giovedì 30 novembre 2017
da "Fontamara" di Ignazio Silone
Nessuno poteva immaginare che sciagura stesse per succedere. Teofilo era arrivato allo scongiuro contro il colera, la fame e la guerra, quando la colonia degli uomini armati sbucò sulla piazza, urlando e agitando le armi in aria. Il loro numero ci sbigottì. Istintivamente Elvira ed io ci ritraemmo indietro, in un angolo del campanile in modo da continuare a vedere senza essere viste. Gli uomini armati potevano essere circa duecento. In più del moschetto ognuno traeva un coltellaccio alla cintola. Tutti erano mascherati da morti. Personalmente non riuscimmo a riconoscere che la guardia campestre e il cantoniere Filippo il Bello; ma anche gli altri non avevano facce nuove e non venivano da lontano. In parte avevano anch'essi l'aspetto dei cafoni, ma di quelli senza terra, che vanno a servizio dei padroni, guadagnano poco e vivono per lo più di furto e di galera. In parte, come si riseppe con più precisione, erano tra essi anche sensali, di quelli che si vedono sui mercati e anche lavapiatti delle taverne, e anche barbieri, cocchieri di case private, suonatori ambulanti. Gente fiacca e, di giorno, vile. Gente servizievole verso i proprietari, ma a patto di avere l'immunità nelle cattiverie contro i poveri. Gente senza scrupoli. Gente che una volta veniva da noi a portarci gli ordini di don Circostanza per le elezioni e ora veniva con i fucili per farci la guerra. Gente senza famiglia, senza onore, senza fede, gente infida, poveri ma nemici dei poveri. Alla loro testa marciava un piccolo uomo ventruto, con una fascia tricolore sul ventre e al fianco di lui si pavoneggiava Filippo il Bello. «Cosa racconti?» domandò l'ometto con la fascia tricolore a Teofilo il sacrestano, «Invoco la pace» rispose impaurito l'uomo di chiesa. «Adesso te la do io la pace» aggiunse ridendo il panciuto e fece segno a Filippo il Bello. Il cantoniere si avvicinò a Teofilo e dopo una certa esitazione gli diede uno schiaffo. Teofilo si mise una mano sulla guancia colpita, si guardò attorno e domandò timidamente: «Ma perché?». «Vile, vile» cominciò a inveire l'ometto dal ventre tricolore. «Perché non reagisci? Sei un vile.» Ma Teofilo rimase immobile, silenzioso e più che altro sorpreso. Nella folla di donne, di bambini, di vecchi e d'invalidi lì presente, il panciuto non trovò il tipo che potesse essere provocato con miglior risultato. Si consultò un po' con Filippo e disse con disprezzo: «Mi sembra che non ci sia proprio nulla da fare». Poi rivolto alla folla, comandò con voce stridula: «Andate a casa tutti». Quando sulla piazzetta non rimase più nessun Fontamarese, l'ometto si rivolse agli uomini neri e ordinò: «Cinque per cinque, andate in ogni casa, frugate dappertutto e sequestrate ogni sorta di armi. Presto, prima che tornino gli uomini». In un attimo la piazzetta si svuotò. Si era fatto buio. Ma dal nostro rifugio, potemmo vedere le pattuglie di cinque suddividersi nei vicoletti, sparire nelle case oscure. «Senza luce sarà difficile perquisire tutte le case» io dissi. «Mio padre è a letto e si spaventerà. È meglio che io vada a casa ad accendere il lume» disse Elvira preparandosi a scendere dal campanile. «No, resta qui» io le dissi. «A tuo padre non possono fare nulla di male.» «Ma che armi cercano?» domandò Elvira. «Noi non abbiamo fucili. È una fortuna che Berardo sia in campagna.» «Porteranno via le roncole e le falci» dissi così per supposizione. «Altre armi non abbiamo.» Nessuno capiva nulla di quello che succedeva. Nessuno parlava. Ognuno guardava l'altro. [...] Ognuno pensava a se stesso. E ogni tanto arrivava qualcun altro. Che cosa avesse nella testa di fare l'omino panciuto era difficile immaginare. Portarci tutti in carcere? Era inverosimile e praticamente impossibile. Finché si trattava di stare un po' fermi nel mezzo della piazzetta del nostro paese, ognuno di noi poteva accettarlo, ma per trascinarci tutti nel capoluogo e metterci in carcere gli uomini armati li presenti non sarebbero bastati. Questi uomini in camicia nera, d'altronde, noi li conoscevamo. Per farsi coraggio essi avevano bisogno di venire di notte. La maggior parte puzzavano di vino, eppure a guardarli da vicino, negli occhi, non osavano sostenere lo sguardo. Anche loro erano povera gente. Ma una categoria speciale di povera gente, senza terra, senza mestiere, o con molti mestieri, che è lo stesso, ribelli al lavoro pesante; troppo deboli e vili per ribellarsi ai ricchi e alle autorità, essi preferivano servirli per ottenere il permesso di rubare e opprimere gli altri poveri, i cafoni, i fittavoli, i piccoli proprietari. Incontrandoli per strada e di giorno, essi erano umili e ossequiosi, di notte e in gruppo cattivi, malvagi, traditori. Sempre essi erano stati al servizio di chi comanda e sempre lo saranno. Ma il loro raggruppamento in un esercito speciale, con una divisa speciale, e un armamento speciale, era una novità di pochi anni. Erano i cosiddetti fascisti.
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