In Siria, nonostante tutto, sta succedendo qualcosa: in questa frase, e soprattutto nell'inciso, c'è - a mio parere - la notizia essenziale. Provo a spiegarmi. In questi giorni le rivolte che sono cominciate più di un anno fa in Siria, quasi contemporaneamente a quelle iniziate in Egitto, in gran parte dei paesi dell'Africa settentrionale e in alcuni stati mediorientali - ossia quella stagione che ci siamo abituati a chiamare la "primavera araba" - e che sono continuate, nonostante la repressione violentissima del regime di Assad, in tutti questi mesi con rinnovata intensità, sembra che possano raggiungere finalmente il risultato auspicato dalla maggioranza di quel popolo: ossia la fine di quel regime, uno dei più longevi della regione. Il 18 luglio in un attentato suicida sono stati uccisi a Damasco alcuni generali, tra cui il ministro della difesa e il potente capo dei servizi di sicurezza, cognato dello stesso dittatore. Si combatte nella capitale e da alcuni giorni si combatte duramente ad Aleppo, che, oltre a essere una delle grandi capitali dell'antichità - patrimonio dell'umanità dell'Unesco - è la città economicamente più importante del paese. La Croce rossa internazionale ha riconosciuto, nonostante i tentennamenti delle Nazioni Unite, che in Siria si sta combattendo una "guerra civile" e questo riconoscimento formale non è passato inosservato nel paese, sia tra i ribelli che tra i pretoriani del regime. Non si tratta soltanto di una questione lessicale; a seguito di questa decisione, se si verificheranno nuovi omicidi, oppure torture e stupri tra la popolazione, il governo siriano e l'esercito potrà essere giudicato sulla base delle norme internazionali sulla violazione del diritto umanitario e dei crimini di guerra. La cosa potrebbe interessare poco ad Assad, che troverà qualche forma di salvacondotto internazionale, ma potrebbe spingere i generali e i gerarchi del regime ad abbandonare la nave, come effettivamente sta avvenendo con maggiore intensità in questi ultimi giorni. Noi di quello che avviene in Siria sappiamo pochissimo, abbiamo i resoconti di parte del regime e degli insorti, che sono ovviamente strumenti di propaganda e servono a combattere la guerra su altri piani. Sono pochissimi i giornalisti che si avventurano nel paese, anche perché alcuni che lo hanno fatto hanno perso la vita. Lo ha fatto in queste settimane, per Rainews24 - credo occorra rendere merito a questa misconosciuta rete della nostra azienda pubblica - Salah Methnani.
La cosa nota è che nel resto del mondo c'è una paura folle di quello che potrebbe succedere in Siria. Dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Russia all'Europa sarebbero in tanti a fare carte false purché in quel paese non succedesse nulla e rimanesse in piedi il regime di Assad, non amato, ma almeno conosciuto. La Siria è una potenza regionale, confina tra gli altri con Israele e con la Turchia e quindi le tensioni alle frontiere possono avere ripercussioni internazionali molto gravi; è il maggior alleato dell'Iran e gli ayatollah interverranno quando vedranno che il loro uomo a Damasco sta davvero per cadere. In Siria, anche sulla testa dei ribelli, si sta giocando una partita all'interno del mondo arabo, nello scontro tra sciiti e sunniti, che coinvolge, oltre a Iran e Turchia, anche Arabia Saudita e le altre potenze del Golfo Persico. In questo quadro è perfino comprensibile l'atteggiamento avuto dalle cancellerie degli Stati Uniti e dei paesi europei. La Siria non è un paese periferico come la Libia, dove la Francia di Sarkozy e dei suoi intellettuali engagè ha potuto esercitare il suo spirito di potenza "umanitaria", senza il rischio di pagarne un dazio troppo elevato. In Siria chi rischiasse di metterci le mani sarebbe certamente scottato. Anche per questo non solo non c'è stato un coinvolgimento diretto - come è avvenuto appunto contro il regime di Gheddafi - ma non c'è stato neppure un coinvolgimento "emotivo" dell'opinione pubblica. Durante la "primavera araba" le opinioni pubbliche dei paesi europei hanno fatto il tifo per chi si rivoltava, anche perché i mezzi di informazione si sono da subito schierati a favore dei ribelli, presentati di volta in volta con tratti positivi - "gli eroi", come dice il poeta, "sono tutti giovani e belli" - ricordate la retorica sul popolo ribelle di internet e balle varie, mentre gli esponenti dei regimi perdenti erano presentati tutti come vecchi e corrotti, fatto salvo dimenticare che solo fino a poche settimane prima quegli stessi regimi erano presentati come i tutori dei valori occidentali contro il montante islamismo radicale. Sulla Siria è calato il silenzio, si è preferito sorvolare sui passati commenti che esaltavano le "novità" del regime - quanti articoli elogiativi abbiamo letto sul giovane Assad e sulla sua bella moglie, entrambi educati nei migliori college inglesi - e non si è parlato neppure dei ribelli, che però - si fa capire tra le righe - non sono proprio "giovani e belli" come quelli delle altre "primavere".
La cosa importante è che di tutte queste rappresentazioni ai siriani non interessa nulla. Come non interessa nulla delle inconcludenti trattative tra Stati Uniti, Russia e Cina per arrivare a una risoluzione comune delle Nazioni Unite, destinata comunque a rimanere un ennesimo pezzo di carta, o del piano di pace preparato da Kofi Annan. Anche qui è mancato da parte nostra riuscire a capire qual era la vera molla che ha scatenato le "primavere" e che mantiene viva la rivolta in Siria: quei popoli non si battono tanto per valori democratici che non hanno mai conosciuto e di cui hanno un'idea vaga, ma perché sono disperati, sono alla fame e la povertà è sempre stata la benzina di ogni rivoluzione. In paesi, come quelli mediorientali, in cui la stragrande maggioranza della popolazione è formata da giovani che vivono con economie di sussistenza e senza alcuna prospettiva per il futuro, le rivolte sono inevitabili, contro quei regimi che prima di togliere loro la libertà, ha tolto ogni prospettiva. Per questo quello che sta avvenendo in Siria, nonostante il disimpegno del resto del mondo, dimostra che le volontà dei cittadini avranno sempre più effetto e valore di qualsiasi cosa possa fare la cosiddetta comunità internazionale. C'è un affrancamento di quei popoli. L'incapacità dei governi degli Stati Uniti e della Russia, ma anche di potenze vecchie e nuove come Europa e Cina, di influenzare in qualche modo quello che avviene in Siria è la conseguenza dell'incapacità storica di tutti questi attori di trovare una soluzione per il conflitto arabo-israeliano, di creare modelli di sviluppo che coinvolgessero davvero i popoli mediorientali e non solo l'élite politica ed economica di quei paesi. Ho l'impressione che dopo anni di stasi, le primavere arabe e soprattutto quello che sta succedendo in questi giorni in Siria, ma anche un rinnovato protagonismo di paesi come la Turchia - che non si muove più come una pedina della politica statunitense nell'area - quei popoli abbiano deciso che la loro storia non si decide più in Europa - come è successo nel 1916 con l'accordo Sykes-Picot o come è successo dopo la seconda guerra mondiale con la creazione delle sfere di influenza tra Usa e Urss. Finora la storia della Siria è sempre dipesa da decisioni di altri, forse questa rivolta ci dice che noi non possiamo più decidere per loro. Comprensibile che a molti di noi questo non piaccia.
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