martedì 15 luglio 2014

Verba volant (105): sconfitta...

Sconfitta, sost. f.

Immagino che tra cinquanta o sessant’anni i bambini brasiliani che, lo scorso 8 luglio, hanno assistito con sgomento alla sconfitta umiliante della loro nazionale ricorderanno quella giornata, quella partita e anche quell’incredibile 7-1, con un misto di tenerezza e di nostalgia. Il tempo lenisce le ferite - specialmente queste superficiali - e ciascuno di noi è sempre indulgente con i ricordi della propria infanzia e della propria adolescenza. Pensate che quelli della mia generazione guardano già con nostalgia agli anni ’80, un periodo davvero piuttosto brutto, che ha probabilmente l’unico merito di averci visto ragazzine e ragazzini.
E poi gli dei del football hanno una particolare predilezione per quella terra lontana e tra qualche anno la Seleção tornerà a vincere e solleverà di nuovo, per la sesta volta, l’ambito trofeo.
Ovviamente, tra cinquanta o sessant’anni anche i bambini tedeschi proveranno la stessa allegra nostalgia, riguardando i filmati della cavalcata nibelungica dei loro eroi, perché certi sentimenti sono uguali in tutti gli emisferi. Però quella partita sarà ricordata sempre come la sconfitta del Brasile e non come la vittoria della Germania.
C’è, come ovvio, una ragione oggettiva: certamente i tedeschi sono stati bravissimi, ma una semifinale del campionato del mondo può finire con un simile passivo solo se una squadra smette di giocare e i brasiliani l’altra sera hanno semplicemente smesso di giocare a calcio, limitandosi a guardare la palla che entrava impietosamente - e ripetutamente - nella loro rete.
C’è però una ragione più profonda che attiene alla natura umana.
In quella sconfitta c’è stato qualcosa di epico e nell’epica tendiamo sempre aprendere le parti per quelli che perdono. Nel drammatico duello che conclude l’Iliade soffriamo per Ettore, ci dispiace vederlo cadere, vorremmo scendere anche noi dalle porte Scee, schierarci al suo fianco, e urliamo con Andromaca quando Achille, accecato dall’odio, infierisce sul suo cadavere, forandogli i piedi e trascinandolo nella polvere, attaccato al suo cocchio.
Quando i brasiliani si sono fermati, i tedeschi sono rimasti dapprima interdetti, poi non hanno resistito alla tentazione di fare gol - e d’altra parte chi di noi non avrebbe voluto scrivere il proprio nome nella storia di quella partita? - fino a quando Mesut Özil, quando era già lanciato a rete, ha deciso di sbagliare l’ottavo gol, ricordando a se stesso, ai suoi compagni e anche noi impotenti spettatori, la lezione dei suoi antichissimi avi troiani.
Il greco Omero sa che la sua storia non può finire così, perché altrimenti noi saremmo solo dalla parte dei nemici troiani; non possiamo amare né l’arrogante Agamennone né il furbo Odisseo, ma il poeta fa in modo che amiamo proprio l’iracondo Achille. Alla fine noi soffriamo con lui perché sappiamo che il suo destino è segnato: Achille morirà dopo la morte di Ettore e quindi Achille, uccidendo il comandante troiano, decide la sua stessa morte.
E l’Iliade si conclude finalmente con l’incontro tra l’eroe e il vecchio re Priamo che, senza scorta, si reca nel campo acheo per chiedere il corpo del figlio e quindi il grande poema della guerra si chiude in questo modo, con l’incontro di due grandi sconfitti.

Nessun commento:

Posta un commento