lunedì 25 ottobre 2010

"Battere la fame con le democrazie" di Amartya Sen

Il peso di una carestia è a carico solo della popolazione colpita, e non dalla compagine di governo. La classe dirigente non muore mai di fame. Tuttavia, laddove il governo risponda al popolo e siano presenti un sistema di libera informazione e una critica pubblica non soggetta a censura, anche il governo troverà buone ragioni per impegnarsi al meglio a sconfiggere le carestie.
A fronte di un sistema politico democratico ben funzionante e di un sistema mediatico libero e privo di censura, nonché di partiti di opposizione desiderosi di far gravare sul governo l'incapacità di prevenire la fame, il governo stesso avverte una enorme pressione, che lo induce ad adottare misure rapide ed efficaci ogni qualvolta si delinei la minaccia di una carestia. Poiché le carestie sono facili da prevenire laddove si compiano sforzi concreti per arrestarle (come ho già avuto modo di affermare), la prevenzione si rivela in linea generale una strada percorribile. Non desta pertanto sorpresa che, tra tutte le terribili carestie che hanno lacerato il mondo, nessuna si sia mai verificata in un Paese indipendente dotato di una democrazia funzionante, con partiti di opposizione operanti in libertà e una stampa non soggetta a censura.
Le democrazie caratterizzate da un sistema mediatico libero ed energico e da regolari elezioni multipartitiche si dimostrano di fatto efficienti nel prevenire il verificarsi delle carestie. Ciò merita d' essere considerato se si analizza l'efficacia con cui il dibattito pubblico contemporaneo può farsi carico dei problemi delle generazioni future. Ma perché?
Per fare un confronto, si pensi che la percentuale di persone colpite dalle carestie non supera mai il dieci per cento della popolazione totale e risulta altresì solitamente inferiore al cinque. Una frazione così esigua difficilmente risulterà in grado di indurre la maggioranza a votare le misure direttamente necessarie a sradicare la minaccia della fame. Sono dunque il dibattito e l'impegno pubblico a diffondere l' ampiezza di vedute di coloro che, pur nutrendo interessi non necessariamente minacciati dalle carestie, ritengono ragionevole tentare di prevenirle - e mandano a casa i governi pertinaci. Pertanto, anche se coloro che hanno attualmente diritto al voto non ci saranno forse più quando le generazioni future si troveranno ad affrontare la gravità dei cambiamenti climatici e del degrado ambientale, il dibattito pubblico democratico può rendere efficace il voto di oggi nel tutelare gli interessi delle generazioni future; allo stesso modo, una democrazia maggioritaria di oggi, in cui sia radicato con forza il dibattito pubblico, può salvare la vita a una minoranza di persone (quali le vittime potenziali di una carestia) che, di per sé, non può spostare il voto in un sistema maggioritario. Le democrazie che si contraddistinguono per libertà del dibattito pubblico e assenza di censura governativa forniscono gli strumenti con cui perseguire giustizia sociale in numerosissimi ambiti. E rendere giustizia ai cittadini di domani costituisce già una parte assai rilevante dell' impegno democratico. Un dibattito pubblico aperto è un mezzo idoneo a gestire le nostre responsabilità verso le generazioni future.
Le nostre responsabilità in materia di sviluppo sostenibile racchiudono dunque il ruolo svolto dai cittadini di oggi nel dibattito inerente una situazione mondiale che si estende oltre le vite individuali. Di sicuro, molti aspetti legati al collasso ambientale esprimono effetti immediati. A quanti respirano l' aria di Pechino, Città del Messico o Nuova Delhi non occorre ricordare che alcuni degli effetti derivanti dal degrado ambientale pregiudicano nell' immediato la qualità delle loro vite. E a prescindere dal fatto che ci si occupi della condizione della popolazione di oggi o di quella di domani, non si possono ignorare la responsabilità civica e la partecipazione alla vita politica.
Attualmente disponiamo di una letteratura piuttosto vasta sul ruolo che i singoli cittadini svolgono nella salvaguardia dell' ambiente, incentrata nella fattispecie su azioni che trovano motivazione in un senso di obbligo civico e di etica sociale. Andrew Dobson si spinge a sostenere quanto da lui definito col termine di "cittadinanza ecologica", che prescrive l' attribuzione all'ecologia di una priorità. Non sono del tutto certo che smembrare una cittadinanza integrata in specifici ruoli settoriali costituisca il modo migliore per interpretare la cittadinanza e la democrazia. Tuttavia, Dobson enfatizza con giusta ragione la portata delle responsabilità civiche nell' affrontare le sfide ecologiche. Egli analizza ed evidenzia in primo luogo ciò che i cittadini possono fare se spinti da motivazioni sociali e riflessioni ponderate, anziché da puri incentivi finanziari (agendo in qualità di "attori razionali mossi da egoismi personali").
Concentrare l' attenzione sul senso della responsabilità ecologica dei cittadini è tipico di una nuova tendenza che si colloca a metà strada fra teoria e pratica. La politica britannica, ad esempio, fu bersaglio di critiche sul finire del 2000 quando, in risposta a picchetti e proteste, il governo fece marcia indietro rispetto alla proposta di aumento delle imposte sulla benzina, senza compiere alcun tentativo serio di rendere la questione ambientale materia di dibattito pubblico.
Come afferma Barry Holden nel suo avvincente Democracy and Global Warming, "questo non significa necessariamente che la questione ambientale avrebbe vinto la battaglia", ma "suggerisce che avrebbe avuto una possibilità, se almeno fosse stata sollevata". La crescente delusione che si va registrando è associata non solo alla debolezza - o all' assenza - di iniziative concrete, capaci di coinvolgere i cittadini nelle politiche ambientali, ma anche al palese scetticismo delle amministrazioni pubbliche circa la possibilità di appellarsi con successo al senso di responsabilità sociale dei cittadini.

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