domenica 17 novembre 2019

Verba volant (727): affondare...

Affondare, v. intr.

Il mercante di Venezia è una storia in cui non c'è un "cattivo": è una cosa piuttosto rara perché questi personaggi sono molto utili per quelli che devono inventare delle storie. Nonostante questo Shakespeare è riuscito a scrivere una grande commedia che parla a noi, come parlava ai suoi contemporanei, e che continuerà a parlare alle donne e agli uomini che vivranno tra quattrocento anni - ammesso che questo pianeta ci sia ancora tra quattro secoli.
A dire la verità un "cattivo" in questa commedia c'è, è sempre in scena ed è ciò che fa muovere i personaggi: il denaro. E' il denaro che serve a Bassanio per poter diventare uno dei pretendenti di Porzia, è il denaro con cui Antonio dimostra il suo amore non corrisposto per l'amico, è il denaro che rende indispensabile un uomo altrimenti disprezzato come Shylock, è il denaro rubato con cui Jessica punisce il padre usuraio, è il denaro che diventa il terreno su cui si scontrano i due nemici Antonio e Shylock, è il denaro non restituito che vale una libbra di carne. Perché è il denaro a determinare i rapporti tra tutti i personaggi della commedia. E che li rende, di volta in volta, i "cattivi". E che rende così attuale questa storia, in un mondo come il nostro in cui i rapporti tra le persone sono definiti in maniera praticamente esclusiva dal denaro, da ciò che si possiede e da ciò che non si possiede, da ciò che si ostenta e da ciò che si desidera ostentare.
Ed è proprio il denaro a rendere ironicamente simili Antonio e Shylock. All'inizio della commedia il mercante guarda con superiorità, venata di razzismo, il parvenu a cui pure è costretto a ricorrere, ma poi, una volta caduto in disgrazia, perché le sue navi sembrano naufragate, diventa un uomo umiliato. Mentre Shylock, anche se è ricco, vive da povero, in qualche modo ostenta la propria finta povertà. E la fuga della figlia, che, a differenza di lui, è nata in un mondo in cui mostrare di essere ricchi è un valore, lo umilia. E così i due finiscono per diventare la stessa maschera. E quando Porzia, che non li conosce, arriva in tribunale, deve chiedere "Chi è l'ebreo?". Non c'è più una differenza di razza - che non c'è mai stata - ma la paura della povertà rende uguali questi due uomini per cui il denaro è così importante.
Per questo Il mercante di Venezia è prima di tutto una commedia sulla povertà, che tutti, senza distinzione di razza o religione, indistintamente temono. E che aleggia pericolosamente su ciascuno di loro.
Ed è una commedia sulla cupidigia, perché tutti vogliono il denaro. Per Shylock sua figlia è importante solo perché, morta la moglie, regge la casa. E una volta fuggita, non si preoccupa per lei, per quello che le potrebbe succedere, ma per i soldi che sta spendendo. Quando un amico lo informa che Jessica a Genova sta spendendo molto denaro, il padre dice
Morta vorrei vederla, qui, ai miei piedi,
coi gioielli agli orecchi!... In una bara,
e dentro i miei ducati!
Non c'è un "cattivo" neppure nella storia che vive oggi drammaticamente Venezia. Sarebbe bello se ci fosse: sconfitto il cattivo, avremmo salvato quella città. Invece è difficile immaginare che tra quattro secoli Venezia sia ancora lì. Forse sopravviverà soltanto la sua "brutta copia" che si trova a Las Vegas. Come nella commedia di Shakespeare, anche in quello che sta succedendo oggi nella città lagunare nessuno è davvero cattivo, perché lo siamo tutti, perché abbiamo accettato un mondo in cui il denaro è la pietra di paragone di ogni altro valore, è il fattore che determina le nostre vite.
E Venezia, come Jessica, è vittima della nostra cupidigia. Pensiamo a come ricavarne sempre nuovi ducati, e non pensiamo che un giorno potrebbe "fuggire". I mercanti di Venezia vendono la loro città, ma non se ne curano.
Antonio e Shylock - anche in questo ugualmente simili, nonostante non lo vogliano ammettere - saranno ugualmente colpevoli, quando alla fine la loro città affonderà.

mercoledì 13 novembre 2019

Verba volant (726): piuma...

Piuma, sost. f.

Ci sono questi tre maschi che, ciascuno in casa sua, aspettano una donna. Si tratta evidentemente per tutti e tre di un'occasione galante: forse è il primo appuntamento, forse si tratta di un'amante, certamente nessuna delle tre donne è la moglie o la fidanzata "ufficiale". Naturalmente cercano di preparare tutto al meglio: uno apparecchia il tavolo in giardino, uno si mette il papillon - ma siccome non sa fare il nodo, ha comprato un cravattino già fatto dai cinesi - uno ha addirittura messo le lucine di natale sul letto, come a dire "guarda che festa ti sto preparando". Quest'ultimo per sicurezza ha fatto anche una freccia per indicare dov'è il letto e, visto che pare abiti in un monolocale, bisogna dargli atto di essere abbastanza chiaro nelle sue intenzioni. A parte l'ovvio obiettivo con cui stanno facendo tutto questo, i nostri maschi hanno altri due punti in comune. Tutti e tre stanno cucinando; uso questo verbo in maniera un po' eufemistica, visto che stanno riscaldando una pizza surgelata. Non dico di cucinare qualcosa voi - comunque basta guardare un video di Benedetta Rossi per riuscire a tirare fuori una cosa commestibile - ma almeno potevate andare in rosticceria. Peraltro solo quello del giardino - che è il più vecchio e quindi il più ricco dei tre - ha due piatti. Le altre due malcapitate si devono accontentare di mezza pizza surgelata.
Ma siccome la mamma dei creativi è sempre incinta, l'altro tratto che accomuna questi tre maestri della seduzione è il fatto che cantano La donna è mobile. Immagino che il creativo - spero proprio non si tratti di una donna - ha fatto forse questo ragionamento: di questi tre si potrà dire che non sanno fare nulla in cucina, si potrà anche dire che sono taccagni, ma non si potrà certo dire che non sono uomini di mondo, conoscono perfino Verdi. 
E poi La donna è mobile è una canzone che tutti conoscono, perché ti entra immediatamente in testa, perché dopo che l'hai ascoltata, anche una sola volta, non puoi fare a meno di canticchiarla. Dal punto di vista pubblicitario funziona perché immediatamente associ la pizza a quel brano. Verdi lo sapeva benissimo - non che avrebbero usato la sua musica per vendere tristi pizze surgelate - ma che si trattava di una canzone facile da imparare. E infatti consegnò la pagina con lo spartito al direttore Gaetano Mares e al tenore Raffaele Mirate solo il giorno prima della messa in scena di Rigoletto, con l'ordine di non farla sentire a nessuno. Verdi sapeva che chiunque in teatro l'avesse ascoltata, immediatamente sarebbe uscito per le calli di Venezia fischiettando quel motivo, invece voleva che fosse una sorpresa per il pubblico che l'11 marzo 1851 assistette alla prima di quella sua opera.
Il Maestro Verdi con La donna è mobile scrive un brano molto orecchiabile, ma vuole scrivere anche qualcosa di assolutamente volgare. Quell'incauto pubblicitario chissà se ha ascoltato le parole della canzonaccia che ha voluto mettere in quello spot, per vendere due pizze surgelate in più. 
Verdi fa esordire il duca di Mantova con una ballata altrettanto volgare, Questa o quella per me pari sono. E' l'uomo che si vanta delle sue conquiste e per questo viene ammirato e invidiato dagli altri uomini che sono intorno a lui e anche corteggiato da troppe donne, che non si rendono conto di quanto sia pericoloso questo predatore, tanto più pericoloso, quanto più grande è il suo potere. E il duca nella sua città può tutto, può blandire, può minacciare, può stuprare, nessuna donna potrà mai accusarlo, anzi lo dovranno ringraziare per l'onore che ha fatto loro. 
Il duca di Mantova è un personaggio viscido, che usa il suo potere per ottenere le donne che desidera, che non conosce l'amore, perché è capace solo di possedere. E Verdi esprime il disprezzo per questo suo personaggio, il vero colpevole del suo dramma - un colpevole che non sarà punito - proprio facendogli cantare La donna è mobile in uno dei momenti più carichi di tensione dell'opera. E' l'inizio del terzo atto, il dramma di Gilda si è già compiuto: l'uomo che lei ama e da cui credeva di essere riamata, l'ha violentata e disonorata. Eppure lei lo ama ancora. Sa che il padre lo vuole far uccidere e si dispera per quell'uomo. Che intanto fa a comprarsi una donna - il duca è un maschio che ragiona così, le donne si comprano o si rubano - mentre va da Maddalena, canta appunto La donna è mobile.
Ma Verdi è un maestro del teatro e quelle note oscene torneranno. Siamo alla fine dell'opera, Rigoletto crede di aver compiuto la sua vendetta, davanti a lui c'è il sacco in cui pensa ci sia il cadavere del duca, ma all'improvviso si sente in lontananza una canzone, è quella canzone che Rigoletto ha già sentito tante volte, di cui ha riso, che probabilmente ha cantato anche lui insieme al suo padrone. Riconosce la voce e all'improvviso capisce di chi è il corpo in quel sacco, capisce che la maledizione si è compiuta. Gilda è morta, Rigoletto vive con il suo dolore indicibile, il duca canta, può continuare a cantare le sue canzoni da osteria, può continuare a comprare o a rubare le donne che desidera. 
Quindi sapete cosa dovrebbero fare quelle tre donne quando arrivano all'appuntamento? Tirare un bel ceffone a quei tre imbecilli che cantano La donna è mobile. E noi dovremo darne uno anche al creativo.

lunedì 11 novembre 2019

Storie (XIV). "Il motoscafo di Puccini..."

Motoscafo, sost. m.

Quanta gente stasera a teatro. Sono così emozionato, eppure non sono io che devo cantare e ballare su quel palcoscenico. La nostra Kathy sarà bravissima. Vorrei tanto che Nora fosse qui con me. E vorrei ci fossero anche i miei genitori. Se oggi nostra figlia può debuttare a Broadway, è anche grazie alle manie di due uomini che io non mai conosciuto.

Cornelius Willmore Heyes non ha mai voluto acquistare un'automobile. Mio padre ci ha sempre raccontato che lui era rimasto l'ultimo cocchiere ad aspettare con la carrozza davanti al Metropolitan. Tutti gli altri erano autisti, a bordo delle loro luccicanti automobili. Ma il signor Heyes non ne ha mai voluta una, anche se naturalmente avrebbe potuto permettersela: era uno degli uomini più ricchi di New York. Questa mania - una delle tante del signor Heyes - è stata la fortuna di mio padre. Nel suo villaggio in Lituania aveva sempre badato ai cavalli, era la cosa che sapeva fare meglio, però in America aveva dovuto adattarsi a mille altri lavori per tirare avanti. Ma quando un suo lontano parente, che era a New York da molti anni ed era il cuoco del signor Heyes, gli disse che il vecchio cocchiere era morto, mio padre capì subito che quella era la sua grande occasione. Si presentò a casa Heyes, disse quello che sapeva fare e ottenne quel lavoro. Viveva in una piccola casa in fondo al giardino, a fianco delle stalle e della rimessa delle due carrozze. Mio padre amava il giardino, gli alberi erano la cosa che gli mancava di più della Lituania. Prima di trasferirsi a Manhattan, nella grande casa del signor Heyes, era vissuto a Brooklyn in vecchi caseggiati, dove non c'erano alberi.
Mio padre ricordava bene quella sera del 1910, lavorava per il signor Heyes da appena un mese. Una settimana prima il maggiordomo gli aveva detto che per il 10 dicembre avrebbe dovuto preparare i cavalli e la carrozza più bella: il signor Heyes sarebbe andato all'opera. Quel maggiordomo era un vecchio irlandese che era a servizio della famiglia da moltissimi anni. Tra la servitù si diceva perfino da prima che nascesse il signor Cornelius, ma mio padre sapeva che era impossibile. Però doveva essere vero che era già a servizio quando il giovane Cornelius era tornato da Parigi, alla morte del padre. E tornò molto ricco e molto strano. Cominciò allora a chiudersi in casa, senza voler vedere nessuno, se non per sistemare i suoi affari. Non si era mai sposato, ma si diceva che avesse amato una ragazza francese.
Mio padre aveva imparato qual era la strada più veloce per arrivare al Metropolitan e quella sera c'era davvero una gran confusione in tutta Manhattan: tutt'intorno al teatro c'erano bandiere americane e italiane. C'era una grande attesa per quella nuova opera. Un poliziotto fece passare la carrozza del signor Heyes, che poteva fermarsi proprio a lato del teatro, sulla 65esima. Il signor Heyes era il donatore più munifico del Metropolitan e quando la carrozza si accostò al marciapiede, il direttore del teatro era già lì per salutarlo. L'autista dei Vanderbilt - che veniva da un villaggio a pochi chilometri da quello dov'era nato mio padre - gli disse che quella sera c'era la prima di un'opera di un'importante musicista italiano, e che l'aveva ambientata in America. E che per quello spettacolo era venuto apposta dall'Italia. Era già venuto a New York un paio d'anni prima, una sera era andato anche a cena dai suoi padroni. Era uno famoso, però non si ricordava come si chiamava, una cosa come Piccini, o Piccioni. Gli disse anche che quella sera cantava Caruso e che dirigeva l'orchestra Toscanini. Mio padre non conosceva nessuno di questi nomi.
Era davvero freddo quella sera e lo spettacolo fu molto lungo. Mio padre pensava che sarebbe stato bello stare dentro un'automobile, specialmente quando cominciò a piovigginare. Almeno gli autisti non si bagnavano e si proteggevano dal vento.
Il signor Heyes era felice quando tornò alla sua carrozza e anche mio padre era contento di tornare finalmente a casa.
Erano passati solo due giorni dalla sera dello spettacolo, quando il maggiordomo arrivò tutto agitato nell'alloggio di mio padre. Il signor Cornelius aveva accettato un invito a casa Vanderbilt. Erano passati più di vent'anni da quando il signor Heyes era andato a un ricevimento. La sera usciva solo per andare all'opera.
Quella sera c'era una sola carrozza nel giardino dei Vanderbilt. Nevicava e tutti gli autisti stavano nelle auto. Mio padre vedeva il fumo delle loro sigarette uscire dai finestrini. "Vuole una tazza di caffè?" Mio padre raccontava che si era addormentato sotto il suo mantello e all'improvviso si sentì fare questa domanda. Era una delle cameriere che portava qualcosa di caldo agli autisti in attesa. Carmela cominciò proprio con quel ragazzo biondo che sedeva a cassetta della carrozza del signor Heyes. Anche suo padre a Roma faceva il cocchiere, Carmela sapeva quanto lungo fosse aspettare così, al freddo.
L'attesa non fu molto lunga, il signor Heyes venne via presto: mio padre si accorse subito che era contento, perché volle salire a cassetta insieme a lui. Lo faceva ogni tanto quando aveva visto qualcosa di straordinario da raccontare. Il signor Heyes aveva finalmente incontrato Giacomo Puccini, solo per quello si era convinto ad accettare l'invito dei Vanderbilt, che si aspettavano che - come al solito - rifiutasse. Era riuscito a parlargli in francese, gli aveva espresso tutta la sua ammirazione e gli aveva chiesto una pagina di spartito firmata. Puccini gli era parso riluttante, ma gli disse che era disposto a pagare qualsiasi cifra per quella firma. E il maestro accettò. Mio padre ascoltava con attenzione quello che il signor Heyes gli stava raccontando, anche se per lui l'unica cosa importante di quella sera erano gli occhi neri di Carmela.
I giorni successivi la casa del signor Heyes era in subbuglio: uno dei prossimi pomeriggi l'artista italiano sarebbe venuto a prendere il tè. Non ricevevano una visita da anni. Mio padre fu incaricato di aiutare il giardiniere, un vecchio italiano che faceva quel lavoro da sempre, ma non riusciva più a svolgere i lavori pesanti. E la cura del giardino ne risentiva. Il maggiordomo dovette assumere per quei giorni del nuovo personale. A parte mio padre erano tutti vecchi e il lavoro da fare era tanto. Il signor Heyes accettò perfino che venisse impiegata qualche donna. Non voleva donne a servizio.
Il maggiordomo chiese aiuto al suo collega dei Vanderbilt e fu così che mio padre poté rivedere Carmela. "Hai mai visto un'opera di Puccini?" Mio padre le rispose che non era mai stato a vedere un'opera, andava ogni tanto agli spettacoli di varietà: un mese prima aveva visto un inglese con i baffetti davvero spassoso. "A me Puccini piace molto, racconta bellissime storie d'amore, anche se finiscono tutte male." Mio padre si stupì quando lei accettò di andare insieme a lui a uno spettacolo. Raccontava che si meravigliò perfino di essere riuscito a fargliela quella domanda.
Mio padre quel pomeriggio vide finalmente Giacomo Puccini. Prima di entrare in casa il maestro si fermò in giardino, osservò gli alberi, raccolse una foglia caduta, accarezzò una siepe. Mio padre pensò che anche a Puccini dovevano mancare gli alberi della sua terra. Il maestro si fermò poco, il tempo per un tè e per concludere l'affare per cui era venuto: la firma sulla pagina di uno spartito in cambio di tremila dollari, la somma necessaria per acquistare un potente motoscafo che Puccini aveva visto a New York e che voleva per andare a caccia sul lago vicino a casa sua. La mania per l'opera del signor Heyes e quella per la velocità del genio italiano si erano perfettamente accordate.
Fu il signor Heyes che scelse la pagina: il valzer di Musetta, dalla Bohème. Ovviamente non ha mai detto a nessuno perché proprio quella. Chissà se Puccini glielo chiese. Probabilmente no, stava già pensando al suo nuovo motoscafo.
Il signor Heyes è stato molto generoso nel suo testamento. Anche con il Metropolitan. Lasciò una bella somma a ciascuno del personale di servizio. A mio padre fece anche un dono di nozze: aveva visto che quella cameriera dei Vanderbilt continuava a visitare il suo giardino. Regalò loro la pagina firmata da Puccini. Con quei soldi mio padre ha avviato l'attività di auto di lusso a noleggio, in cui ho lavorato anch'io e che adesso gestisce mio figlio. Non abbiamo più l'ufficio a Manhattan, ormai fa tutto con il computer. E' stata nonna Carmela a decidere di vendere lo spartito per pagare a Kathy i corsi alla Juilliard. E adesso sta per debuttare a Broadway.

John, l'uomo accanto a me sta già piangendo. Speriamo lo spettacolo sia bello: a me Rent sembra un titolo così strano.

giovedì 7 novembre 2019

Verba volant (725): fanciulla...

Fanciulla, sost. f.

Sapete che io adoro raccontarvi vecchie storie sui musical, ma oggi voglio parlarvi di uno che è molto speciale: perché non è mai stato composto. A dire la verità il soggetto è stato scritto nei primi anni del Novecento: è una bella storia d'amore ambientata nel west al tempo della corsa all'oro. C'è tutto quello che serve per un ottimo musical: c'è la trama principale, ci sono le sottotrame, e poi c'è passione, c'è suspense, c'è emozione, c'è lo sceriffo che è il cattivo e c'è il bandito che alla fine è il buono, e c'è lei, la protagonista, bella, forte, che combatte per il suo amore, e poi c'è il lieto fine con i due innamorati che galoppano insieme al tramonto. E il west piace sempre: è un classico. La miglior dimostrazione che questo soggetto funziona l'ha data Cecil B. DeMille che nel 1915, basandosi su questo script, ha sceneggiato, montato, diretto e prodotto un film che è stato un successo di quell'anno. E Cecil è uno che di belle storie se ne intende: pensate a quella dove c'è l'eroe che per salvare il suo popolo in fuga con il suo bastone divide in due le acque del Mar Rosso. Quindi il soggetto c'è. Manca il libretto, o meglio ci sarebbe anche quello, ma è in italiano ed è un po' datato, a volte un po' troppo aulico: in fondo la poesia italiana dei primi anni del Novecento risente inevitabilmente o della retorica carducciana o dell'estro dannunziano. Comunque questo non sarebbe il problema maggiore: trovata l'idea e composta la musica, il libretto si scrive da sé. E c'è già anche la musica. Bellissima, coinvolgente, piena di emozioni. Indubbiamente un capolavoro. Ma non è stata scritta per Broadway, il pubblico che esce dallo spettacolo non si mette a canticchiare quelle arie come fa invece con le canzoni di Oklahoma!
Oh, what a beautiful mornin'
Oh, what a beautiful day
Intendiamoci: è musica moderna per i suoi tempi, molto moderna, e prepara tutta la musica "nuova" che ci sarà nel Novecento, ma non è ancora jazz. E' "solo" opera.
Luciano Berio conosce molto bene le opere di Giacomo Puccini. Lo apprezza proprio perché con la sua musica il compositore lucchese sperimenta nuove forme, nuovi colori, nuove armonie. Puccini è un musicista che vuole contaminare i suoni di tutti i continenti. Berio sa bene che Puccini è il maestro di tutto il Novecento e per questo ha deciso di comporre un musical partendo da uno dei suoi capolavori, La fanciulla del west. Purtroppo non ci riuscirà e a noi rimane il rammarico di immaginare cosa sarebbe potuto nascere dal lavoro comune di questi due grandi compositori, le cui musiche, così diverse, aprono e chiudono il Novecento.
Non potremo mai assistere a questo musical perché Berio non ha fatto in tempo, perché ha impiegato molto tempo prima di affrontare Puccini. Ha dovuto essere Berio fino in fondo, ha dovuto sperimentare moltissimo prima di affrontare questo "classico", in qualche modo è dovuto diventare lui stesso un "classico".
A più di settant'anni decide di scrivere il finale di Turandot, dimenticando quello composto da  Franco Alfano e tagliato con l'accetta da Arturo Toscanini. Berio riprende le pagine già scritte da Puccini, che si è portato dietro a Bruxelles e su cui ha continuato a lavorare fino alla morte, le arrangia per l'orchestra cercando di essere il più fedele possibile allo stile del maestro di Torre del lago, e aggiunge quello che manca, questa volta senza dimenticare di essere Berio, senza rinunciare al proprio stile, con tutte le sue asperità. Eppure quando ascolti il terzo atto dell'opera, dopo la morte di Liù, tu sai che non è più Puccini, e probabilmente non è neppure Berio, è semplicemente Turandot, è semplicemente grande musica. Ovviamente non c'è nulla di semplice, ma è qualcosa che ti arriva al cuore, perché quella storia ti parla, ti parla il sacrificio di Liù e ti parla il cambiamento della principessa che finalmente diventa donna.
Mi piace pensare che Berio con questo finale e con il progetto di far diventare un musical La fanciulla del west abbia voluto dirci proprio questo, che la musica è più forte di tutte le nostre categorie, di tutti i nostri generi, di tutte le nostre filosofie. E credo che Puccini sarebbe stato assolutamente d'accordo.

sabato 2 novembre 2019

Verba volant (724): favorito...

Favorito, agg. m.

Chi ha scritto My favorite things? John Coltrane, dirà qualcuno di voi, ricordando di aver ascoltato questo bellissimo pezzo suonato dal sassofono del geniale jazzista americano. Tranquilli, non siete gli unici ad aver fatto questo errore.
Molti pensano, sbagliando, che My favorite things sia una mia composizione; vorrei tanto averla scritta io, ma è di Rodgers e Hammerstein.
E' il 1960: nonostante il successo di Kind of blue, John decide di lasciare il gruppo di Miles Davis e fonda il proprio quartetto con McCoy Tyner al pianoforte, Steve Davis al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria. Ha voglia di esplorare le possibilità espressive del sax soprano e di esercitare il suo stile musicale su alcuni brani "classici", ormai diventati standard jazz. Ne sceglie due di Gershwin, But not for me e Summertime - su cui aveva già lavorato a lungo Davis con la sua tromba - uno di Cole Porter, Ev'ry time we say goodbye, e poi una canzone che l'anno precedente Rodgers e Hammerstein hanno scritto per il loro nuovo musical, The sound of music. Non è certo la canzone più famosa di quello spettacolo, ma a Coltrane piace molto ed è sicuro di riuscire a ricavarne quello che sta cercando. Ha ragione: My favorite things, quella traccia di quasi quattordici minuti in cui lui e Tyner intrecciano i loro assoli su una melodia apparentemente semplice, diventerà uno dei suoi brani più famosi. Lo interpreterà molte altre volte e ogni volta sarà sempre differente da quella prima storica registrazione. In un concerto a Tokyo del 1966 quel brano dura quasi un'ora.
Strano destino quello di questa canzone. Forse la conoscete anche come una canzone di natale, perché tanti artisti l'hanno inserita nei loro album natalizi, da Tony Bennett a Barbra Streisand. Anche se le prime a farne un classico delle feste sono state le Supremes nel 1965. Certo ci sono le campane e le slitte, la neve e le manopole di lana, i pacchetti, ma non è Natale, semplicemente siamo a Salisburgo; e infatti tra le cose preferite di questa giovane ragazza austriaca c'è la schnitzel. O magari avete sentito questa canzone nella versione dei Chicago oppure cantata da Björk nel finale di Dancer in the dark.
Poi naturalmente potete averla ascoltata nel film Tutti insieme appassionatamente, come è stato tradotto in Italia, in maniera davvero bizzarra, il titolo del film che nel 1965 è stato tratto dal musical. La musica è sempre quella di Richard Rodgers, ma le parole sono di Antonio Amurri, uno dei padri del varietà radiofonico e televisivo del nostro paese, insieme a Maurizio Jurgens e Dino Verde, con cui ha spesso lavorato. Amurri - che è anche un prolifico paroliere - abbandona il testo di Oscar Hammerstein II e lo riscrive completamente. Spariscono così le oche selvatiche che volano con la luna sulle ali, come gli inverni argentati che si sciolgono nella primavera. Nella versione italiana del film è Tina Centi a dare voce a Maria, cantando con grazia Le cose che piacciono a me. In quegli anni doppia anche le canzoni di My fair Lady e Mary Poppins: Tina Centi è una delle grandi voci "dimenticate" del cinema italiano, eppure è grazie a lei se ricordiamo alcune splendide canzoni della nostra infanzia. Per noi Julie Andrews avrà sempre la voce di Tina Centi.
Naturalmente potete aver sentito questa canzone nella versione più "classica", ossia quella interpretata da Julie Andrews per il film. In pochi mesi, tra il 1964 e il '65, con Mary Poppins e The sound of music, l'attrice diventa una delle più grandi star di Hollywood, un'icona della cultura del Novecento.
Ma arriviamo finalmente alla canzone per come è stata scritta - probabilmente la versione che davvero pochi di voi conoscono - ossia quella per il musical che ha debuttato il 16 novembre 1959 al Lunt-Fontanne theatre a Broadway, appena sessant'anni fa. E scopriamo, inaspettatamente, che si tratta di un duetto.
Le monache di Nonnberg non sanno proprio cosa fare con quella giovane postulante che ama tanto cantare e che si perde di continuo tra i monti intorno all'abbazia: forse non è pronta per la vita monastica, bisogna che stia per qualche tempo fuori da lì, nel mondo. La madre badessa dice a Maria che ormai la decisione è presa: sarà la nuova governante dei sette figli del capitano von Trapp, che è rimasto vedovo. A questo punto Maria naturalmente canta e - dopo tutto è un musical - insieme a lei canta anche la madre badessa; e cantano, una dopo l'altra, The favorite things. Nel film - come ricorderete - la canzone arriva un po' più avanti nella storia: Maria è già al lavoro, si è già conquistata l'affetto dei figli del capitano, quando una notte scoppia un violento temporale e la giovane canta questa canzone per tranquillizzarli. Ormai gran parte delle produzioni teatrali accettano questa versione e The favorite things viene cantata dalla sola Maria a questo punto della storia.
A Broadway le due interpreti del brano sono Mary Martin e Patricia Neway - rispettivamente nei ruoli di Maria e della madre badessa. Martin è una delle grandi regine di Broadway: dopo una lunghissima gavetta e tantissimi provini - da cui il soprannome Audition Mary - viene finalmente notata da Hammerstein. E' l'inizio di una brillante carriera, in pochi anni è la protagonista di tre grandi musical: South Pacific, Peter Pan e appunto The sound of music, per ciascuno dei quali vince il Tony. Mary Martin rimarrà sempre una grande interprete teatrale, Hollywood non la riconoscerà mai come una possibile star. Per questo rischiamo di dimenticarla, nonostante i suoi grandi successi e la sua splendida voce.
Come non conosciamo il nome di Patricia Neway, una delle maggiori soprano statunitense, che nella sua carriera ha alternato continuamente - e con successo - i ruoli nel musical con quelli nell'opera, in un periodo particolarmente felice per il teatro negli Stati Uniti. Nel 1946 debutta come Fiordiligi in Così fan tutte di Mozart e due anni dopo è nel coro femminile della prima di The rape of Lucretia di Benjamin Britten. Nel 1950 è la protagonista femminile dell'opera di Gian Carlo Menotti Il console, poi la Madre nei Sei personaggi in cerca di un autore di Hugo Weisgall - dalla commedia di Pirandello - e ancora Santuzza nella Cavalleria rusticana di Mascagni, Marie nel Wozzeck di Alban Berg, Erodiade nella Salomé di Richard Strauss. A Parigi è la protagonista della Tosca di Puccini, ma in America continua a interpretare le opere di autori suoi contemporanei come Samuel Barber, Lee Hoiby, Carlisle Floyd. E nel 1960 per il suo ruolo in The sound of music ottiene meritatamente il Tony. E' di sei anni più giovane di Mary Martin, ma la sua interpretazione e la sua voce si impongono. Naturalmente per il film è troppo giovane: la madre badessa sarà Peggy Wood, un'attrice di grande tradizione.
Patricia Neway nel corso di tutta la sua carriera, accetta molti ruoli in opere "moderne", dando quindi un grande contributo al rinnovamento di questo genere nel teatro statunitense - perché, a differenza di quello che credono molte cariatidi qui in Italia, ci sono anche opere "moderne" - e in tutti i suoi ruoli riesce sempre a tenere insieme una grande capacità interpretativa alle indubbie doti canore. In rete potete trovare alcune sue interpretazioni - specialmente televisive - che meritano di essere viste.
Rileggendo quello che ho scritto fino adesso, mi sembra proprio di aver raccontato diverse cose che piacciono a me: le variazioni modali di John Coltrane, la bella televisione di Amurri e Verde, l'incantevole eleganza di Julie Andrews, le canzoni di Mary Poppins cantate da Tina Centi e Oreste Lionello, la possibilità di raccontare in tanti modi le commedie di Luigi Pirandello, le belle opere liriche, di tutte le epoche, la voce appassionata di Patricia Neway, e naturalmente la luna sulle ali della oche selvatiche.

martedì 29 ottobre 2019

Verba volant (723) teatro...

Teatro, sost. m.

C'è questa compagnia teatrale che sta per cominciare la prova del secondo atto della commedia Il gioco delle parti. Il primo attore non ne vuol sapere di stare in scena con un cappello da cuoco mentre sbatte le uova, ma d'altra parte - si lamenta l'adirato capocomico - cosa possono farci, dalla Francia non arriva più nulla di buono, ci siamo ridotti a mettere in inscena commedie di Pirandello. Come avrete capito quella prova non si svolgerà, interrotta dall'arrivo di sei personaggi in cerca di un autore. Non è solo il gioco letterario del grande drammaturgo siciliano, che prende in giro le astruserie delle sue commedie, quel testo esiste davvero, è stato rappresentato un paio d'anni prima dalla compagnia di Ruggero Ruggeri. Per molti il solito verboso Pirandello, la solita commedia in cui gli attori parlano, parlano, parlano, ma gli spettatori non ci capiscono nulla.
Immagino che il drammaturgo non abbia letto la critica apparsa sull'edizione torinese dell'Avanti! il 6 febbraio 1919, a seguito della rappresentazione al teatro Carignano di questa sua commedia:
Il giuoco vi è diventato meccanismo esteriore di dialogo, puro sforzo letterario di verbalismo pseudofilosofico. L'incomprensione reciproca delle marionette sceniche si è proiettata nel teatro: pieno dominio di monadi senza porte e senza finestre, incomunicabili e incoercibili: l'autore, i personaggi e il pubblico.
Il giovane critico del giornale socialista non ama le commedie di Pirandello: ne ha recensite più di una decina, ma l'unica che l'ha davvero convinto è stata Liolà, per la sua forza da dramma satiresco. E infatti questa commedia viene ritirata dal programma del teatro Alfieri solo dopo due repliche, a seguito delle rumorose proteste di gruppi organizzati di giovani cattolici, sostenuti da alcuni giornali della stessa parte.
Certo Luigi Pirandello non si cura dei giudizi che vengono espressi su quel "fogliaccio" bolscevico da Antonio Gramsci. I due più grandi intellettuali italiani della prima metà del Novecento non sono destinati a conoscersi, né ovviamente a capirsi. Eppure entrambi credono molto nel teatro. Pirandello affida al teatro le sue riflessioni in un gioco di specchi, che raggiunge il proprio culmine nella trilogia del teatro nel teatro. Ma Gramsci non riuscirà a recensire i Sei personaggi: nel 1921 è impegnato a fare delle altre cose. Ha lasciato il posto di critico letterario del giornale a Piero Gobetti. Il politico sardo ha deciso di dedicarsi con impegno alla critica teatrale non solo perché personalmente ama questo genere, ma perché è convinto del suo valore sociale, perché il teatro parla alla collettività e non all'individuo, perché l'opera teatrale è capace di offrire
una rappresentazione viva e sicura di individualità umane che soffrono, gioiscono, lottano per superare continuamente se stesse, per migliorare continuamente la tempra morale della propria personalità storica, attuale, immersa nella vita del mondo.
Certo Gramsci è un intellettuale marxista e nelle sue critiche questo pesa, anche se non sarà mai una fonte di pregiudizio. Pirandello racconta un mondo borghese che non potrebbe essere più lontano da lui. Nessuno dei personaggi del Gioco delle parti ha bisogno di lavorare per vivere, sono borghesi che vivono di rendita, il cui unico impegno pare quello di "gestire" la propria rispettabilità, magari attraverso il rito del duello. Nelle settimane in cui sta per scoppiare il biennio rosso chissà che effetto ha fatto a Gramsci vedere in scena un ricco che cucina per hobby, senza averne bisogno, perché verosimilmente mangerà quello che gli ha preparato il cameriere. Per Gramsci Pirandello racconta un mondo inutile, che la rivoluzione dovrà presto spazzare via, non c'è nessun insegnamento possibile per il popolo da queste commedie.
Dal suo punto di vista Gramsci ha probabilmente ragione e certamente Pirandello non lotta sulla sua stessa barricata, ma forse il filosofo avrebbe dovuto fare uno sforzo in più per capire che quelle commedie raccontano un mondo ormai finito, svuotato, come i gusci d'uovo di cui Leone Gala parla continuamente nella commedia. Nessuno come Pirandello ha la forza di denunciare la crisi e la morte di quel mondo, a cui pure egli appartiene. Ma Gramsci questo non riesce a sentirlo: quelle di Pirandello sono solo parole, che non servono, che non educano. Non è così ovviamente, ma non possiamo pretendere che un uomo come Gramsci riconosca il valore positivo dell'apparente indifferenza di Leone Gala.
Qualche mese prima, l'11 giugno 1918, Gramsci recensisce la rivista satirica Arsenalaide, messa in scena dagli operai dell'Arsenale della città piemontese. Ecco uno spettacolo che gli è piaciuto.
I lavoratori di una maestranza si sono trovati insieme per un fine che non era solo utilitario. Hanno riso insieme. Vi par piccola cosa? È più facile piangere e lamentarsi insieme, che gioire: il riso è esclusività per sua natura, e perciò quando scoppia spontaneo da una società, che non fa di esso il suo scopo, indica un grado superiore raggiunto nella comunione degli spiriti. Hanno sentito questi operai, nella loro collettività, una capacità nuova: la capacità di creare, di istruirsi con le proprie forze, con i mezzi dati da loro stessi. Hanno sentito la propria "intelligenza", il proprio "gusto". Perciò specialmente piace l'iniziativa degli operai dell'Arsenale. Essa indica un alto grado di progresso raggiunto attraverso l'organizzazione. Indica che necessariamente l'organizzazione come forma nuova di civiltà dà luogo, nella sua evoluzione, a tutte le manifestazioni della vita di relazione degli uomini. La cultura e l'arte finiscono col trovare anch'esse il loro posto nell'attività proletaria, non come esteriore dono della società già esistente, ma come energia vitale del proletariato stesso, come sua attività specifica. Si presentano grezze e confuse all'inizio, ma attraverso l'esperienza si affinano e chiariscono.
Probabilmente a Pirandello questo spettacolo non sarebbe piaciuto, ma forse quell'idea che ridere insieme è importante, che è più facile piangere che gioire l'avrebbe potuta sottoscrivere.
E comunque, anche nello scrivere di questo spettacolo frutto dell'impegno di un gruppo di lavoratori, Gramsci non dimentica che il teatro è anche il lavoro di chi scrive, di chi mette in scena, di chi recita. Perché l'aspetto sociale del teatro non nasce solo da un fattore ideologico o dalla sua capacità di essere uno strumento formativo, ma dalla capacità di qualsiasi prodotto artistico di portare bellezza nel mondo.
Gramsci fa politica anche quando fa il critico teatrale: e non potrebbe essere altrimenti. Perché affronta il teatro non solo per quello che è, ma anche per quello che può diventare. Perché per lui il teatro ha valore politico, ovviamente non in un senso volgarmente propagandistico, ma nel suo essere motore di conoscenza, di trasmissione di valori, nel suo essere uno degli strumenti che servono alle donne e agli uomini a crescere, a pensare. Qualcosa che il teatro - tutto il teatro, anche quello borghese che Gramsci non amava - riesce ancora a fare.

giovedì 24 ottobre 2019

Verba volant (722): umanità...

Umanità, sost. f.

Werner Jaeger, uno dei più importanti filologi e studiosi del pensiero antico del ventesimo secolo, per definire il popolo greco inventa l'aggettivo antropoplasta, perché - egli dice - gli altri popoli hanno creato gli dei, i re, gli spiriti, solo i Greci hanno creato gli uomini. Non c'è un ambito della vita greca in cui non sia al centro l'uomo. Le divinità greche sono uomini e donne non solo nell'aspetto - in fondo anche il dio di Michelangelo della Sistina è rappresentato come un uomo - ma soprattutto per come agiscono, per le loro passioni, per le loro grandezze e le loro meschinità. Nella scultura e - per quanto è possibile ricostruire - anche nella pittura di quel popolo l'elemento centrale è quasi dall'inizio la rappresentazione della figura umana, fin quasi ossessiva nella ricerca di un'ideale perfezione. La poesia greca comincia con due lunghi poemi - derivati da una più antica tradizione orale - in cui al centro ci sono due grandi caratteri: Achille e Odisseo. La filosofia greca si concentra sull'uomo, lo studia in maniera sistematica. E l'uomo è al centro della vita politica delle città, in tutti i suoi aspetti, compreso - rilevantissimo - quello della produzione culturale, che ha dato vita al teatro tragico e comico. Dice ancora Jaeger - un'ardita idea creatrice, che non poteva maturare se non nella mente di quel popolo di artisti e di pensatori. L'opera d'arte suprema, di cui si trovò assegnata la realizzazione, fu per esso l'uomo vivente. Jaeger scrive queste parole nel 1932, in uno dei suoi saggi più famosi, intitolato Paideia. Due anni dopo sarà costretto a lasciare la cattedra di letteratura greca all'università di Berlino e il suo paese: sua moglie è ebrea, le sue idee sono apertamente in contrasto con quelle del nazismo. Perché l'umanità può diventare davvero terribile.
Per un paradosso linguistico il popolo che ha creato l'uomo non ha una parola che indichi l'umanità. Ci dovranno pensare i romani a inventare il termine humanitas, perché l'uomo greco vive nella concretezza. I greci non riflettono sull'uomo, sull'idea di uomo, sul sé. Su tutto questo nei secoli successivi altri popoli avrebbero cominciato a riflettere. I greci pensano sempre agli uomini. E comunque anche quando pensano all'uomo, all'idea di uomo, al sé, si concentrano sempre sugli uomini nella loro singolarità e nella loro unicità. I greci inventano non solo l'uomo, ma soprattutto la condizione umana.
Ma chi sono questi uomini che i greci hanno creato? Sono prima di tutto, come dice Omero e poi come dicono tutti gli altri dopo di lui, i βροτοὶ - brotoi - ossia i mortali, in contrapposizione con gli dei, che ovviamente sono immortali. Ma gli dei sono anche beati, in opposizione agli uomini che sono per definizione i δειλοί - deiloi - gli infelici.
Nell'Iliade il momento in cui Omero parla più esplicitamente degli uomini è quando Zeus, rivolgendosi ai cavalli immortali di Achille, dice loro
Miseri, perché mai vi demmo al sovrano Pelèo
mortale, voi che siete immuni da morte e vecchiezza:
forse perché dobbiate soffrir fra gli umani infelici?
Perché davvero, nulla più misero esiste dell'uomo,
fra quanti esseri sopra la terra hanno vita e respiro.
Il greco ha un'altra parola molto antica per indicare gli uomini, μέροπες - meropes - che ha anch'essa il significato di mortali. E' un termine che ha un valore mitologico, perché ci sono miti antichissimi che raccontano che il primo uomo, nato dalla terra, si chiamava appunto Merops, e che la sua sposa era Klymene, che è un appellativo con cui è conosciuta Persefone, la regina degli inferi. Perché l'umanità è sempre collegata alla morte. In un modo misterioso è proprio la terra primigenia che unisce dei e uomini, da lei, madre comune, sono nati mortali e immortali. Come gli animali, che, con una certa ironia, i greci chiamano ζῷα - zoa - ossia i viventi. Gli animali sono i vivi, mentre gli uomini sono i mortali.
Racconta la tradizione che sulla facciata del tempio di Apollo a Delfi, uno dei luoghi di culto più sacri di tutto il mondo greco, dove gli uomini aspettavano gli oracoli della divinità, ci fossero incise le parole γνῶθι σαυτόν - gnothi sauton - che significa conosci te stesso. Francamente un messaggio un po' troppo banale per un luogo così sacro. Forse erano sottintese queste due parole: ἄνϑρωπον ὄντα - anthropon onta - ossia conosci te stesso, che sei un uomo. Conosci che sei mortale e infelice.
Una prospettiva non esattamente esaltante. A cui i greci decidono di resistere attraverso una forma di solidarietà con i propri simili, gli altri la cui caratteristica distintiva è appunto quella di essere mortali e infelici. A cui resistono creando l'uomo.

martedì 22 ottobre 2019

Verba volant (721): potere...

Potere, sost. m.

E se Verdi per il finale del terzo atto di Nabucco avesse scritto un coro "normale"? Poteva succedere, i versi di Temistocle Solera non sono proprio indimenticabili, bastava che il Maestro componesse un coro come ne aveva già fatti - e come ne avrebbe poi fatti tanti - e non quella "cavolata", come diceva Rossini, in cui tutti, dai tenori ai bassi, cantano la stessa nota. E comunque Nabucco è piaciuto molto al pubblico della Scala e di tutti i grandi teatri italiani a metà dell'Ottocento - ma a Parigi è stato un fiasco - non perché c'era il Va, pensiero, e infatti - al di là dei racconti di chi non c'era - in quegli spettacoli non ne hanno mai chiesto il bis, come facciamo invece noi moderni, che quando assistiamo a Nabucco, aspettiamo frementi quel coro e pretendiamo di riascoltarlo. Perché intanto Va, pensiero è diventato non solo quel capolavoro musicale che indubbiamente è, ma il coro più famoso del mondo, perché intanto è diventato una leggenda. E' successo già durante la vita del Maestro, che peraltro - da comunicatore scaltro com'era - ha saputa alimentarla. Va, pensiero è la musica giusta arrivata al momento giusto. Come Imagine di John Lennon e altri pochissimi brani che condividono questa assoluta perfezione di essere la musica che il mondo stava aspettando.
Proviamo allora a parlare di Nabucco, immaginando che sul finale del terzo atto ci sia un coro "normale". Che storia ci racconta quel gran teatrante di Verdi? E' la storia del personaggio che dà il titolo all'opera, il re degli assiri che a scuola abbiamo imparato a conoscere come Nabucodonosor II, la storia di un re potente e spietato che, a causa della sua sfrenata ambizione, smarrisce la ragione e per questo finisce per perdere ciò a cui tiene di più, ossia il potere, perché nella storia c'è un altro personaggio, sua figlia Abigaille, che è ancora più ambiziosa e spietata di lui; ma alla fine, proprio per combattere questa nuova regina, ossia quello che lui era prima, Nabucco rinsavisce, torna a combattere e riacquista il potere perduto. Mentre la regina cattiva muore. Questa è in sostanza la storia di Nabucco, almeno la storia che interessa a Verdi, che sa raccontare come pochi altri il potere. Poi naturalmente c'è dell'altro, perché il pubblico non paga il biglietto per vedere solo questo: va a teatro per vedere la storia d'amore tra il buono e la bella, storia che naturalmente deve essere contrastata, in questo caso dalla cattiva, che è naturalmente Abigaille: è già pronta, non occorre inventarla. Quindi la sua morte risolve anche questo problema e permette ai due eroi di vivere il proprio amore.
Perché - ed è questo un altro punto che occorre sottolineare - Nabucco, al di là di quello che spesso succede nell'opera, finisce bene: l'unica che muore è la regina cattiva, che peraltro non è neppure la vera figlia del re, ma solo una schiava arrivata non si sa come in quel posto prestigioso. Tutti gli altri vivono felici e contenti. Certo a Babilonia non c'è un cambio di regime, caduta Abigaille non nasce la repubblica, rimane la monarchia autocratica, ma visto che il re è diventato buono - almeno si spera sia così - dovrebbe essere migliore di quella che c'era prima. E anche a Gerusalemme continua a prosperare la teocrazia oscurantista e fanatica di Zaccaria. Solo che si suppone che i due regimi - almeno per qualche anno - rimarranno in pace, in nome dell'unico dio che ora le élite dei due paesi congiuntamente venerano, magari per attaccare insieme qualche altro popolo, che si rifiuta di riconoscere quel dio. Evidentemente non è questo finale in cui si celebra l'immenso Jeovah che interessa all'agnostico - o forse addirittura ateo - Verdi.
Il giovane di Busseto - non ha ancora trent'anni quando debutta Nabucco - oltre all'ambizione di diventare un gran compositore, anche se certamente non poteva immaginare che sarebbe diventato il Giuseppe Verdi delle mille lire, attraverso una storia piena di passione, in cui la musica accende gli animi, ci dice che il potere è una bestia terribile, che gli uomini - e le donne - non riescono a domare. E ci mette in guardia, perché il potere è qualcosa a cui anche noi aspiriamo. Certo nessuno di noi diventerà mai re di Babilonia, ma molti di noi hanno esercitato - o ancora esercitano - il proprio potere, in famiglia, con i colleghi di lavoro, con gli studenti, semplicemente con quelli che vediamo essere più deboli di noi. E tutti noi possiamo in un attimo diventare Nabucco, possiamo impazzire per quel potere, possiamo usarlo nel peggiore dei modi possibili, possiamo causare dolore, financo lutti, perché siamo inebriati di quel potere, ci piace quando gli altri ci adulano, quando ci chiedono protezione, quando invocano la nostra pietà. E facciamo di tutto per conservarlo, mettiamo anche a rischio noi stessi e le persone a cui diciamo di voler bene. E sempre incombe su di noi un'Abigaille, pronta a essere perfino peggiore di noi.

sabato 19 ottobre 2019

Verba volant (720): intelligenza...

Intelligenza, sost. f.

Noi moderni spesso ce ne dimentichiamo, ma praticamente tutto quello che sappiamo della religione greca deriva da ciò che hanno scritto uomini che di mestiere facevano i cantastorie e i poeti. Certo anche alcuni degli autori che hanno scritto la Bibbia e il Corano - per stare soltanto nell'ambito mediterraneo - dimostrano di avere grandi capacità letterarie, ma in entrambi questi casi credo fossero consapevoli di scrivere dei testi religiosi. Il collettivo di aedi il cui lavoro ci è stato tramandato sotto il nome di Omero, e poi Esiodo e via via tutti gli altri da cui traiamo le storie della mitologia greca vogliono prima di tutto raccontare storie. Naturalmente anche loro erano consapevoli che quei racconti erano funzionali a tramandare un sapere religioso, che avevano un profondo valore educativo e propagandistico. Sapevano che stavano creando una tradizione, e spesso c'era qualcuno che commissionava loro quelle storie con un preciso scopo, ma in loro, in tutti loro, c'è sempre il gusto di raccontare. E credo che sia per questo che noi amiamo ancora così tanto quell'intricato complesso di racconti. E li saccheggiamo per raccontare le nostre storie.
Ho pensato a questo, leggendo quello che Esiodo nella Teogonia scrive a proposito della nascita di Atena: una storia davvero affascinante. Il poeta nato ad Ascra, una piccola città della Beozia, ai piedi del monte Elicona, racconta che Zeus, poco dopo aver sconfitto il padre Crono, grazie al saggio consiglio di Meti, e quindi dopo essere diventato il re degli dei, prende in sposa proprio questa dea. Meti appartiene alla generazione dei Titani, precedente a quella degli dei olimpi. Esiodo specifica che Meti è la prima sposa di Zeus. A questo punto però Gea e Urano, i dei primigeni, quelli che sono stati sconfitti da Crono e dai Titani, dicono a Zeus di fare attenzione, perché Meti avrebbe generato una dea molto potente, dagli occhi azzurri, e poi un maschio che, una volta cresciuto, avrebbe spodestato Zeus, come egli aveva fatto con Crono e come prima ancora Crono aveva fatto con Urano. Zeus allora, come dice Esiodo, raccoglie la dea nel suo ventre, ossia la divora, proprio come Crono ha fatto con le sue sorelle e i suoi fratelli e ha tentato di fare anche con lui. Una leggenda successiva racconta che Zeus ci sia riuscito con uno stratagemma, puntando sulla vanità di Meti, che aveva la capacità di prendere la forma di qualunque cosa: il dio le chiede di trasformarsi in una goccia d'acqua e così la può facilmente bere. Quello che Zeus non sa è che Meti è già gravida.
La storia continua: Zeus sposa altre dee, tutte della stessa generazione di Meti, dando vita a lunghe genealogie divine, e infine Era, sua sorella, una delle dee "nuove", che a questo punto sarà la sua ultima sposa, la regina degli dei in un ordine ormai stabilizzato, anche se Zeus continuerà a giacere con altre dee e altre mortali. Solo a questo punto dalla testa di Zeus nasce Atena, la dea dagli occhi azzurri, una creatura già perfettamente formata, per di più vestita e armata. Esiodo non dice altro, mentre le leggende successive dicono che, prima che Atena nascesse in quel modo così insolito, Zeus sentiva un grande dolore: comprensibile, ma non serve certo a rendere più verosimile questo strano racconto.
In questa breve storia c'è il capolavoro di Esiodo, che riesce a salvare la parte più antica della tradizione religiosa greca, quella secondo cui la saggezza è l'attributo esclusivo della Grande madre, della dea primigenia, assicurando ad Atena una discendenza matrilineare, visto che questa dea nasce per partenogenesi, non essendo esplicitato chi sia il padre e se un padre effettivamente ci sia. E allo stesso tempo dice che nei tempi nuovi la saggezza è diventata un patrimonio maschile, che è stata inglobata dall'elemento maschile. E in subordine riesce a fare di Atena, la dea vergine, l'ultima incarnazione della Grande madre, una delle figlie di Zeus, una dea che ha il proprio posto all'interno dell'ordine maschile dell'Olimpo, un ordine che non muterà più, visto che Zeus ha divorato Meti, impedendo di fatto ogni altra rivoluzione. E Atena avrà solo sacerdoti maschi, il suo culto non ammette sacerdotesse. Ci voleva un poeta per creare una storia così, che liberasse per sempre la religione greca dai suoi precedenti matriarcali e la consegnasse al potere dei maschi. Ma proprio perché è un poeta Esiodo ci lascia le tracce della storia che c'era prima, della storia che egli non vuole venga dimenticata.
Ma chi è Meti? Anche in questo caso Esiodo "inventa" una dea, scegliendo la caratteristica della primigenia divinità femminile, che secondo lui è più importante, la caratteristica che i maschi hanno bisogno di far loro, di divorare, per poter governare il mondo. Esiodo dice in sostanza che i maschi devono rubare l'intelligenza delle donne.
E infatti μῆτις - mètis - è una delle parole con cui gli antichi greci indicano l'intelligenza. Marcel Detienne e Jean-Pierre Vernant spiegano che si tratta di un'intelligenza applicata e impegnata nella pratica. E' qualcosa che la parola intelligenza da sola non riesce a tradurre in maniera efficace, perché è insieme intuito e capacità di previsione, attenzione ed esperienza, prudenza e spigliatezza. E' l'intelligenza che non riflette sulla sua natura, non si fa domande sul suo funzionamento, ma agisce. E infatti non è l'intelligenza dei filosofi, di Platone e di Aristotele, ma è quella polimorfa dei sofisti, capaci di adattarsi alle situazioni, di essere flessibili e sagaci.
Ci sono tre aspetti che caratterizzano la mètis. Il primo riguarda il rapporto tra usare la forza e ricorrere appunto alla sagacia. In qualsiasi confronto si può prevalere o grazie alla forza, ma naturalmente in questo caso il più debole è sempre destinato a soccombere, oppure grazie alla mètis, e questo ovviamente permette anche a chi è fisicamente inferiore di vincere, magari perché ha la capacità di allearsi con altri deboli come lui. Il secondo riguarda il rapporto della mètis con il tempo. E' l'intelligenza che nasce dal passato, dall'esperienza, non è mai un impulso improvviso. E' l'intelligenza che agisce nel presente, perché è in grado di cogliere l'occasione, magari dopo una lunga attesa. E' infine l'intelligenza del futuro perché ha la capacità di progettare, di prevedere. Il terzo è il più interessante, e in qualche modo anche il più moderno. Dal momento che la mètis si applica alla realtà, che è fluida, mobile, per molti aspetti contraddittoria, essa stessa deve essere tale, perché solo il simile agisce sul simile. Di fronte alla flessibilità del mondo, solo un'intelligenza altrettanto - se non più - flessibile può avere l'ambizione di afferrarlo. Non funzionano regole date una volta per tutte, canoni prestabiliti, per cogliere una realtà in continua metamorfosi: per questo uno dei poteri di Meti è quello di cambiare continuamente forma. Il segreto della mètis è la capacità di anticipare sempre la complessità del reale. 
Esiodo nel suo racconto spiega che Meti continua a vivere in Zeus, che è lei a indicargli il malanno e il vantaggio. Poi sappiamo che Zeus per lo più non ascolta questa voce dentro di sé. Come noi maschi non ascoltiamo l'intelligenza polimorfa e flessibile delle donne.

martedì 15 ottobre 2019

Verba volant (719): triangolo...

Triangolo, sost. m.

Tolto il lussureggiante sfarzo egizio, tolto il conturbante fascino esotico, tolta la marcia trionfale - e naturalmente tolti gli elefanti - Aida rimane una bellissima storia di amore e di potere, nella quale si intrecciano drammaticamente le vite di tre personaggi. La prima volta che Aida entra in esca, poco dopo l'inizio del primo atto - dopo essere stata invocata da Radamès con la celebre aria Celeste Aida - è insieme agli altri due vertici di questo tragico triangolo. E sempre con loro tre in scena la tragedia si conclude. E che proprio Amneris sia un personaggio fondamentale si capisce dal fatto che è assolutamente inutile al fine della storia. Anche senza Amneris Aida e Radamès vivrebbero un amore impossibile, anche senza Amneris Aida soffrirebbe il dissidio tra la fedeltà alla patria e la devozione verso il padre da un lato e l'amore per il nemico dall'altro, anche senza Amneris Radamès svelerebbe all'amata - e al padre di lei - che l'attacco sta per avvenire presso le gole di Napata, anche senza Amneris Radamès sarebbe condannato a morte come traditore e Aida morirebbe con lui.
Ma se Amneris non serve, perché tanto lavoro per creare un personaggio così ricco, dal punto di vista drammaturgico e musicale? Perché a Verdi non interessa affatto la storia della guerra tra l'Egitto e l'Etiopia, non gli interessa il contesto che porta Radamès a morire, ma vuole raccontare la storia di tre persone che amano e che vedono il loro amore precluso. Senza Amneris Aida non avrebbe senso.
Amneris deve superare un ostacolo fuori di lei, la rivale, l'altra donna, e fa di tutto per farlo, usa tutta la sua forza, tutto il suo potere, mentre per Aida quell'ostacolo è tutto dentro di lei, il dramma che le fa sperare che Radamès ritorni vincitore, anche se quella vittoria significherà la sconfitta, fino alla distruzione del suo paese, fino alla morte della sua stessa famiglia. Invece per Radamès l'ostacolo al suo amore per Aida è l'ambizione: per l'uomo che entra in scena cantando Se quel guerrier io fossi! cosa ci può essere di meglio che ottenere la corona dell'Egitto, che il matrimonio con Amneris gli garantirebbe?
Come a Macbeth, la "strega" Amneris gli promette che sarà re, ma Radamès non impazzisce. Certo prova a resistere, quando Aida gli prospetta la possibilità della fuga in Etiopia fa di tutto per convincersi che è la scelta sbagliata, ma sono scuse puerili, che Aida ha facile gioco a smontare. Radamès dei tre è l'unico che alla fine supera davvero l'ostacolo, anche perché il suo era il meno difficoltoso da superare. Le due donne non ci riescono. Perché Aida, anche quando convince l'amato a lasciare l'Egitto, vive il suo dramma, sa di essere proprio in quel momento la pedina di un gioco a cui lei non ha chiesto di giocare, sa di essere ascoltata da suo padre, soffre perché sa che sta ingannando Radamès e probabilmente si chiede cosa succederà quando egli se ne renderà conto, anche laggiù dove l'aura è imbalsamata. Aida soffre anche quando apparentemente vince. E Amneris se ne rende conto poco dopo, quando, anche di fronte alla disperata offerta che fa a Radamès di salvargli la vita, egli rifiuta: Aida ha vinto, è per lei un ostacolo insormontabile. E forse in quel momento si ricorda di quel sprezzante son tua rivale, figlia dei Faraoni che le ha rivolto in un momento in cui ha gettato la maschera. Amneris ha perso, nonostante sia una donna così potente, nonostante sia la figlia dei Faraoni.
C'è qualcosa di beffardo in quel rito che Amneris compie sopra la tomba in cui sa che Radamès sta morendo, perché noi sappiamo che laggiù c'è anche la sua rivale, la donna che ha vinto, e che Amneris in quel momento sta invocando la pace anche per lei. Ma Verdi almeno la preserva da questa notizia: forse Amneris in quel momento può pensare che un giorno le due donne, che allora saranno due regine di pari grado, si scontreranno di nuovo, questa volta su un altro terreno.
Non succederà naturalmente, perché Aida per superare il proprio ostacolo sa che deve morire. E infatti accetta l'inevitabile con serenità e con forza, il suo canto è quasi di gioia, come se con la morte di compisse la fuga prima vagheggiata, ma questa volta senza inganni, senza infingimenti. E Aida si gode questo momento di felicità perfetta, senza curarsi di quanto durerà.

domenica 13 ottobre 2019

Storie (XIII). "Il regalo di Verdi..."

Nino sa che parlano di lui, ma non capisce quello che si stanno dicendo i due soldati austriaci che lo trascinano con poca grazia all'interno del cassero di porta Galliera. Adesso è in una stanza male illuminata e ha di fronte un ufficiale. "Ragazzo, perché vuoi entrare a Bologna proprio stasera? E cosa tieni in quel sacco?" Per fortuna l'austriaco parla italiano, anzi Nino riconosce lo stesso accento di quando parla il signor Piave, che va spesso a Busseto. Il ragazzo tira fuori il biglietto che il Maestro gli ha dato il giorno prima, proprio in vista di un'evenienza simile. L'espressione dell'ufficiale cambia mentre legge quelle poche righe e Nino sa perché: tutti conoscono il Maestro. "A Venezia ho visto il Nabucco e l'Attila, il tuo padrone scrive della grande musica. Puoi andare, ma fa' attenzione. Sono giorni complicati qui a Bologna".
Nino lo ha già capito. È già venuto a Bologna, anche se non ha mai fatto quel viaggio da solo. La prima volta è stato cinque anni prima, quando suo padre ha accompagnato il Maestro che doveva incontrare Rossini, e se l'è portato dietro. Poi Nino è venuto altre volte, sempre con suo padre, sempre a portare un regalo del Maestro a Rossini. Ma in queste settimane suo padre sta male e così il Maestro ha affidato a lui il compito di portare il regalo. Le altre volte è sempre entrato da porta San Felice, dalla via Emilia. Ma stasera è chiusa. I soldati austriaci gli hanno fatto capire che tutte le porte sono state chiuse: si può entrare a Bologna solo da porta Galliera. E se non avesse trovato quell'ufficiale amante dell'opera non sarebbe entrato neppure da lì.
Ormai è troppo tardi e buio per presentarsi a casa di Rossini. Nino si ferma alla prima locanda che incontra. Così può sistemare il cavallo, mangiare e dormire. Alla locanda finalmente capisce cosa sta succedendo. I piemontesi stanno perdendo la guerra e le truppe austriache hanno attraversato il Po per ristabilire l'ordine anche a Bologna, da cui sono partiti duemila volontari per combattere insieme ai piemontesi contro gli austriaci. Sembra che in un'osteria alcuni bolognesi abbiano picchiato un ufficiale austriaco e adesso il generale Welden ha portato in città settemila uomini. Hanno sistemato i cannoni sulla Montagnola e hanno chiuso tutte le porte. Il grosso dell'esercito è accampato fuori, ma se i bolognesi non consegneranno con le buone quelli che hanno picchiato l'austriaco, entreranno loro con le cattive. Qualche giorno prima a Sermide hanno ucciso diversi uomini e raso al suolo quasi tutte le case, perché quei valorosi non si volevano arrendere. E adesso vogliono fare lo stesso a Bologna.
Nino pensa che, appena consegnato il regalo, dovrà trovare il modo di uscire in fretta dalla città. Se non fosse così stanco dal viaggio probabilmente non avrebbe dormito, agitato com'è. Si lega il prezioso pacco alla mano, per svegliarsi se qualcuno tenta di rubarglielo.
Appena fa luce, si alza, controlla il sacco, si sistema alla meglio ed esce. Andrà a piedi, tornerà dopo a prendere il cavallo. Il problema è che lui sa la strada entrando da porta San Felice. È facile, bisogna andare sempre diritto, passi la grande piazza, passi le due torri e poco dopo c'è il palazzo di Rossini. Da lì non sa che strada prendere. La città è deserta, le botteghe sono chiuse, si sente solo il rumore di truppe che si stanno muovendo. Gira, provando a capire dove debba andare, all'altezza di via Malcontenti un cane gli si avvicina, lo fiuta e comincia a seguirlo. Prova a chiedere a un paio di persone che incrocia per strada dove sia la casa di Rossini, ma nessuno lo sa. "Strano, se uno viene a Busseto, tutti ti dicono qual è la casa di Verdi". Finalmente lui e il cane arrivano vicino alla grande piazza, è piena di austriaci. Adesso Nino vede le torri e sa dove deve andare. Fa caldo, ma d'altra parte siamo all'inizio di agosto. Per  fortuna ci sono i portici, proprio come a Busseto. E così puoi camminare all'ombra. A Nino piacciono i portici.
Ecco il palazzo, è facile da riconoscere, perché ci sono tutto intorno delle grandi scritte in latino. Nino prova a bussare, anche se vede che è tutto chiuso. "Forestiero, smettila di far rumore, non ti darà il tiro nessuno". Dalla casa di fronte è uscita una ragazza. "Rossini è partito in fretta e furia una settimana fa con tutti i suoi servitori. Sono andati a Firenze, lì la situazione è più calma. E non ci sono gli austriaci". "E io adesso che faccio?", Nino si mette a sedere sul primo scalino della porta del palazzo di Rossini, con le mani nei capelli, mentre il cane gli si mette accanto, continuando ad annusare. "Intanto alzati e vieni a mangiare qualcosa". La ragazza lo prende per mano e gli fa un largo sorriso. "E il cane è tuo?"
Nino si accorge solo adesso di quanto sia bella quella ragazza. Neppure a Busseto ha mai visto degli occhi così. Sono fermi sotto l'androne, mentre mangia il pane che la ragazza gli ha offerto, Nino le spiega perché è venuto a Bologna, per portare a Rossini un regalo di Verdi. Lei non sa chi sia Verdi, ma sa che Rossini è un gran musicista, anche se in città è più noto per i suoi pranzi. "Delle volte la sua cuoca mi chiede di accompagnarla quando va a fare la spesa e lui le fa comprare ogni ben di dio". Sarà il vino, sarà il sorriso della ragazza, Nino sta dimenticando perché è lì e non si preoccupa più di non aver trovato in casa Rossini. Anzi, è proprio contento.
Arriva di corsa un ragazzino. "Gilda, Gilda, presto, dobbiamo andare tutti in piazza davanti alla Montagnola. Gli austriaci hanno lasciato piazza Maggiore, ma certo stanno preparando qualcosa". La ragazza non fa in tempo a ringraziarlo, che è già corso via per chiamare altre persone. Va in casa ed esce con un vecchio fucile. "Devo andare". "Ma tu sei una donna". "Ci sono momenti in cui anche le donne devono combattere". "Posso venire con te?".
E così dopo pochi minuti Nino si ritrova nella grande piazza del mercato. Tutti quelli che non ha visto in strada sembra si siano radunati lì. Le donne sono tante. Ci sono anche tanti ragazzini. Le armi sono poche e a Nino sembrano piuttosto vecchie. Tutti guardano verso la Montagnola, verso i cannoni degli austriaci. Gilda ha presentato Nino a un gruppo di persone che abitano nella zona di porta Ravegnana. "È un patriota anche lui". Nino non è sicuro di essere un patriota, certo non gli piacciono gli austriaci, e poi se Gilda è una patriota, lo vuol essere anche lui.
La giornata passa in un clima di attesa. E di paura. Nino ascolta le storie di quello che è successo nel mantovano, delle case distrutte, dei raccolti bruciati. Nino è un contadino, per lui non c'è maggior peccato che distruggere il cibo. Non si capisce cosa vogliono fare gli austriaci, però bisogna vigilare.
Decidono che una parte di loro rimarrà in piazza. Gilda si offre volontaria, anche Nino decide di rimanere. Anche il cane rimane lì, è dalla mattina che sta vicino a Nino. Viene acceso qualche fuoco per illuminare la piazza. Qualcuno porta delle pagnotte di pane. Nino all'improvviso si ricorda della sacca che si porta dietro da due giorni: il regalo di Verdi. Tira fuori la spalla cotta che il Maestro fa preparare a Carlo, il suo norcino di fiducia. È una specialità e a Rossini piace moltissimo. Il ragazzo chiede un coltello a uno dei suoi nuovi compagni e comincia a tagliare, come ha visto fare a casa. "Questa è roba delle mie parti, non ce l'avete a Bologna". Comincia con dei piccoli pezzi, perché sono in tanti che adesso si sono avvicinati a lui e a Gilda. Finalmente anche il cane riceve il premio per aver seguito il ragazzo. "Ecco tenete, questa spalla ve la manda il Maestro Giuseppe Verdi di Busseto". È la sera del 7 agosto 1848.

giovedì 10 ottobre 2019

Verba volant (718): taglio...

Taglio, sost. m.

Anche se faccio di tutto per mantenere il più rigido possibile il mio esilio dal mondo, ci sono notizie che arrivano comunque. E si tratta ovviamente di brutte notizie.
Ho saputo che con una grande maggioranza - che un tempo si sarebbe detta bulgara - praticamente tutte le forze politiche presenti in parlamento - di governo e di opposizione, di destra e di sinistra, vecchie e nuove - hanno votato una legge costituzionale per ridurre in maniera drastica il numero di deputati e senatori. Viste le condizioni politiche, immagino non ci sarà un referendum su questa modifica costituzionale: se ci sarà, annuncio fin da ora il mio inutile no.
Prima di tutto perché voglio continuare a essere ostinatamente fedele allo spirito e alla lettera della Costituzione del '48. Questa fedeltà è uno dei valori su cui ho sempre cercato, nel mio piccolo, di orientare la mia attività politica. E non vorrei smettere proprio adesso. La Costituzione del '48 è certamente figlia del suo tempo, forse non è perfetta, ma ha una sua organicità. Chi l'ha scritta - mettendoci peraltro parecchio tempo - lo ha fatto cercando di costruire un sistema con un suo equilibrio e anche una certa forma di armonia. Le riforme che abbiamo fatto noi, spesso frettolosamente, hanno spezzato questo equilibrio, hanno rotto questa armonia. E questa ultima non è certo da meno.
Sono troppi i deputati e i senatori? I Costituenti, approvando gli articoli 56 e 57, hanno stabilito rispettivamente che
La Camera dei deputati è eletta a suffragio universale e diretto, in ragione di un deputato per ottantamila abitanti o per frazione superiore a quarantamila. 
A ciascuna Regione è attribuito un senatore per duecentomila abitanti o per frazione superiore a centomila. Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a sei. La Valle d’Aosta ha un solo senatore.
L'idea che ha animato gli autori della Costituzione è stata quella di garantire una rappresentanza politica piuttosto larga. Per fare un paio di esempi, dal nord al sud del nostro paese, Sesto San Giovanni e Pozzuoli sono città di circa ottantamila abitanti. Un deputato, se si impegna e lavora con coscienza, può conoscere molto bene una realtà di queste dimensioni e può essere conosciuto altrettanto bene dalle donne e dagli uomini che è chiamato a rappresentare. Rispetto al 1948 si può forse aumentare un po' questo rapporto, perché è più facile muoversi - allora il treno era praticamente l'unico mezzo per spostarsi - e ci sono strumenti tecnologici che rendono più facile la comunicazione - qualsiasi influencer scarso credo raggiunga gli ottantamila followers - ma se crediamo che la politica sia qualcosa di più che uno spot allora non possiamo modificare troppo questo scarto tra un eletto e i suoi elettori, considerando che tra gli ottantamila ci sono anche quelli che non l'hanno eletto, con cui il dialogo è oggettivamente più complicato. 
In questi anni, anche per colpa di quelli come me che hanno fatto politica negli ultimi tre decenni, abbiamo scavato un abisso tra i cittadini e la politica: diminuire il numero dei parlamentari, renderli ancora più "casta", servirà soltanto a far crescere questo fossato. Difendere la politica, difendere la repubblica parlamentare, significa anche mettere un deputato e un senatore in condizione di lavorare, e per farlo bisogna che conosca le persone che lo hanno eletto e che loro lo conoscano.
L'altro motivo per cui sono assolutamente contrario a questa cosiddetta riforma è che l'unico vero argomento che la sostiene è il risparmio: meno parlamentari significa meno soldi da spendere. Ma se questo è il tema, allora perché fermarsi a seicento parlamentari? Tra qualche anno qualcuno si sveglierà dicendo che quattrocento deputati e duecento senatori sono troppi e che si potranno risparmiare altre risorse riducendoli ancora. E una nuova larghissima maggioranza approverà questo nuovo taglio, e così via, fino a quando, come in un celebre romanzo di Agatha Christie, non ne rimase più nessuno. Il tema non è ridurre il numero dei parlamentari, ma ridurre le loro prebende. Vogliamo tagliare qualcosa? Tagliamo gli sprechi, tagliamo le spese inutili. Invece noi avremo meno parlamentari che prenderanno lo stesso stipendio che prendono ora. E quindi quei posti, anche perché progressivamente si ridurranno ancora, saranno sempre più ambiti, e quindi la corsa a uno scranno parlamentare sarà più dura. E chi si dimostrerà più fedele al capo di turno, chi dirà sempre di sì, che darà meno problemi, avrà garantito il suo seggio, a discapito di ogni altra considerazione.
Sospetto sempre quando tutti applaudono, e tanto più in un tempo infelice come questo, in cui regna incontrastata l'ignoranza. Non credo che avremo gli strumenti per opporci alla maggioranza, ma - almeno fin che potremo - diciamo no.

martedì 8 ottobre 2019

Verba volant (717): fantasma...

Fantasma, sost. m.

Quando Euripide scrive Elena il suo bersaglio non è la tradizione, non gli interessa raccontare una versione diversa del mito che generazioni di greci hanno sentito narrare fin da piccoli e hanno poi tramandato ai loro figli. Non vuole stupire, ma vuole raccontare tutta un'altra storia.
Fa un gioco con i suoi spettatori, che certamente conoscono, oltre al mito, un'orazione di uno dei più celebrati tra i sofisti, Gorgia da Lentini, che in quegli anni è molto attivo ad Atene, perché lì c'è una fiorente richiesta della sua mercanzia, ossia la capacità di parlare e di convincere, di trasformare il falso in vero e il vero in falso. E Gorgia, con un'astuta strategia di marketing, ha scritto e recitato nei migliori salotti della città un'orazione dedicata proprio alla moglie di Menelao, con l'obiettivo di dimostrare che non è stata sua la colpa se è scoppiata la guerra di Troia. Il sofista che può dimostrare qualunque tesi, dice che è possibile perfino scagionare quella che per gli antichi greci è la peccatrice per antonomasia, l'adultera, la causa della guerra che ha provocato infiniti lutti agli achei e la distruzione di una delle più antiche città dell'Asia.
Elena è innocente - spiega il sofista venuto dalla Sicilia - perché o è stata rapita o è stata convinta dalla forza delle parole di Paride oppure si è innamorata o semplicemente è così che hanno voluto gli dei. In nessun caso Elena avrebbe potuto opporsi, né al volere degli dei né all'amore né alla forza di quell'uomo venuto da oriente né al potere delle parole, capace di incantare. Gorgia, mentre racconta la storia di Elena, presenta se stesso come una sorta di mago, un mago che è pronto a vendere - naturalmente a caro prezzo - i propri segreti. Euripide certamente conosce l'Encomio di Elena, forse l'ha ascoltato dallo stesso Gorgia in casa di qualche ricco ateniese: il loro "giro" era pressoché identico e quasi certamente si sono conosciuti. Forse anche lui è rimasto incantato dalle parole di Gorgia, ma ha capito che il sofista non stava davvero difendendo Elena, stava solo vendendo la propria abilità.
Invece a Euripide interessa sapere cosa è successo davvero a quella donna destinata a sopportare una tale infamia e così - rielaborando una versione del poeta Stesicoro - racconta che Era, per vendicarsi di Paride che aveva assegnato ad Afrodite il pomo d'oro per la dea più bella, nel momento in cui Elena stava per essere condotta sulla nave troiana, ha fatto uno dei suoi potenti incantesimi: a Troia sarebbe andato un simulacro della donna,
un fantasma dotato di respiro, fatto con un pezzo di cielo
mentre la vera Elena è stata condotta da Ermes in Egitto e messa sotto la protezione del re Proteo.
E la tragedia - peraltro una strana tragedia, in cui non muore nessuno e con il lieto fine - comincia proprio sulla tomba del vecchio re. Sono passati diciassette anni, Elena è ancora molto bella e la sua bellezza è l'oggetto del morboso desiderio del nuovo re, Teoclimeno, meno rispettoso rispetto a quanto lo sia stato il padre della storia triste di quella famosa esule. E così noi conosciamo questa donna matura, che vive la sua bellezza come una maledizione. E che, pur lontana dalla sua patria, deve soffrire per quelle storie di cui è l'involontaria protagonista negativa. Sua madre Leda è morta di dolore, i suoi fratelli, i divini Dioscuri, si dice che si siano uccisi per la vergogna di avere una tale sorella. Elena è una donna sola, ma, nonostante tutto quello che le è accaduto, è molto forte.
La protagonista di Euripide non è certamente la donna succube raccontata da Gorgia, quella che non ha colpa perché non poteva fare altrimenti, perché qualcuno o qualcosa è sempre più forte di lei. Elena di Euripide è invece il motore di tutta l'azione. Elena non è una donna rassegnata, è lei che, avuta la fortuita opportunità di incontrare finalmente il suo sposo Menelao, giunto in Egitto insieme a pochi compagni e a quella visione che crede ancora essere sua moglie, prende in mano le redini del gioco e lo conduce fino alla fine con un'intelligenza brillante. Euripide vuole che ricordiamo Elena non perché è bella, anzi la donna più bella mai esistita, ma perché è πολύτροπα, la donna dal multiforme ingegno.
E' lei che convince Menelao, che invece per tutta la rappresentazione ci appare in balia dei flutti, veri e metaforici, e che diventa capace di agire solo quando segue le direttive della propria sposa, è lei che sa trovare, con una tecnica retorica degna di un sofista, l'indispensabile alleanza con la sorella del re, l'indovina Teonoe, che avrebbe facile gioco a smascherare l'inganno, ma che si lascia convincere grazie a una sorta di richiamo femminista, ed è sempre lei che alla fine trova il modo di farsi consegnare dallo stesso re le armi e soprattutto la nave per fuggire. E' quando Elena agisce che diventa davvero irresistibile.
Come ho detto Elena non è una tragedia, almeno non come l'intendeva Aristotele e come si aspettava il pubblico di Atene. Non muore nessuno durante il dramma. Anche perché sono morti tutti prima, durante i dieci anni della guerra e nei sette anni di peregrinazioni. Il dramma di Elena è anche quello di essere una specie di sopravvissuta.
Ma quando Menelao racconta a uno dei suoi servi cosa è successo, la storia del fantasma e della vera Elena, questi rimane allibito e poi urla al suo re:
vuoi dire che abbiamo sofferto invano per una nuvola?
Euripide sorride amaro di fronte all'ingenuità di questo soldato, che da diciassette anni è lontano dalla propria casa, per seguire non un fantasma, ma l'ambizione del proprio re. E ha compassione della sua stoltezza, che non gli fa capire che la guerra sarebbe stata altrettanto stupida e inutile se Elena non fosse stata un fantasma.

domenica 6 ottobre 2019

Verba volant (716): loggione...

Loggione, sost. m.

Ricordo ancora con precisione una pagina del sussidiario delle elementari - ebbene sì, ai miei tempi c'era ancora il sussidiario - dedicata all'unità d'Italia: intorno alla cartina del paese finalmente riunificato c'erano i ritratti di Cavour, Garibaldi, Mazzini, Verdi e Manzoni. Il volto di Verdi era quello disegnato da Giovanni Boldini, che io conoscevo bene, perché era sulle banconote da mille lire, un altro degli oggetti il cui ricordo dimostra la mia età. Quello di Manzoni invece era quello celeberrimo di Francesco Hayez. Quell'immagine mi è sempre rimasta in mente anche negli anni successivi, quando ho potuto studiare cosa è stato davvero il Risorgimento italiano, al di là delle edificanti favolette raccontate con un'eccessiva enfasi retorica ancora agli inizi degli anni Settanta, in quel libro destinato alle scuole elementari. E ho sempre trovato significativo che uno scrittore e un musicista fossero tra quei ritratti: è il segno che la storia dei popoli è qualcosa di più complesso del mero succedersi di eventi politici e militari, il segno del valore e dell'importanza della cultura nella storia. E ripensandoci è curioso che tra i cinque "fondatori" dell'Italia ci sia anche Giuseppe Mazzini, che ai tempi era considerato più o meno quello che oggi noi chiameremmo un terrorista.
Comunque quegli uomini erano tutti vecchi; almeno così erano rappresentati nel mio sussidiario. Eppure non erano così vecchi quando hanno fatto, ciascuno a proprio modo, l'Italia: Camillo Benso di Cavour è diventato presidente del consiglio del Regno di Sardegna a 41 anni, Giuseppe Garibaldi ne aveva 53 quando è sbarcato a Marsala e Giuseppe Mazzini 44 quando è diventato triumviro della Repubblica romana. Alessandro Manzoni pubblica la prima edizione de I promessi sposi a 42 anni e Verdi ne ha soltanto 29 quando il Nabucco debutta alla Scala.
Ho l'impressione che spesso noi, sia quando studiamo la storia sia quando andiamo a teatro o leggiamo un libro, dimentichiamo questi fondamentali dati biografici. Se c'è nel nostro paese un genere teatrale che appare sussiegoso e pomposo quello è senz'altro l'opera lirica. Purtroppo il teatro d'opera è diventato il terreno di pastura di vecchi - e vecchie - parrucconi, del peggior conservatorismo italico, che pure si manifesta in tanti altri settori della nostra società. Eppure Giuseppe Verdi prima di diventare un "classico" del teatro, prima di diventare il "padre della patria" da mettere sulle mille lire e nei sussidiari delle scuole elementari, è stato un autore a suo modo rivoluzionario, che avrebbe sbeffeggiato quelli che oggi lo celebrano con tronfia ignoranza, dai loggioni e dalle pagine culturali dei giornali, quelli che "difendono" Verdi da ogni interpretazione moderna, quelli che pretendono che le opere siano sempre fatte in un unico modo.
E, alla faccia di tutti i conservatori, Verdi era un autore che oggi definiremmo provocatorio, che proprio per questo ha avuto molti problemi con la censura e non ha sempre incontrato il favore del pubblico del suo tempo. Giuseppe Verdi ha spesso raccontato storie in cui il motore principale è il potere, in cui ha cercato di svelarne i meccanismi più profondi, e questo naturalmente tende a non piacere a chi quel potere lo esercita.
Per questo Verdi è stato spesso censurato, più o meno duramente, in diversi parti d'Italia. Ad esempio quando ha cercato di mettere in scena l'assassinio - tentato o compiuto - di un re. Si tratta evidentemente di un tema che ai re un po' disturba e che quindi i loro servi cercano di evitare. E così il re di Francia protagonista del dramma di Victor Hugo Le roi s'amuse è dovuto diventare il molto meno compromettente duca di Mantova del Rigoletto, visto che i duchi a Mantova non c'erano più. E allo stesso modo il re di Svezia Gustavo III, ucciso in scena nel dramma di Daniel Auber, diventa Riccardo, governatore di Boston negli anni dell'America coloniale, per permettere a Verdi di superare la censura e mettere in scena Un ballo in maschera. Verdi soffre per queste censure, che rendono meno forti le sue opere: sempre in Un ballo in maschera i censori tentano di trasformare Amelia nella sorella di Renato, per rendere meno "morbosa" la vicenda.
Ma Verdi dà scandalo non solo per come racconta la politica, ma anche per come descrive la società. Quando nel 1853 mette in scena alla Fenice di Venezia La traviata, raccontando la storia di una prostituta nel bel mondo di Parigi, Marie Duplessis - la donna che Dumas chiama Marguerite Gautier e Verdi Violetta Valery - è morta da appena sei anni: è una storia d'attualità, una sorta di istant-opera. Verdi getta in faccia al pubblico di benpensanti la "loro" storia, visto che proprio loro potevano essere stati "clienti" di Violetta. E infatti i gestori del teatro si affrettano a scrivere nella locandina che la scena si svolge a "Parigi e vicinanze nel 1700 circa". Molto circa. Un tentativo di rendere digeribile agli spettatori qualcosa che Verdi voleva li disturbasse.
E in fondo Verdi, anche da vecchio, anche da "padre della patria", è rimasto uno spirito anarchico, visto che la sua ultima opera, Falstaff, si chiude con il celebre verso
tutto il mondo è burla.
L'ultimo sberleffo di un rivoluzionario ottantenne in faccia ai potenti e ai loro servi, in faccia ai conservatori di ogni risma.

sabato 5 ottobre 2019

Verba volant (715): tortellino...

Tortellino, sost. m.

La cucina non è - con buona pace di Pellegrino Artusi - una scienza esatta. E credo che - leggendo con attenzione il suo libro di ricette - il gran romagnolo fosse il primo ad esserne consapevole.
E infatti come non esistono in natura due fiocchi di neve uguali - anche se la fisica statunitense Nancy Knight ne ha trovati e fotografati due perfettamente identici, ma ci ha messo anni - così non esistono due tortellini uguali. O comunque ci vorrebbe troppo tempo per scoprirli. Sono troppe le varianti. Cambiano le mani di chi prepara la sfoglia e di chi fa il ripieno, cambiano - anche impercettibilmente - le dosi degli ingredienti e soprattutto sono diversi i loro sapori, perché la mortadella non è sempre uguale, così come il parmigiano e così per ogni altra cosa necessaria alla ricetta. E ogni brodo è diverso dall'altro. Non credo sia necessario sottolineare che chi scrive considera i tortellini alla panna un'invenzione del demonio. Ma soprattutto ogni tortellino è diverso perché cambiamo noi che li mangiamo. E' migliore un tortellino fatto a mano, secondo la ricetta custodita in Camera di commercio, e cotto in brodo di cappone o un tortellino prodotto nel pastificio di un noto imprenditore veneto, cotto nel brodo versato da una scatola di tetrapak? Naturalmente il secondo, perché proprio la sera che avete mangiato quei tortellini industriali tua moglie ti ha detto che gli esami avevano confermato che dopo qualche mese sarebbe nata vostra figlia, mentre quei tradizionalissimi tortellini bolognesi li hai mangiati a casa di tua madre durante un ipocrita e interminabile pranzo di Natale insieme a parenti che detesti - peraltro ricambiato - oppure durante una noiosissima cena di lavoro nel miglior ristorante della città, insieme a colleghi con cui non vorresti prendere neppure un caffè.
Zaira mi dice che nei giorni scorsi a Bologna si è fatto un gran parlare di tortellini, e del loro ripieno. I tortellini possono essere usati come uno strumento di accoglienza? Immagino di sì. Anche se l'accoglienza non dipende né dai tortellini né dal loro ripieno. Io vivo in una città emiliana in cui la pasta ripiena tradizionale non prevede carne di maiale e in particolare nella mia zona è diffusa una variante che non prevede alcun tipo di carne, ma solo parmigiano e pane grattato. Non per questo la mia città è più accogliente. Anzi.
Credo che favorirebbe maggiormente l'accoglienza impedire ai difensori della purezza dei tortellini - e anche a quelli che difendono i tortellini di pollo, perché l'integrazione fa chic - di affittare le loro case in nero. Chissà in quanti rispettabilissimi ristoranti bolognesi ci sono stranieri che lavano i piatti o magari fanno i tortellini secondo la ricetta tradizionale depositata in Camera di commercio, lavorando rigorosamente in nero?

giovedì 26 settembre 2019

Verba volant (714): schiava...

Schiava, sost. f.

Nella Rane, quando Euripide cerca di accampare a proprio merito di aver dato la parola nei suoi drammi a tutti, anche alle donne e agli schiavi, il vecchio Eschilo gli risponde che per questo avrebbe meritato piuttosto la morte. Ma come - ribatte Euripide - io agivo da democratico. E qui interviene Dioniso, che è il giudice della contesa - un giudice che sappiamo assolutamente parziale, che si è già espresso a favore di Euripide, anzi che è sceso negli inferi proprio per riportarlo sulla terra - e gli dice: lascia stare la democrazia, non è roba per te. Aristofane che mette in scena questa contesa - e che è un deciso avversario di Euripide - sembra dirci: attenzione, cari spettatori, non fate l'errore di questo autore, una cosa è la democrazia e un'altra l'uguaglianza, perché la democrazia funziona solo se ci sono gruppi, le donne e gli schiavi, che hanno meno diritti dei maschi liberi, se ci sono alcuni che sono meno uguali degli altri.
Quando Aristofane scrive questi versi probabilmente ha in mente, tra le molte tragedie di Euripide, Ecuba, la cui protagonista è donna e schiava. Ma non smette mai di essere regina.
La tragedia comincia - come Amleto - con lo spettro di un uomo che racconta da chi e come è stato ammazzato. E' Polidoro, il più giovane dei figli di Priamo ed Ecuba, che i genitori hanno mandato alla corte di Polimestore, per salvargli la vita nel caso Troia fosse caduta. Ma il re tracio, quando vede la città bruciare, decide di violare il patto di ospitalità: fanno gola le grandi ricchezze che Priamo ha dato al figlio e poi è sempre meglio schierarsi con i vincitori, con i nuovi padroni dell'Egeo.
Ecuba non sa ancora cosa è successo a Polidoro, ma è turbata per la sorte dei propri figli. La flotta greca non riesce a partire, non c'è un alito di vento e il mare è completamente piatto. I soldati sono in subbuglio. Appare un altro spettro, questa volta è quello di Achille, che dice che i greci potranno partire solo se sarà vendicato, se sarà uccisa la donna che è stata la causa della sua morte, Polissena, un'altra delle figlie di Priamo ed Ecuba. La bellissima giovane ha finto di ricambiare l'amore di Achille solo per carpire il segreto della sua invulnerabilità: è solo grazie a lei se Paride ha potuto scoccare la freccia mortale che ha colpito il tallone del guerriero greco.
Neottolemo vuole che sia rispettata la volontà del padre, Agamennone naturalmente rifiuta, perché Achille gli è nemico anche da morto e perché non vuole uccidere la sorella di Cassandra, la donna che ama, anche se è una schiava. Odisseo però - è lui che al solito deve risolvere queste questioni - riesce a convincere Agamennone e i greci che il sacrificio deve essere compiuto: come all'inizio c'è stato, in un'analoga situazione, quello di Ifigenia.
Come al solito la morte non avviene in scena, ma è raccontata da un messaggero, in questo caso Taltibio. E l'araldo descrive la morte di Polissena, che pretende di offrirsi volontariamente alla spada di Neottolemo: vuole morire da donna libera e non da schiava. Agamennone, che presiede al sacrificio, acconsente, e sembra che perfino Neottolemo vacilli nel momento di compiere la propria vendetta, e comunque fa in modo che la morte sia rapida e rispetta il cadavere. La schiavitù non esiste in natura, come crederà ancora qualche decennio dopo questa tragedia Aristotele: Polissena è nata libera e, nonostante quello che è successo alla sua famiglia e alla sua città, rimane sempre tale.   
Ecuba deve seppellire la propria figlia, invia un'ancella sulla spiaggia per prendere una brocca d'acqua di mare con cui pulire il corpo, ma la giovane torna con un tragico carico: il cadavere di Polidoro che le correnti hanno spinto fino lì. Ecuba sembra sul punto di impazzire, ma è proprio in questo momento che, anche se formalmente è una schiava, torna a essere la regina di Troia, quella che, morto Priamo, è chiamata a reggere il suo popolo, per quanto sconfitto e disperso. E' la regina che tratta con il suo pari Agamennone e si accorda per vendicarsi su Polimestore, è la regina che, attirato il re tracio con l'inganno nella sua tenda, guida le donne troiane, ne uccide i figli e lo acceca, ed è ancora la regina che, di fronte ad Agamennone - che, sopraggiunto alle grida di Polimestore, è chiamato a giudicare l'accaduto - difende la sua vendetta, accusando l'uccisore di Polidoro di aver violato, per cupidigia, il patto di ospitalità. E proprio in forza di questi argomenti, il verdetto del re di Micene sarà favorevole alla donna.
Non esiste la schiavitù, ci dice Euripide. Un'idea eversiva per il pensiero comune dell'Atene di quel tempo, la cui economia si reggeva grazie al lavoro degli schiavi che, impiegati nelle botteghe e coltivando i campi, permettevano ai loro padroni di partecipare alla vita politica e sociale della città, e che, lavorando nelle miniere d'argento del capo Sunio, assicuravano alla città le risorse per armare la più potente flotta dell'Egeo. E - ci dice ancora - non è più accettabile che le donne abbiano meno diritti degli uomini. Un'idea eversiva per il pensiero comune dell'Atene di quel tempo, che infatti gli preferì sempre altri autori di tragedie. Un'idea che, dopo appena duemilacinquecento anni, sembra ancora eversiva.