'articolo, così oltraggioso alla dignità umana della donna, venisse anche abolito, quest'abolizione non rimarrebbe che lettera morta, data la dipendenza economica, in cui si trova la grande maggioranza delle donne.
Le leggi vigenti infliggono alla donna questa umiliazione atroce, perché non solo gli uomini, ma anche le donne stesse considerano la donna come un'eterna minorenne, ed essa non potrà mai diventare maggiorenne se non quando potrà bastare a se stessa colla propria intelligenza, le proprie capacità e le proprie forze morali.
In America c'è voluto un mezzo secolo di lavoro femminile nell'industria, nell'istruzione pubblica, nelle professioni libere, nessuna esclusa, perché le donne americane ottenessero, non il diritto al voto deliberativo, che si è ottenuto in uno solo degli Stati Uniti, ma soltanto il diritto al voto consultivo nei corpi politici, nelle commissioni legislative e nelle assemblee generali.
Non sono che sette anni che la legislatura del Kentuky sentiva due donne, la Benet e la Hoggart, patrocinare i diritti del loro sesso. Le donne avvocatesse di se medesime suscitarono, naturalmente, grande curiosità sia fra i deputati sia fra il pubblico accorso numerosissimo alla Camera. Gli scettici ed i maligni furono disarmati e vinti dall'eloquenza e dall'erudizione giuridica della Miss Hoggart; e lo stesso giorno fu presentato un bill, che conferiva alle donne il diritto all'amministrazione dei loro beni ed alle madri un'autorità sui figli eguale a quella del padre.
Questo fatto, che troverebbe in Francia, in Inghilterra ed altrove molti riscontri, che qui ometto per amore di brevità, non è che un esempio isolato inteso a dimostrare, come le leggi giuridiche sono la conseguenza di abitudini e costumi sociali, e non altro che la sanzione dei rapporti sociali già esistenti, allo stesso modo che le leggi cosmiche e biologiche non sono che la sintesi dei fenomeni osservati.
Non voglio però cadere nell'assoluto e non negherò che, se oggi, per una specie di miracolo, i legislatori uomini concedessero alle donne i diritti civili e politici, questo fatto eserciterebbe un'immensa influenza sul loro sviluppo intellettuale e morale, poiché è legge biologica che le funzioni nuove creano, a poco a poco, organi loro adatti. Fra le donne sarebbe avvenuto su per giù lo stesso fenomeno che si osserva nella gran massa degli operai, uomini poco atti ancora alla vita civile e politica. Eppure, dopo pochi anni di partecipazione diretta degli operai alla vita politica, vediamo come dal loro balbettare quasi infantile si sviluppano oratori poderosi, forniti di cognizioni serie e di studi profondi sulle questioni vitali che agitano la loro classe.
Ma ormai nessuna persona intelligente e di buon senso crede più ai miracoli; e le leggi vigenti, che riguardano le donne, subiranno la stessa evoluzione di tutte le altre leggi. Perché, direi colle parole dello Spencer, che "a misura che la cooperazione volontaria modifica sempre più il carattere del tipo sociale, il principio tacitamente ammesso dell'eguaglianza dei diritti per tutti diventa condizione fondamentale della legge."
Le donne, quindi, cooperando a titolo eguale degli uomini al lavoro sociale sotto qualsiasi aspetto, renderanno impossibili le leggi attuali, che le mettono in condizione d'inferiorità fra i minorenni e fra gli incapaci per imbecillità o pazzia quanto ai diritti politici, e assegnano loro un posto così inferiore in famiglia quanto ai diritti civili. Certo è che, finché la donna non potrà bastare a se stessa e per vivere dovrà dipendere dall'uomo, la legge, che la considera come proprietà del marito, dovendo la moglie seguirlo dovunque, rimarrà in tutto il suo vigore; e se quell'articolo, così oltraggioso alla dignità umana della donna, venisse anche abolito, quest'abolizione non rimarrebbe che lettera morta, data la dipendenza economica, in cui si trova la grande maggioranza delle donne.
mercoledì 23 dicembre 2015
Verba volant (235): mancia...
Mancia, sost. f.
All'indomani degli attentati di Parigi i padroni, soddisfatti, si sono fregati le mani: potevano approfittare della paura del terrorismo per fare nuovi affari alle spalle dei cittadini. E infatti tutti i governi europei hanno deciso di investire sulla sicurezza, aumentando gli stanziamenti per le armi e l'intelligence e naturalmente la Troika ha detto che queste spese sarebbero state ammesse, anche se al di fuori degli stretti vincoli imposti dalle regole di bilancio. Il nostro presidente del consiglio, emulo di Bertoldo, ha provato a fare il furbo. Dal momento che stava preparando la legge di bilancio ha infilato nelle spese per la sicurezza, ottenendo quindi il placet dei suoi controllori europei, un po' di soldi da distribuire agli elettori, in vista delle prossime amministrative - che non si presentano facilissime per il partito di regime - e soprattutto del referendum istituzionale, il passaggio su cui ha puntato tutto e su cui rischia di cadere. E su cui noi dobbiamo fare di tutto affinché cada.
Con un guizzo dei suoi ha detto che l'Italia avrebbe investito tanto in sicurezza quanto in cultura, un intento lodevole e su cui potremmo perfino essere d'accordo, se non fosse fatto con il solito renzi touch.
Per quello che riguarda la sicurezza la legge di bilancio prevede di estendere il contributo di 80 euro alle forze dell'ordine. Ovviamente questo provvedimento in sé va bene, pur ricordando che non si tratta di soldi in più dati ai lavoratori, ma di una detrazione fiscale, ossia di uno sconto sulle tasse che avrebbero comunque dovuto pagare. Nonostante questo, visto che a cavallo donato non si guarda in bocca, i colleghi delle forze dell'ordine ringraziano, dal momento che i loro stipendi sono piuttosto bassi. Il problema però non è quello, non è così che aumenta la sicurezza di questo paese, perché quelli che lavorano in questo delicato settore condividono con tutti noi dipendenti pubblici una serie di problemi che rendono difficile, se non impossibile, lavorare bene. C'è una cronica mancanza di risorse destinate agli strumenti con cui lavoriamo. Spesso ci si lamenta che le auto della polizia e dei carabinieri non possono uscire perché non ci sono i soldi della benzina, ma pensate anche alle dotazioni dei computer negli uffici pubblici: non è un tema indifferente in un'epoca in cui è indispensabile la velocità nello scambio delle informazioni. E poi c'è la farraginosità delle regole, l'inutile complicazione della burocrazia, la mancanza di formazione, c'è un sistema che non premia e valorizza la responsabilità, ma che anzi induce a non lavorare bene, a non prendersi responsabilità, perché rischi di pagarne le conseguenze. Chi lavora nel pubblico sa bene di cosa parlo. Non basta dare 80 euro in più a chi dovrebbe difenderci, occorre metterli nelle condizioni per farlo. E adesso queste condizioni non ci sono; e non ci saranno l'anno prossimo. Ma forse qualche poliziotto in più voterà per il partito di regime, e questo a loro basta.
Altrettanto curioso l'investimento del governo sulla cultura: anche in questo caso un bonus - 500 euro, non spiccioli - rivolto ai diciottenni, con cui potranno fare acquisti "culturali", ossia libri, biglietti per concerti, per musei, per spettacoli. Qui evidentemente la questione si fa spinosa: un libro di Fabio Volo o un concerto di Gigi D'Alessio sono cultura? Personalmente avrei qualche dubbio, ma credo sia sbagliato che ci sia qualcuno che decide cosa è e cosa non è cultura, anzi questo sarebbe un regime e quindi suppongo che i 500 euro saranno dedicati a quello che i nostri connazionali più giovani considerano piacevole, di moda. Francamente non so cosa avrei comprato quando avevo 18 anni, se avessi avuto una cifra analoga, ma immagino che non avrei comprato né la Recherche né i biglietti per l'opera né per una mostra d'arte. Immagino li avrei spesi un po' a caso - me li sarei sputtanati, come si dice a Bologna - come faranno i diciottenni il prossimo anno. Non è un giudizio di merito sui giovani di oggi che, anzi, io credo siano migliori e più intelligenti di come li raccontiamo e li immaginiamo noi vecchi, ma una semplice constatazione, di puro realismo.
Io credo che l'educazione sia importante, anzi sia la funzione più importante che deve svolgere uno stato, che la collettività deve finanziare e sostenere in ogni modo, e questa operazione non è assolutamente educativa. Tieni 500 euro e usali bene, dice il governo, e poi ricordati di noi quando dovrai votare, aggiunge sottovoce. E' un'operazione che serve a far crescere la società? No, al massimo fa crescere un po' i consumi, Fabio Volo e Gigi D'Alessio incasseranno un po' più di Siae, ma tutto lì. La cultura in una società cresce se si fanno investimenti sulla scuola, sulle biblioteche, sui musei, sugli strumenti della comunicazione, se si offrono opportunità ai giovani artisti, tutto quello che in questo paese sistematicamente non facciamo.
C'è poi un corollario a questa norma che è particolarmente interessante. Infatti questa operazione non è rivolta neppure a tutti i diciottenni, ma solo a quelli italiani e appartenenti all'Unione europea. Gli altri, anche se nati in Italia, anche se studenti in scuole italiane, non riceveranno i 500 euro. Poi dice che uno diventa terrorista; magari terroristi non lo diventeranno - perché sono intelligenti - ma un po' queste ragazze e questi ragazzi si incazzeranno per essere stati così platealmente discriminati rispetto ai loro coetanei, ai loro compagni di scuola, ai loro amici. Però è anche vero che loro non votano: cosa serve spendere questi soldi? Va bene la cultura, ma non possiamo fare beneficenza.
So che quelli del regime si arrabbiano quando diciamo che si tratta di mance elettorali, come le scarpe di Lauro. Ma del resto cosa dovremmo pensare?
E il resto? Mancia.
All'indomani degli attentati di Parigi i padroni, soddisfatti, si sono fregati le mani: potevano approfittare della paura del terrorismo per fare nuovi affari alle spalle dei cittadini. E infatti tutti i governi europei hanno deciso di investire sulla sicurezza, aumentando gli stanziamenti per le armi e l'intelligence e naturalmente la Troika ha detto che queste spese sarebbero state ammesse, anche se al di fuori degli stretti vincoli imposti dalle regole di bilancio. Il nostro presidente del consiglio, emulo di Bertoldo, ha provato a fare il furbo. Dal momento che stava preparando la legge di bilancio ha infilato nelle spese per la sicurezza, ottenendo quindi il placet dei suoi controllori europei, un po' di soldi da distribuire agli elettori, in vista delle prossime amministrative - che non si presentano facilissime per il partito di regime - e soprattutto del referendum istituzionale, il passaggio su cui ha puntato tutto e su cui rischia di cadere. E su cui noi dobbiamo fare di tutto affinché cada.
Con un guizzo dei suoi ha detto che l'Italia avrebbe investito tanto in sicurezza quanto in cultura, un intento lodevole e su cui potremmo perfino essere d'accordo, se non fosse fatto con il solito renzi touch.
Per quello che riguarda la sicurezza la legge di bilancio prevede di estendere il contributo di 80 euro alle forze dell'ordine. Ovviamente questo provvedimento in sé va bene, pur ricordando che non si tratta di soldi in più dati ai lavoratori, ma di una detrazione fiscale, ossia di uno sconto sulle tasse che avrebbero comunque dovuto pagare. Nonostante questo, visto che a cavallo donato non si guarda in bocca, i colleghi delle forze dell'ordine ringraziano, dal momento che i loro stipendi sono piuttosto bassi. Il problema però non è quello, non è così che aumenta la sicurezza di questo paese, perché quelli che lavorano in questo delicato settore condividono con tutti noi dipendenti pubblici una serie di problemi che rendono difficile, se non impossibile, lavorare bene. C'è una cronica mancanza di risorse destinate agli strumenti con cui lavoriamo. Spesso ci si lamenta che le auto della polizia e dei carabinieri non possono uscire perché non ci sono i soldi della benzina, ma pensate anche alle dotazioni dei computer negli uffici pubblici: non è un tema indifferente in un'epoca in cui è indispensabile la velocità nello scambio delle informazioni. E poi c'è la farraginosità delle regole, l'inutile complicazione della burocrazia, la mancanza di formazione, c'è un sistema che non premia e valorizza la responsabilità, ma che anzi induce a non lavorare bene, a non prendersi responsabilità, perché rischi di pagarne le conseguenze. Chi lavora nel pubblico sa bene di cosa parlo. Non basta dare 80 euro in più a chi dovrebbe difenderci, occorre metterli nelle condizioni per farlo. E adesso queste condizioni non ci sono; e non ci saranno l'anno prossimo. Ma forse qualche poliziotto in più voterà per il partito di regime, e questo a loro basta.
Altrettanto curioso l'investimento del governo sulla cultura: anche in questo caso un bonus - 500 euro, non spiccioli - rivolto ai diciottenni, con cui potranno fare acquisti "culturali", ossia libri, biglietti per concerti, per musei, per spettacoli. Qui evidentemente la questione si fa spinosa: un libro di Fabio Volo o un concerto di Gigi D'Alessio sono cultura? Personalmente avrei qualche dubbio, ma credo sia sbagliato che ci sia qualcuno che decide cosa è e cosa non è cultura, anzi questo sarebbe un regime e quindi suppongo che i 500 euro saranno dedicati a quello che i nostri connazionali più giovani considerano piacevole, di moda. Francamente non so cosa avrei comprato quando avevo 18 anni, se avessi avuto una cifra analoga, ma immagino che non avrei comprato né la Recherche né i biglietti per l'opera né per una mostra d'arte. Immagino li avrei spesi un po' a caso - me li sarei sputtanati, come si dice a Bologna - come faranno i diciottenni il prossimo anno. Non è un giudizio di merito sui giovani di oggi che, anzi, io credo siano migliori e più intelligenti di come li raccontiamo e li immaginiamo noi vecchi, ma una semplice constatazione, di puro realismo.
Io credo che l'educazione sia importante, anzi sia la funzione più importante che deve svolgere uno stato, che la collettività deve finanziare e sostenere in ogni modo, e questa operazione non è assolutamente educativa. Tieni 500 euro e usali bene, dice il governo, e poi ricordati di noi quando dovrai votare, aggiunge sottovoce. E' un'operazione che serve a far crescere la società? No, al massimo fa crescere un po' i consumi, Fabio Volo e Gigi D'Alessio incasseranno un po' più di Siae, ma tutto lì. La cultura in una società cresce se si fanno investimenti sulla scuola, sulle biblioteche, sui musei, sugli strumenti della comunicazione, se si offrono opportunità ai giovani artisti, tutto quello che in questo paese sistematicamente non facciamo.
C'è poi un corollario a questa norma che è particolarmente interessante. Infatti questa operazione non è rivolta neppure a tutti i diciottenni, ma solo a quelli italiani e appartenenti all'Unione europea. Gli altri, anche se nati in Italia, anche se studenti in scuole italiane, non riceveranno i 500 euro. Poi dice che uno diventa terrorista; magari terroristi non lo diventeranno - perché sono intelligenti - ma un po' queste ragazze e questi ragazzi si incazzeranno per essere stati così platealmente discriminati rispetto ai loro coetanei, ai loro compagni di scuola, ai loro amici. Però è anche vero che loro non votano: cosa serve spendere questi soldi? Va bene la cultura, ma non possiamo fare beneficenza.
So che quelli del regime si arrabbiano quando diciamo che si tratta di mance elettorali, come le scarpe di Lauro. Ma del resto cosa dovremmo pensare?
E il resto? Mancia.
Rapido 904, Grande galleria dell'Appennino, San Benedetto Val di Sambro, 23 dicembre 1984
Anna Maria Brandi, 26 anni
Giovanni Calabrò, 67 anni
Angela Calvanese in De Simone, 33 anni
Susanna Cavalli, 22 anni
Susanna Cavalli, 22 anni
Lucia Cerrato, 66 anni
Anna De Simone, 9 anni
Giovanni De Simone, 4 anni
Nicola De Simone, 40 anni
Pier Francesco Leoni, 23 anni
Luisella Matarazzo, 25 anni
Carmine Moccia, 30 anni
Valeria Moratello, 22 anni
Maria Luigia Morini, 45 anni
Federica Taglialatela, 12 anni
Gioacchino Taglialatela, 50 anni
Giovanni De Simone, 4 anni
Nicola De Simone, 40 anni
Pier Francesco Leoni, 23 anni
Luisella Matarazzo, 25 anni
Carmine Moccia, 30 anni
Valeria Moratello, 22 anni
Maria Luigia Morini, 45 anni
Federica Taglialatela, 12 anni
Gioacchino Taglialatela, 50 anni
Abramo Vastarella, 29 anni
lunedì 21 dicembre 2015
Verba volant (234): transizione...
Transizione, sost. f.
Immagino già la smorfia di alcuni dei miei venticinque lettori, i duri e puri, quelli senza se e senza ma: ecco il solito politicante - diranno - ecco che se ne viene fuori con una formula del politichese. Sì, voglio proprio tessere un elogio alla politica. Perché senza politica non c'è democrazia. E senza democrazia non c'è sinistra.
I compagni di Podemos oggi avrebbero potuto festeggiare. Si sono presentati per la prima volta alle elezioni e sono diventati la terza forza del paese, scardinando il bipolarismo su cui si è retta in questi decenni quella giovane democrazia. Oggi però Pablo Iglesias ha spiegato che non è il tempo di mostrare i muscoli, ma quello di ragionare, che non è il tempo della forza, ma quello della politica. Ha detto che dovranno discutere, che Podemos rifletterà, ma soprattutto ha detto che sarà necessario un compromesso, che non ha esitato a definire storico. Ha spiegato che Podemos farà di tutto affinché non nasca un governo del Ppe. Questo è un punto fermo, ma da qui in poi comincia la politica e ora la palla passa ai socialisti che dovranno decidere: o fare come il pd, coma la Spd, come i francesi e diventare un partito di centro moderato, pronto ad allearsi con Rajoy in nome delle "larghe intese" e dei valori del finanzcapitalismo, oppure scegliere di tornare a essere una grande forza di sinistra, una forza che è stata determinante per la transizione dalla dittatura fascista di Franco alla democrazia. Immagino che sarà per quel partito una scelta dilaniante, perché una parte ha già scelto di stare a destra, ma adesso i compagni del Psoe hanno un appuntamento con la storia. Io da sostenitore di Podemos, spero ovviamente che i socialisti scelgano bene, non commettano un errore che non solo farebbe nascere un pessimo governo in Spagna, ma condannerebbe la sinistra ad ancora lunghi anni di opposizione, sempre più difficili. Non ho molte speranze che vada effettivamente così, perché immagino che sia cominciato da parte delle forze del capitale un "corteggiamento" serrato, fatto di minacce e di blandizie, a cui sarà difficile resistere. Vedremo comunque cosa succederà, vigileremo.
Però i socialisti spagnoli non potranno usare l'alibi di non aver trovato una sponda. Iglesias oggi ha offerto la mano ai socialisti e, se loro la rifiuteranno, ne pagheranno le conseguenze.
La politica è responsabilità. Il pd fa oggettivamente schifo, ma fa anche così schifo perché il Movimento Cinque stelle non ha avuto la forza, l'intelligenza, l'astuzia, di proporsi come un interlocutore. Perché il M5s non è riuscito a fare, all'indomani delle elezioni, quello che ha fatto Podemos. Il M5s ha rinunciato alla politica e si è accontentato di rimirare i numeri del proprio strabiliante risultato elettorale. So che adesso si leveranno gli strali dei duri e puri della "mia" parte, che mi diranno che il M5s non è Podemos e mi diranno tutto il male possibile di Grillo, dei grilleschi, dei grillini. So tutto - per molti versi vi dò ragione - però, mentre da una parte e dall'altra prevalgono le teste di legno, in Italia renzi ha instaurato un regime. E, se non riusciremo a sconfiggerlo al referendum istituzionale dell'anno prossimo, sarà durissima farlo dopo.
Iglesias oggi ha messo in fila pochi punti: il rifiuto del governo del Ppe, il sostegno al referendum in Catalogna, una nuova legge elettorale proporzionale, l'indipendenza della giustizia, la difesa dei diritti sociali. E' molto? E' poco? E' quello che forse oggi è possibile ottenere. Altrimenti ci saranno nuove elezioni: una forza popolare non può aver paura delle elezioni. La sinistra italiana si è suicidata quando ha rinunciato alle elezioni, ad esempio nel novembre del 2011, quando si è piegata al colpo di stato di Napolitano e ha accettato la governabilità. Podemos per fortuna non sta facendo lo stesso errore.
Qualcosa evidentemente abbiamo da imparare dalla sinistra spagnola, dall'intelligenza politica dei suoi dirigenti e dei suoi militanti. Dobbiamo imparare a essere noi, a dire quello che vogliamo, ma dobbiamo anche imparare a discutere con quelli che non sono noi, ma che con noi possono fare un pezzo di strada. Podemos ha parlato al popolo della Spagna, ai poveri, a quelli che sono stati colpiti dalla crisi, ha offerto loro una speranza. Ci dovremmo ricordare come si fa, i nostri vecchi ce lo hanno pure insegnato. Come ci hanno insegnato fare politica. Noi lo abbiamo dimenticato, lo abbiamo voluto dimenticare, persi dietro a una falsa idea di modernità. Eppure è tutto lì, le idee, le proposte, perfino le parole. Vanno solo fatte riemergere. E potrebbe cominciare anche per noi la transizione.
Immagino già la smorfia di alcuni dei miei venticinque lettori, i duri e puri, quelli senza se e senza ma: ecco il solito politicante - diranno - ecco che se ne viene fuori con una formula del politichese. Sì, voglio proprio tessere un elogio alla politica. Perché senza politica non c'è democrazia. E senza democrazia non c'è sinistra.
I compagni di Podemos oggi avrebbero potuto festeggiare. Si sono presentati per la prima volta alle elezioni e sono diventati la terza forza del paese, scardinando il bipolarismo su cui si è retta in questi decenni quella giovane democrazia. Oggi però Pablo Iglesias ha spiegato che non è il tempo di mostrare i muscoli, ma quello di ragionare, che non è il tempo della forza, ma quello della politica. Ha detto che dovranno discutere, che Podemos rifletterà, ma soprattutto ha detto che sarà necessario un compromesso, che non ha esitato a definire storico. Ha spiegato che Podemos farà di tutto affinché non nasca un governo del Ppe. Questo è un punto fermo, ma da qui in poi comincia la politica e ora la palla passa ai socialisti che dovranno decidere: o fare come il pd, coma la Spd, come i francesi e diventare un partito di centro moderato, pronto ad allearsi con Rajoy in nome delle "larghe intese" e dei valori del finanzcapitalismo, oppure scegliere di tornare a essere una grande forza di sinistra, una forza che è stata determinante per la transizione dalla dittatura fascista di Franco alla democrazia. Immagino che sarà per quel partito una scelta dilaniante, perché una parte ha già scelto di stare a destra, ma adesso i compagni del Psoe hanno un appuntamento con la storia. Io da sostenitore di Podemos, spero ovviamente che i socialisti scelgano bene, non commettano un errore che non solo farebbe nascere un pessimo governo in Spagna, ma condannerebbe la sinistra ad ancora lunghi anni di opposizione, sempre più difficili. Non ho molte speranze che vada effettivamente così, perché immagino che sia cominciato da parte delle forze del capitale un "corteggiamento" serrato, fatto di minacce e di blandizie, a cui sarà difficile resistere. Vedremo comunque cosa succederà, vigileremo.
Però i socialisti spagnoli non potranno usare l'alibi di non aver trovato una sponda. Iglesias oggi ha offerto la mano ai socialisti e, se loro la rifiuteranno, ne pagheranno le conseguenze.
La politica è responsabilità. Il pd fa oggettivamente schifo, ma fa anche così schifo perché il Movimento Cinque stelle non ha avuto la forza, l'intelligenza, l'astuzia, di proporsi come un interlocutore. Perché il M5s non è riuscito a fare, all'indomani delle elezioni, quello che ha fatto Podemos. Il M5s ha rinunciato alla politica e si è accontentato di rimirare i numeri del proprio strabiliante risultato elettorale. So che adesso si leveranno gli strali dei duri e puri della "mia" parte, che mi diranno che il M5s non è Podemos e mi diranno tutto il male possibile di Grillo, dei grilleschi, dei grillini. So tutto - per molti versi vi dò ragione - però, mentre da una parte e dall'altra prevalgono le teste di legno, in Italia renzi ha instaurato un regime. E, se non riusciremo a sconfiggerlo al referendum istituzionale dell'anno prossimo, sarà durissima farlo dopo.
Iglesias oggi ha messo in fila pochi punti: il rifiuto del governo del Ppe, il sostegno al referendum in Catalogna, una nuova legge elettorale proporzionale, l'indipendenza della giustizia, la difesa dei diritti sociali. E' molto? E' poco? E' quello che forse oggi è possibile ottenere. Altrimenti ci saranno nuove elezioni: una forza popolare non può aver paura delle elezioni. La sinistra italiana si è suicidata quando ha rinunciato alle elezioni, ad esempio nel novembre del 2011, quando si è piegata al colpo di stato di Napolitano e ha accettato la governabilità. Podemos per fortuna non sta facendo lo stesso errore.
Qualcosa evidentemente abbiamo da imparare dalla sinistra spagnola, dall'intelligenza politica dei suoi dirigenti e dei suoi militanti. Dobbiamo imparare a essere noi, a dire quello che vogliamo, ma dobbiamo anche imparare a discutere con quelli che non sono noi, ma che con noi possono fare un pezzo di strada. Podemos ha parlato al popolo della Spagna, ai poveri, a quelli che sono stati colpiti dalla crisi, ha offerto loro una speranza. Ci dovremmo ricordare come si fa, i nostri vecchi ce lo hanno pure insegnato. Come ci hanno insegnato fare politica. Noi lo abbiamo dimenticato, lo abbiamo voluto dimenticare, persi dietro a una falsa idea di modernità. Eppure è tutto lì, le idee, le proposte, perfino le parole. Vanno solo fatte riemergere. E potrebbe cominciare anche per noi la transizione.
sabato 19 dicembre 2015
Verba volant (233): diga...
Diga, sost. f.
Della vicenda dei due fucilieri di marina accusati dal governo indiano di aver ucciso due pescatori di quel paese si è parlato a lungo; spesso a sproposito. Come è noto, quel fatto di cronaca è stato caricato di significati politici, internazionali e nazionali, che vanno molto al di là dell'episodio in sé e che non contribuiscono certo a risolverlo. Nessuno però ricorda - o vuole ricordare - il problema di fondo: quei due militari italiani non avrebbero dovuto stare su quella nave. Per quale ragione dei dipendenti pubblici - quindi pagati dalla collettività - dovevano difendere gli interessi - ovviamente leciti, ma privati - di un armatore? E' un interesse dello stato che quell'armatore possa continuare a trasportare delle merci? No, è un problema suo garantire la sicurezza delle proprie navi, così come è un suo diritto ottenere un guadagno adeguato da quel lavoro, anche particolarmente carico di rischi. Semplicemente il governo di allora decise di fare un favore, parecchio oneroso, agli armatori, facendosi carico della sicurezza delle loro navi, senza avere in cambio alcuna contropartita; almeno di natura lecita.
Dal momento che perseverare è diabolico, il governo renzi - che proprio un santo non è - ha deciso di continuare in questa pericolosa confusione di interessi, pubblici e privati. Dopo aver tentato per qualche settimana di resistere agli ordini, sempre più perentori, delle forze del capitale affinché anche l'Italia schierasse nuove truppe in Medio Oriente, come hanno fatto in maniera disciplinata tutti gli altri paesi europei, usando come scusa gli attacchi terroristici dei loro "amici" dell'Isis, renzi è stato costretto a cedere. Aveva perfino tentato di spacciare come lotta al terrorismo islamico le mance elettorali previste in occasione delle prossime amministrative e i finanziamenti a pioggia alle sagre degli amici degli amici, ma evidentemente qualcuno l'ha tirato per la giacca e l'ha costretto a mandare i soldati al fronte. E così, riscopertosi guerriero, assiso su una poltrona di Vespa, ha annunciato l'invio in Iraq di un contingente di 450 militari: a Mosul, vicino al fronte, là dove si combatte e si rischia davvero. Abbiamo poi saputo, quasi incidentalmente, che le truppe italiane nello specifico saranno schierate a protezione della diga della città curda e che proprio nei prossimi giorni cominceranno i lavori di un'azienda italiana, la Trevi di Cesena, per la manutenzione straordinaria di questa opera. In pratica le truppe italiane andranno a proteggere i cantieri della Trevi.
Naturalmente la propaganda del Minculpop ci ha spiegato che questi lavori sono indispensabili per garantire la sicurezza di quell'opera che, se cedesse, causerebbe enormi danni in tutta la regione circostante e molto più a valle, forse fino a Baghdad, scaricando un'incredibile quantità di acqua. A dire il vero qualcuno dice che questi non siano lavori di consolidamento - che non sarebbero strettamente necessari - ma interventi previsti per potenziare ulteriormente la diga e renderla quindi ancora più pericolosa. Personalmente guardo sempre con sospetto alla costruzione di queste grandi dighe nei paesi in via di sviluppo, i cui benefici sono evidentissimi per le aziende che le costruiscono - e per i politici che prendono tangenti per farle costruire - e quasi nulli per quei paesi. Anzi spesso la costruzione di queste dighe ha rappresentato la rovina per molti popoli che vivevano in quelle aree, costretti a lasciare le loro case e i loro terreni. E un danno ambientale incalcolabile. Ad esempio il governo turco ha utilizzato la costruzione delle dighe nel territorio dei curdi con il duplice scopo di togliere l'acqua ai paesi confinanti e di distruggere alcune città di quel popolo colonizzato.
La diga di Mosul fu fatta costruire all'inizio degli anni Ottanta da Saddam Hussein soprattutto in funzione anticurda, per "arabizzare" il nord di quel paese, e fu realizzata da aziende italiane e tedesche. Quella diga è considerata una delle più pericolose del mondo, non solo perché si trova in un teatro di guerra, ma soprattutto perché è estremamente fragile; una parte è costruita su un deposito di gesso, un minerale che si scioglie a contatto con l'acqua, e quindi richiede una manutenzione costante e costosa. Quella diga - che realisticamente sarebbe da smantellare e non da rendere più grande - è evidentemente la gallina dalla uova d'oro per le aziende occidentali che vogliono curarne la manutenzione.
E allora proviamo a capire se è nato prima l'uovo o la gallina; in questo caso non si tratta di un esercizio ozioso. Primo scenario. Se il governo italiano ha deciso di schierare le proprie truppe proprio a Mosul dopo aver saputo che la Trevi aveva ottenuto l'appalto per i lavori di manutenzione della diga, ha fatto a quell'azienda un notevole favore. Sicuramente quelli della Trevi avevano previsto di assumere un discreto numero di contractors - come si chiamano adesso i mercenari - per proteggere i propri beni e i propri lavoratori a Mosul e avevano fatto la loro offerta tenendo conto anche di questi costi per la sicurezza; ora quella spesa non serve più e quindi la Trevi vedrà aumentare di molto i propri utili, grazie al lavoro dei militari italiani, che paghiamo noi. Secondo scenario. Quelli della Trevi sapevano che il governo avrebbe schierato l'esercito a protezione dei loro cantieri e quindi non hanno tenuto conto dei costi per la sicurezza e in questo modo hanno potuto tenere più bassi i costi complessivi e ottenere un appalto che stavano cercando, senza successo, da tempo. Questo intervento, comunque sia andata, è un successo per l'azienda di Cesena che ci guadagnerà molti soldi, anche al netto delle tangenti che pagherà, a Baghdad e a Roma. A spese nostre.
Ricordiamocelo durante le cerimonie per commemorare il primo italiano caduto a Mosul o quando srotoleremo gli striscioni con la foto di un soldato rapito laggiù da quelli dell'Isis. Questa non è la nostra guerra, è la guerra di chi fa affari, è la guerra dei governi loro complici, è la guerra di chi sfrutta i popoli. E' la guerra di chi costruisce le dighe e di chi toglie l'acqua ai popoli e dei governi che li proteggono. E' la guerra dei signori contro di noi.
Della vicenda dei due fucilieri di marina accusati dal governo indiano di aver ucciso due pescatori di quel paese si è parlato a lungo; spesso a sproposito. Come è noto, quel fatto di cronaca è stato caricato di significati politici, internazionali e nazionali, che vanno molto al di là dell'episodio in sé e che non contribuiscono certo a risolverlo. Nessuno però ricorda - o vuole ricordare - il problema di fondo: quei due militari italiani non avrebbero dovuto stare su quella nave. Per quale ragione dei dipendenti pubblici - quindi pagati dalla collettività - dovevano difendere gli interessi - ovviamente leciti, ma privati - di un armatore? E' un interesse dello stato che quell'armatore possa continuare a trasportare delle merci? No, è un problema suo garantire la sicurezza delle proprie navi, così come è un suo diritto ottenere un guadagno adeguato da quel lavoro, anche particolarmente carico di rischi. Semplicemente il governo di allora decise di fare un favore, parecchio oneroso, agli armatori, facendosi carico della sicurezza delle loro navi, senza avere in cambio alcuna contropartita; almeno di natura lecita.
Dal momento che perseverare è diabolico, il governo renzi - che proprio un santo non è - ha deciso di continuare in questa pericolosa confusione di interessi, pubblici e privati. Dopo aver tentato per qualche settimana di resistere agli ordini, sempre più perentori, delle forze del capitale affinché anche l'Italia schierasse nuove truppe in Medio Oriente, come hanno fatto in maniera disciplinata tutti gli altri paesi europei, usando come scusa gli attacchi terroristici dei loro "amici" dell'Isis, renzi è stato costretto a cedere. Aveva perfino tentato di spacciare come lotta al terrorismo islamico le mance elettorali previste in occasione delle prossime amministrative e i finanziamenti a pioggia alle sagre degli amici degli amici, ma evidentemente qualcuno l'ha tirato per la giacca e l'ha costretto a mandare i soldati al fronte. E così, riscopertosi guerriero, assiso su una poltrona di Vespa, ha annunciato l'invio in Iraq di un contingente di 450 militari: a Mosul, vicino al fronte, là dove si combatte e si rischia davvero. Abbiamo poi saputo, quasi incidentalmente, che le truppe italiane nello specifico saranno schierate a protezione della diga della città curda e che proprio nei prossimi giorni cominceranno i lavori di un'azienda italiana, la Trevi di Cesena, per la manutenzione straordinaria di questa opera. In pratica le truppe italiane andranno a proteggere i cantieri della Trevi.
Naturalmente la propaganda del Minculpop ci ha spiegato che questi lavori sono indispensabili per garantire la sicurezza di quell'opera che, se cedesse, causerebbe enormi danni in tutta la regione circostante e molto più a valle, forse fino a Baghdad, scaricando un'incredibile quantità di acqua. A dire il vero qualcuno dice che questi non siano lavori di consolidamento - che non sarebbero strettamente necessari - ma interventi previsti per potenziare ulteriormente la diga e renderla quindi ancora più pericolosa. Personalmente guardo sempre con sospetto alla costruzione di queste grandi dighe nei paesi in via di sviluppo, i cui benefici sono evidentissimi per le aziende che le costruiscono - e per i politici che prendono tangenti per farle costruire - e quasi nulli per quei paesi. Anzi spesso la costruzione di queste dighe ha rappresentato la rovina per molti popoli che vivevano in quelle aree, costretti a lasciare le loro case e i loro terreni. E un danno ambientale incalcolabile. Ad esempio il governo turco ha utilizzato la costruzione delle dighe nel territorio dei curdi con il duplice scopo di togliere l'acqua ai paesi confinanti e di distruggere alcune città di quel popolo colonizzato.
La diga di Mosul fu fatta costruire all'inizio degli anni Ottanta da Saddam Hussein soprattutto in funzione anticurda, per "arabizzare" il nord di quel paese, e fu realizzata da aziende italiane e tedesche. Quella diga è considerata una delle più pericolose del mondo, non solo perché si trova in un teatro di guerra, ma soprattutto perché è estremamente fragile; una parte è costruita su un deposito di gesso, un minerale che si scioglie a contatto con l'acqua, e quindi richiede una manutenzione costante e costosa. Quella diga - che realisticamente sarebbe da smantellare e non da rendere più grande - è evidentemente la gallina dalla uova d'oro per le aziende occidentali che vogliono curarne la manutenzione.
E allora proviamo a capire se è nato prima l'uovo o la gallina; in questo caso non si tratta di un esercizio ozioso. Primo scenario. Se il governo italiano ha deciso di schierare le proprie truppe proprio a Mosul dopo aver saputo che la Trevi aveva ottenuto l'appalto per i lavori di manutenzione della diga, ha fatto a quell'azienda un notevole favore. Sicuramente quelli della Trevi avevano previsto di assumere un discreto numero di contractors - come si chiamano adesso i mercenari - per proteggere i propri beni e i propri lavoratori a Mosul e avevano fatto la loro offerta tenendo conto anche di questi costi per la sicurezza; ora quella spesa non serve più e quindi la Trevi vedrà aumentare di molto i propri utili, grazie al lavoro dei militari italiani, che paghiamo noi. Secondo scenario. Quelli della Trevi sapevano che il governo avrebbe schierato l'esercito a protezione dei loro cantieri e quindi non hanno tenuto conto dei costi per la sicurezza e in questo modo hanno potuto tenere più bassi i costi complessivi e ottenere un appalto che stavano cercando, senza successo, da tempo. Questo intervento, comunque sia andata, è un successo per l'azienda di Cesena che ci guadagnerà molti soldi, anche al netto delle tangenti che pagherà, a Baghdad e a Roma. A spese nostre.
Ricordiamocelo durante le cerimonie per commemorare il primo italiano caduto a Mosul o quando srotoleremo gli striscioni con la foto di un soldato rapito laggiù da quelli dell'Isis. Questa non è la nostra guerra, è la guerra di chi fa affari, è la guerra dei governi loro complici, è la guerra di chi sfrutta i popoli. E' la guerra di chi costruisce le dighe e di chi toglie l'acqua ai popoli e dei governi che li proteggono. E' la guerra dei signori contro di noi.
venerdì 18 dicembre 2015
Verba volant (232): nuovo...
Nuovo, agg.
Il vero - e forse unico - mito fondante del renzismo è stato apparire come una novità. In un paese vecchio, governato da vecchi e dai figli di quei vecchi, l'irruzione di questo branco di giovani, per quanto rumorosi, per quanto arroganti, per quanto inesperti - difetti che i vecchi sono comunque disposti a perdonare, quando si ricordano che loro stessi sono stati rumorosi, arroganti, inesperti - è stata vista da molti come qualcosa di salutare. Ed è un mito che funziona ancora, nonostante non siano più, oggettivamente, la novità del panorama politico italiano. Quelli della Leopolda - almeno delle prime Leopolde, visto che la spinta propulsiva di questa manifestazione pare affievolirsi con gli anni - non volevano essere solo giovani, o meglio non volevano solo apparire giovani. In fondo anche uno come Enrico Letta era giovane, ma non era certo nuovo, è uno dei tanti figli di... che ci sono in questo paese. E neppure Gianni Cuperlo è nuovo, pur essendo giovane, perché ha alle spalle una lunga storia di militanza, come molti di noi. Quelli della Leopolda dovevano essere - o almeno apparire - del tutto nuovi.
A dire la verità neppure matteo renzi era esattamente una novità, essendo entrato nella politica che conta con uno di quei sistemi che lui stesso, negli anni successivi, avrebbe poi tanto bistrattato. Il giovane di Rignano è diventato presidente della Provincia di Firenze perché così imponeva un accordo, biecamente spartitorio, che ha retto per molti anni tra gli eredi del Pci e quelli della Dc, almeno qui nelle cosiddette regioni rosse: quando si dovevano scegliere gli amministratori locali a noi toccavano i sindaci, perché i Comuni erano più importanti e noi eravamo più importanti - politicamente ed elettoralmente - e a loro toccavano le Province, perché quelle erano istituzioni con meno poteri. Dovevano accontentarsi e spesso si accontentavano. In sostanza quello designato a fare il presidente della Provincia doveva essere una figura meno popolare del sindaco, non doveva fargli ombra, e veniva controllato da un nostro vicepresidente, scelto tra i più bravi, proprio con questo scopo. Nonostante questo, renzi - che evidentemente non era uno che si accontentava - ha avuto l'indubbia capacità di liberarsi di questo marchio d'origine e di riuscire appunto a presentarsi come nuovo.
Giovani, carini e disoccupati è il titolo di un film uscito parecchi anni fa, quando io ero giovane. Probabilmente non era neppure un gran film, ma ebbe la capacità di raccontare con efficacia quella nostra generazione e infatti fu imitato, con esiti alterni, in molte occasioni. Quelli della Leopolda sono riusciti a presentarsi così: giovani, carini, disoccupati. E figli di NN, almeno politicamente. Oggettivamente Maria Elena Boschi è la renziana perfetta, quella che rappresenta meglio di tutti queste caratteristiche; Maria Elena è il simbolo del renzismo e per questo non può cadere, non può essere sfiduciata. E' giovane, è carina, oggi non è più disoccupata, perché a lei è stato affidato il compito più importante, quello di riformare la Costituzione. Un incarico che un tempo sarebbe toccato a un uomo, anzi a un uomo vecchio. I miei lettori con qualche anno in più ricorderanno certamente Aldo Bozzi, liberale, con la sua bella barba bianca, con i suoi toni pacati, a cui fu affidata la presidenza della prima commissione parlamentare, solo consultiva, incaricata di elaborare un progetto di revisione della seconda parte della Costituzione. La prima Repubblica aveva il viso, ancora risorgimentale, del senatore Bozzi, gesuitico e tardo, come lo zio di nonna Speranza; questa nostra, nuova, Repubblica invece ha il viso - e i tacchi - di Maria Elena Boschi.
Il giocattolo però si è rotto - o ha rischiato seriamente di rompersi - quando abbiamo scoperto che la caparbia Maria Elena non è la figlia di NN che ci hanno raccontato fino ad ora, ma è la figlia di suo padre e suo padre è un signore che negli anni si è creato una notevole posizione di potere nella sua città, fino a diventare - è ormai cosa nota - vicepresidente di Banca Etruria. Maria Elena non è nata sotto un cavolo, ma è la rappresentante di una famiglia che ha relazioni, contatti, interessi. Sinceramente a me importa poco capire se c'è stato o non c'è stato un qualche conflitto di interesse. Non mi sembra la cosa politicamente più rilevante. Questa vicenda, per molti versi drammatica, del fallimento di alcune banche locali ha svelato un bluff che noi da tempo denunciavamo. Questi saranno anche giovani, saranno anche carini, ma non sono affatto nuovi. Sono tutt'al più diversi da quelli che c'erano prima, ma non sono certo meno famelici, e sicuramente sono più pericolosi. Lo dimostra la riforma costituzionale che porta il nome della Boschi e che richiama in maniera inquietante quello di un altro aretino. Questi nuovi sono parte integrante di un potere che sta facendo di tutto - lecito e illecito - per difendersi e per rafforzarsi; anche usare i propri figli, facendo finta siano nuovi.
Il vero - e forse unico - mito fondante del renzismo è stato apparire come una novità. In un paese vecchio, governato da vecchi e dai figli di quei vecchi, l'irruzione di questo branco di giovani, per quanto rumorosi, per quanto arroganti, per quanto inesperti - difetti che i vecchi sono comunque disposti a perdonare, quando si ricordano che loro stessi sono stati rumorosi, arroganti, inesperti - è stata vista da molti come qualcosa di salutare. Ed è un mito che funziona ancora, nonostante non siano più, oggettivamente, la novità del panorama politico italiano. Quelli della Leopolda - almeno delle prime Leopolde, visto che la spinta propulsiva di questa manifestazione pare affievolirsi con gli anni - non volevano essere solo giovani, o meglio non volevano solo apparire giovani. In fondo anche uno come Enrico Letta era giovane, ma non era certo nuovo, è uno dei tanti figli di... che ci sono in questo paese. E neppure Gianni Cuperlo è nuovo, pur essendo giovane, perché ha alle spalle una lunga storia di militanza, come molti di noi. Quelli della Leopolda dovevano essere - o almeno apparire - del tutto nuovi.
A dire la verità neppure matteo renzi era esattamente una novità, essendo entrato nella politica che conta con uno di quei sistemi che lui stesso, negli anni successivi, avrebbe poi tanto bistrattato. Il giovane di Rignano è diventato presidente della Provincia di Firenze perché così imponeva un accordo, biecamente spartitorio, che ha retto per molti anni tra gli eredi del Pci e quelli della Dc, almeno qui nelle cosiddette regioni rosse: quando si dovevano scegliere gli amministratori locali a noi toccavano i sindaci, perché i Comuni erano più importanti e noi eravamo più importanti - politicamente ed elettoralmente - e a loro toccavano le Province, perché quelle erano istituzioni con meno poteri. Dovevano accontentarsi e spesso si accontentavano. In sostanza quello designato a fare il presidente della Provincia doveva essere una figura meno popolare del sindaco, non doveva fargli ombra, e veniva controllato da un nostro vicepresidente, scelto tra i più bravi, proprio con questo scopo. Nonostante questo, renzi - che evidentemente non era uno che si accontentava - ha avuto l'indubbia capacità di liberarsi di questo marchio d'origine e di riuscire appunto a presentarsi come nuovo.
Giovani, carini e disoccupati è il titolo di un film uscito parecchi anni fa, quando io ero giovane. Probabilmente non era neppure un gran film, ma ebbe la capacità di raccontare con efficacia quella nostra generazione e infatti fu imitato, con esiti alterni, in molte occasioni. Quelli della Leopolda sono riusciti a presentarsi così: giovani, carini, disoccupati. E figli di NN, almeno politicamente. Oggettivamente Maria Elena Boschi è la renziana perfetta, quella che rappresenta meglio di tutti queste caratteristiche; Maria Elena è il simbolo del renzismo e per questo non può cadere, non può essere sfiduciata. E' giovane, è carina, oggi non è più disoccupata, perché a lei è stato affidato il compito più importante, quello di riformare la Costituzione. Un incarico che un tempo sarebbe toccato a un uomo, anzi a un uomo vecchio. I miei lettori con qualche anno in più ricorderanno certamente Aldo Bozzi, liberale, con la sua bella barba bianca, con i suoi toni pacati, a cui fu affidata la presidenza della prima commissione parlamentare, solo consultiva, incaricata di elaborare un progetto di revisione della seconda parte della Costituzione. La prima Repubblica aveva il viso, ancora risorgimentale, del senatore Bozzi, gesuitico e tardo, come lo zio di nonna Speranza; questa nostra, nuova, Repubblica invece ha il viso - e i tacchi - di Maria Elena Boschi.
Il giocattolo però si è rotto - o ha rischiato seriamente di rompersi - quando abbiamo scoperto che la caparbia Maria Elena non è la figlia di NN che ci hanno raccontato fino ad ora, ma è la figlia di suo padre e suo padre è un signore che negli anni si è creato una notevole posizione di potere nella sua città, fino a diventare - è ormai cosa nota - vicepresidente di Banca Etruria. Maria Elena non è nata sotto un cavolo, ma è la rappresentante di una famiglia che ha relazioni, contatti, interessi. Sinceramente a me importa poco capire se c'è stato o non c'è stato un qualche conflitto di interesse. Non mi sembra la cosa politicamente più rilevante. Questa vicenda, per molti versi drammatica, del fallimento di alcune banche locali ha svelato un bluff che noi da tempo denunciavamo. Questi saranno anche giovani, saranno anche carini, ma non sono affatto nuovi. Sono tutt'al più diversi da quelli che c'erano prima, ma non sono certo meno famelici, e sicuramente sono più pericolosi. Lo dimostra la riforma costituzionale che porta il nome della Boschi e che richiama in maniera inquietante quello di un altro aretino. Questi nuovi sono parte integrante di un potere che sta facendo di tutto - lecito e illecito - per difendersi e per rafforzarsi; anche usare i propri figli, facendo finta siano nuovi.
martedì 15 dicembre 2015
da "L'ipotesi" di Guido Gozzano
Il Re di Tempeste era un tale
che diede col vivere scempio
un bel deplorevole esempio
d'infedeltà maritale,
che visse a bordo d'un yacht
toccando tra liete brigate
le spiagge più frequentate
dalle famose cocottes.
Già vecchio, rivolte le vele
al tetto un giorno lasciato,
fu accolto e fu perdonato
dalla consorte fedele...
Poteva trascorrere i suoi
ultimi giorni sereni,
contento degli ultimi beni
come si vive tra noi...
Ma né dolcezza di figlio,
né lagrime, né la pietà
del padre, né il debito amore
per la sua dolce metà
gli spensero dentro l'ardore
della speranza chimerica
e volse coi tardi compagni
cercando fortuna in America...
- Non si può vivere senza
danari, molti danari...
Considerate, miei cari
compagni, la vostra semenza!-
Vïaggïa vïaggïa viaggia
vïaggïa nel folle volo:
vedevano già scintillare
le stelle dell'altro polo...
Vïaggïa vïaggia vïaggïa
vïaggïa per l'alto mare:
si videro innanzi levare
un'alta montagna selvaggia...
Non era quel porto illusorio
la California o il Perù,
ma il monte del Pirgatorio
che trasse la nave all'in giù.
E il mare sovra la prora
si fu richiuso in eterno.
E Ulisse piombò nell'Inferno
dove ci resta tuttora...
lunedì 14 dicembre 2015
Verba volant (231): velo...

Quando entro in una chiesa, da turista, mi tolgo il cappello. Ovviamente non me lo impone la mia religione - visto che fortunatamente non ce l'ho - ma lo faccio sempre, senza pensare ai motivi, senza fare riflessioni socio-antropologiche. E' una forma di educazione, perché appunto sono stato educato così: entro in chiesa e mi tolgo il cappello, in maniera praticamente automatica. Come mia nonna - che invece era devota - si copriva il capo per assistere a una funzione, anche quando non è stato più obbligatorio.
Lo vorrei ricordare a chi non lo sa: il Codice Piano Benedettino del 1917 prescriveva alle donne di tenere il capo coperto in chiesa, soprattutto al momento della comunione. Questa norma è stata abolita con l'introduzione, nel 1983, del nuovo Codice di diritto canonico, anche se mia nonna - come ho detto - continuava a coprirsi la testa. Per curiosità fate un giro nei siti dei fondamentalisti cattolici: loro deplorano il fatto che le donne partecipino alla messa a capo scoperto, richiamandosi a san Paolo. Infatti l'apostolo di Tarso nella Prima lettera ai Corinzi, ben più celebre per il cosiddetto Inno alla carità, scrive:
Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l'uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L'uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell'uomo. E infatti non l'uomo deriva dalla donna, ma la donna dall'uomo; né l'uomo fu creato per la donna, ma la donna per l'uomo. Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli.Anche senza scomodare gli angeli, a cui credo importi assai poco di cosa noi abbiamo in testa, il velo per i fondamentalisti cattolici è un segno di sottomissione della donna. Proprio come per i fondamentalisti islamici. Evidentemente chi ha redatto il nuovo codice ha considerato queste parole dell'apostolo un po' meno importanti delle altre e ha eluso questo obbligo, perché non più al passo con i tempi: perfino la chiesa cattolica si accorge quando esagera e ci mette una pezza.
Nell'ufficio dove lavoro vengono molte donne straniere, alcune di loro portano il velo in modo che non si veda neppure una ciocca di capelli, altre lo portano, ma si vedono i capelli, altre non lo portano affatto. Capita di vedere insieme una madre con il velo e la figlia senza. Forse quella decisione racconta un conflitto in quella famiglia, tra quelle due donne, o semplicemente è il segno del tempo che passa, delle tradizioni che cambiano. Oppure quella madre non solo non ha rimproverato la figlia perché non porta più il velo, ma un po' la invidia e non ha il coraggio di fare altrettanto, magari per non entrare in conflitto con la propria madre. I tempi cambiano e le persone cambiano.
Probabilmente se noi la smettessimo con questa canea del velo, questo cambiamento sarebbe più naturale e più veloce. Leggo che il presidente di un'importante regione italiana, la più moderna, la più europea, per inseguire i voti dei fondamentalisti cattolici, ha vietato alle donne di entrare con il volto coperto negli ospedali e negli uffici pubblici. Ovviamente ha giustificato questo provvedimento, dicendo che serve per prevenire gli atti di terrorismo (e infatti il provvedimento include anche i passamontagna e i caschi integrali). Mente naturalmente, perché nessun terrorista se ne va in giro a capo coperto o con il turbante o magari con la scritta terrorista sulla schiena, come i calciatori. I terroristi si vestono come noi, si vestono come Salvini, come la Gelmini, come la Santanché - no, magari come la Santanché no, per non correre il rischio di essere arrestati per cattivo gusto. Quel provvedimento serve solo a dire che loro sono diversi da noi, perché noi giriamo negli uffici e negli ospedali a capo scoperto - a parte le suore (ma effettivamente una suora-kamikaze non si è mai vista) - mentre loro si ostinano a tenere il velo. E più noi lo proibiremo, più qualcuna di loro vorrà indossarlo, anche se avrebbe già smesso.
Allora facciamo una cosa davvero rivoluzionaria, alla faccia di Paolo e di Maometto (e anche di Maroni): lasciamo decidere alle donne. E lasciamo stare gli angeli.
Iscriviti a:
Post (Atom)