Sono usciti i dati Istat sulla disoccupazione in Italia a luglio di quest'anno: il tasso di disoccupazione è dell'8,4%, stabile rispetto al mese precedente, ma in crescita rispetto allo stesso mese del 2009 (era al 7,9%); tra i giovani, ossia tra chi ha dai 15 ai 24 anni, questo tasso sale al 26,8% (l'1,1% in più rispetto a un anno fa); il numero dei cosiddetti inattivi, tra i 15 e i 65 anni, raggiunge i 14.948.000. Poi c'è il ricorso sempre più frequente alla cassa integrazione: nel 2010 in Italia supereremo il miliardo di ore utilizzate. Infine c'è la piaga del lavoro nero: secondo i dati Istat pubblicati nello scorso mese di aprile sono oltre 2.600.000 i lavoratori irregolari, un numero in aumento rispetto all'anno scorso. So che mi ripeto, ma di fronte a un fenomeno di questa proporzione mi sembra un delitto non parlarne: questi numeri dovrebbero da soli essere la premessa per il programma che il centrosinistra presenterà alle prossime elezioni.
Naturalmente non tutte le soluzioni sono uguali e probabilmente su questo bisognerebbe cominciare a mettere qualche punto fermo. In questi anni i teorici della politica e dell'economia, non solo di destra, ci hanno autorevolmente spiegato che la soluzione per aumentare il lavoro e complessivamente la ricchezza della società era rendere più flessibili le regole e più libero il mercato; dal momento che queste previsioni non si sono realizzate, nonostante le leggi e soprattutto la prassi abbiano fatto molti passi in quella direzione - in Italia, ma in generale tutta Europa - ora ci spiegano che è stata colpa della crisi mondiale e ci dicono di attendere la ripresa, immaginando che con questa benedetta ripresa - di cui pure ci sono assai scarsi segnali - riprenderà anche a muoversi il mercato del lavoro.
Chi mi legge sa che io tendo a essere pessimista e francamente temo che la ripresa si giocherà su una diminuzione della quantità e del qualità del lavoro, se non interverranno delle misure precise a regolare un mercato che procede in maniera sempre più decisa con le sue regole. In questi mesi estivi, mentre tutto il mondo politico era impegnato a discutere di un appartamento a Montecarlo, l'amministratore delegato della Fiat ha cercato di spostare ulteriormente l'asticella del rapporto tra diritti e doveri dei lavoratori, teorizzando tra l'altro che deve essere ormai considerata finita la contrapposizione tra lavoro e impresa; a favore di quest'ultima, naturalmente. Sinceramente non mi meraviglia che Marchionne dica quello che ha detto in questi giorni, mi meraviglia il fatto che affermazioni di questo genere siano sostanzialmente passate nell'indifferenza di gran parte dei leaders del centrosinistra.
Esiste ancora la contrapposizione tra lavoro e impresa? Personalmente penso di sì e penso che i lavoratori debbano continuare a organizzarsi per difendere i diritti che hanno già conquistato e possibilmente per garantirne dei nuovi alle generazioni che verranno dopo. Forse sbaglio, ma vorrei sentire qualche argomentazione convincente, e possibilmente non solo da parte della Fiat.
Il lavoro continua a essere retribuito in misura molto inferiore rispetto al valore che produce e questo valore eccedente, che tende a crescere anche per effetto delle innovazioni tecnologiche, viene solo in parte investito sulla produzione. Questa ricchezza è gestita da pochi, prevalentemente nei mercati finanziari, nell'illusione, come si è visto in questi anni, che il denaro da solo possa produrre altro denaro. La sinistra non dovrebbe allora porsi il problema di come invertire questa tendenza? Non dovrebbe elaborare i modi per attribuire al salario quanto sarebbe socialmente necessario e giusto riconoscere in questo tempo. Non è il comunismo né la fine del capitalismo, ma semplicemente provare a immaginare che una persona venga retribuita per quello che produce realmente. Provare a immaginare delle forme perché ci siano vere forme di redistribuzione del reddito e di crescita della ricchezza. Personalmente penso che passi di qui la sfida per chi ha un lavoro e ha il diritto che sia un lavoro di qualità e giustamente retribuito e anche per chi il lavoro in questo sistema non l'ha e rischia di non averlo mai.
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