martedì 30 gennaio 2018

Verba volant (481): cavia...

Cavia, sost. f.

Cavia è il nome scientifico che alla fine del Settecento lo zoologo tedesco Peter Simon Pallas diede a quel piccolo roditore che in italiano è conosciuto come porcellino d'India. A dire il vero questa prolifica famiglia di animali non è originaria della terra del Gange, ma dell'America meridionale, e infatti in inglese la cavia si chiama Guinea pig, probabilmente per una storpiatura del termine Guiana. Diciamo che, almeno linguisticamente, a questi simpatici animaletti è successo quello che è capitato ai nativi americani, che noi continuiamo ancora a chiamare indiani, per quell'antico errore di Cristoforo Colombo che voleva buscar el levante por el poniente. Prima della classificazione di Pallas in tedesco questo animale si chiamava soltanto Meerschweinchen, letteralmente piccolo maiale di mare, perché probabilmente la carne di questi animali serviva a sfamare gli uomini che compivano la traversata dell'oceano.
Le cavie, grazie alla loro prolificità, sono diventate nel corso dell'Ottocento e per tutto il Novecento gli animali su cui con più frequenza venivano fatti gli sperimenti scientifici, erano testati i nuovi farmaci ed erano valutate le risposte fisiologiche a degli stimoli. Questi piccoli animali sono stati i protagonisti sconosciuti e inconsapevoli dell'incredibile progresso scientifico di cui oggi tutti noi godiamo gli effetti, anche quando ne temiamo le possibili conseguenze e ne critichiamo i metodi (ad esempio per l'utilizzo delle cavie); e infatti questa parola è diventata di uso comune per indicare tutti gli animali - compresi gli uomini - oggetto di sperimentazione animale.
Grazie alla scoperta di alcuni quotidiani tedeschi abbiamo saputo che gli scienziati dell'università di Aquisgrana hanno testato gli effetti dei gas di scarico su una serie di persone, che avevano accettato consapevolmente di fare quel lavoro. Ora quel laboratorio non è più in attività e i responsabili delle più importanti case automobilistiche tedesche - destinatari di quei test - hanno recisamente smentito di sapere che erano state utilizzate cavie umane.
Una volta, quando facevo un altro mestiere, ho avuto l'occasione di vedere uno di questi esperimenti con i roditori. Credo che in quel caso - come ormai avviene oggi nella grande maggioranza dei laboratori scientifici - si trattasse di topi, visto che questi animali sono più facili da trovare delle cavie. Quei piccoli topi bianchi "abitavano" in tante piccole cellette poste una sull'altra a formare una sorta di grattacielo e quei loro piccoli "appartamenti" erano sottoposti, ovviamente in scala ridotta, allo stesso livello di onde elettromagnetiche che arrivano quotidianamente, a ogni ora del giorno e della notte, nelle nostre case. Quei topini, che stavano sicuri e al caldo in quelle loro tane artificiali e ricevevano ogni giorno la giusta dose di acqua e di cibo, eravamo noi che abitiamo nelle nostre case, sostanzialmente ignari di tutto quello che ci gira intorno, ci colpisce senza che lo percepiamo e lentamente ci uccide. Si trattava di un esperimento molto serio, condotto da scienziati che lavoravano - e lavorano - per il nostro benessere, che serviva per capire quanto siano pericolose le onde elettromagnetiche e quanto debbano essere ridotte per non danneggiarci.
Al di là delle ottime intenzioni di quegli scienziati, continuo a ricordarmi di quei topi. Di quanti esperimenti noi siamo cavie ignare, tutti i giorni?
Ogni giorno su di noi, mentre siamo chiusi nelle nostre cellette così confortevoli, vengono testati nuovi prodotti, ogni giorno veniamo sottoposti a nuovi stimoli - a volte elaborati, a volte elementari - affinché decidiamo di comprare quello shampoo o di votare per quel partito. Ogni giorno vengono fatti su di noi degli esperimenti. Quegli scienziati vedono quanto possiamo sopravvivere dopo averci inquinato l'acqua e l'aria e come ci adattiamo a un ambiente sempre meno ospitale. Sperimentano quanti di noi possono stare in una barca prima che questa affondi, fino a che punto la disperazione della nostra condizione ci fa dimenticare i pericoli che un viaggio su quelle barche può comportare, dove siamo disposti a spingerci pur di salvare le persone a cui vogliamo bene, cosa siamo disposti a vendere - il nostro corpo, il nostro lavoro, la nostra intelligenza, la nostra dignità - pur di garantire un futuro diverso per i nostri figli, quante ingiustizie possiamo sopportare senza chiederne conto. Ma sperimentano anche quanto odio possiamo provare verso i nostri simili, quante altre cavie come noi siamo disposti a sfruttare, a tradire, a uccidere; mentre aspettiamo tranquilli la nostra porzione di fieno. 

domenica 28 gennaio 2018

Verba volant (480): candidato...

Candidato, sost. m.

L'etimologia di questa parola è molto semplice, quasi intuitiva, anche se spesso ce ne dimentichiamo. Nell'antica Roma chi si presentava al popolo per essere eletto a una qualche carica indossava una toga bianca, candida appunto, a simboleggiare la propria onestà; per lo stesso motivo, seppur in un'altra epoca, si usava che le spose vestissero di questo verginale colore. Immagino che già gli antichi abitanti dell'Urbe, che ne avevano viste parecchie, fossero piuttosto scettici di fronte a quel nugolo di toghe immacolate che nei giorni precedenti le elezioni passeggiavano per il foro. Per fortuna i tempi sono cambiati e al giorno d'oggi i candidati possono vestirsi - e svestirsi - come vogliono; e possono anche essere palesemente disonesti. 
La discussioni e le polemiche di questi giorni intorno alle liste mi hanno fatto tornare in mente una storia accaduta solo ventiquattro fa, nel marzo del 1994, durante la campagna elettorale per le elezioni politiche di quell'anno, le prime con il sistema maggioritario. Noi del Pds avevamo dato vita alla coalizione dei Progressisti, passata alla storia per l'infelice definizione dell'allora segretario Achille Occhetto come la "gioiosa macchina da guerra". I collegi dell'Emilia-Romagna erano "sicuri", avrebbe vinto il candidato dei Progressisti chiunque fosse, e quindi furono diversi gli alleati paracadutati qui da ogni parte d'Italia e anche i dirigenti nazionali del nostro partito che preferirono farsi votare qui piuttosto che nelle loro città. Nel collegio 19 della Camera - che comprendeva anche Granarolo - venne candidato Ottaviano Del Turco. Al di là del giudizio sulla persona - che ricordo con piacere - fummo i più sfortunati della provincia, perché sui rapporti tra noi e i socialisti pesava ancora, e molto, Craxi: per noi sarebbe stata una campagna elettorale non delle più semplici. Ricordo le riunioni in sezione, i mugugni dei compagni, ma alla fine il candidato era quello, anzi i compagni di Bologna ci spiegarono che la scelta non era così strana, dal momento che in alcuni comuni importanti del collegio - come Budrio - il Psi era ben radicato e poi c'era anche Molinella, da sempre roccaforte dei "saragattiani": in queste particolari circostanze Del Turco sarebbe stato il candidato ideale. Ci parve una giustificazione stiracchiata, ma cominciammo a lavorare e fu una bella campagna elettorale. Per inciso ricordo che le maggiori difficoltà in quelle settimane furono causate proprio dai socialisti del nostro territorio, che non amavano quel loro dirigente per come si era opposto a Craxi e che non fecero nulla per facilitarci il lavoro. Peraltro Del Turco ci chiese di visitare molte fabbriche, cosa su cui nutrivamo qualche dubbio visto che per i nostri compagni era quello che aveva spaccato la Cgil sul referendum della scala mobile; ma anche questi incontri andarono bene, perché spesso era lui per primo che affrontava la questione, e non evitava di parlarne: la sua franchezza e la passata comune militanza sindacale furono premiate.
Per me quella fu la prima volta in cui ebbi l'opportunità di uscire dal mio paese per fare politica. Si costituì una sorta di coordinamento con rappresentanti di tutti i comuni e di tutte le forze politiche, affidato dalla Federazione alla capacità e alla pazienza di Paola Bottoni, e io fui indicato come il rappresentante di Granarolo. Oltre a Paola, e ai compagni di Castenaso che conoscevano mio padre e questo a loro bastava per conoscere anche me, conobbi alcuni compagni - voglio ricordare per tutti Augusto Dallacasa - con cui avrei lavorato in molte occasioni negli anni a venire: in qualche caso mi toccò fare la parte del compagno di Bologna che doveva giustificare, in qualche modo più o meno convincente, una candidatura non gradita.
Vincemmo nel collegio 19, vincemmo praticamente in tutti i collegi delle cosiddette "regioni rosse", ma quelle elezioni le vinse - come noto - Berlusconi e cominciò tutta un'altra storia.
Credo che possiate legittimamente chiedermi perché vi ho parlato di questa storia. Francamente non lo so. Probabilmente solo per il gusto di raccontarvi qualcosa. O forse per ricordare a voi - e anche a me - che non conta tanto il modo di scegliere i candidati - che può essere pessimo, come gli indecorosi spettacoli a cui abbiamo assistito in questi giorni da parte di quasi tutte le forze politiche, ma che non è mai perfetto, perché il sistema perfetto non esiste - e non contano neppure tanto i candidati scelti in questi vari modi - che possono essere pessimi, come gran parte di quelli che ci saranno propinati nelle prossime settimane, e che non saranno mai perfetti, perché anche noi elettori non lo siamo - ma quello che conta davvero è la politica. Allora mi pare che provassimo a farla, poi non la facemmo bene visto quello che è successo in questi ventiquattro anni. Ma almeno possiamo dire di averci provato. Sarebbe bello che qualcuno tornasse a provarci.     

mercoledì 24 gennaio 2018

Verba volant (479): programma...

Programma, sost. m.

Programma è una parola del greco antico arrivata, attraverso il latino, senza alcuna modifica fino a noi e significa propriamente ciò che è scritto prima. Ad Atene il programma era il messaggio scritto dai pritani e affisso in vari punti della città affinché tutti i cittadini potessero sapere quale sarebbe stato l'argomento discusso in assemblea. Questo semplice mezzo di comunicazione ci chiarisce quindi un punto chiave della democrazia ateniese dell'età classica. I pritani erano i cinquanta magistrati, scelti attraverso un rigido meccanismo di sorteggio, a cui era affidato il compito di gestire i lavori della ecclesia, ossia dell'assemblea di tutti i cittadini di Atene, il massimo organo a cui era demandato il potere legislativo della polis. I pritani erano quindi semplici cittadini che per poco più di un mese erano chiamati a svolgere un incarico per il proprio paese e che per questo venivano pagati con un'indennità giornaliera e ricevevano un pasto, che consumavano in comune. Erano artigiani, contadini, marinai, potevano essere ricchi proprietari di terra o spiantati che non avevano un lavoro: proprio per questo rappresentavano tutti quelli che partecipavano all'assemblea, e tutti avevano la possibilità - tutt'altro che teorica - di diventare pritani a loro volta, anche perché ogni ateniese poteva avere questo onore al massimo due volte nella vita. Perché questo non semplice sistema istituzionale funzionasse occorreva una condizione essenziale, che tutti i cittadini ateniesi sapessero leggere e scrivere, anche perché non esisteva una burocrazia che supportasse il loro lavoro. 
Non ci sono ragioni per mitizzare quel sistema, che poteva funzionare soltanto in una piccola comunità: prima che scoppiasse la guerra del Peloponneso Atene - con la sua campagna attica - era una città di circa duecentomila abitanti, più o meno come il solo centro urbano di Parma. Ma non bisogna dimenticare che la democrazia ateniese escludeva gli stranieri, gli schiavi e le donne. I cittadini maschi liberi e adulti, che quindi potevano partecipare all'assemblea, erano circa quarantamila. Comunque quei quarantamila, indipendentemente dalla loro nascita e dalle loro ricchezze, riuscivano a comprendere un testo scritto e, seppur con qualche difficoltà in alcuni casi, potevano scriverlo, quindi erano in grado di scrivere e leggere il programma. La democrazia può nascere soltanto così, quando le persone chiamate a parteciparvi sono messe in condizione e sono state educate per farlo.
C'è stato un tempo lontano - ma non lontano come l'Atene di Pericle - in cui io per lavoro facevo le campagne elettorali. In quel tempo mi è capitato di contribuire a scrivere qualche programma elettorale: evidentemente già allora avevo questa mania, di cui ora siete voi a fare le spese. Credo che poche cose al mondo siano così poco lette come quei documenti, che pure tutti evocano e invocano. Quante volte abbiamo sentito la frase ci vuole il programma? Quante volte lo abbiamo chiesto anche noi, salvo poi non leggerlo una volta pubblicato.
Facciamoci un esame di coscienza: abbiamo mai letto davvero tutto un programma elettorale? No, perché non ci serviva, perché ci hanno insegnato a dare il nostro voto non per quello che c'è scritto in un programma, ma in forza di un sistema di valori. Il vero motivo per cui ci sentiamo così estranei oggi alla politica è proprio questo: il fatto che sistematicamente i valori sono stati sradicati dalla politica e si è lasciata al loro posto una terra arida, senza alcuna radice.
Anche i cittadini di Atene davano il loro voto in assemblea in base a sistemi di valori radicati e contrapposti: c'erano quelli più conservatori e quelli più progressisti, quelli che sostenevano una politica egemonica e quelli che pensavano fosse necessario trovare un accordo con le città avversarie, quelli che volevano favorire le attività commerciali e quelli che invece preferivano basarsi sull'economia agricola. Poi naturalmente c'era la capacità di alcuni leader di imporsi in città e di dare vita a qualcosa di molto simile a un partito. Poi c'erano interessi molto meno nobili, perché i voti potevano anche essere comprati e venduti. E in un'assemblea di migliaia di persone c'erano fattori spesso imprevedibili: un discorso davvero efficace e ispirato era capace di spostare le emozioni e i voti di una maggioranza dei cittadini, anche se per solo una giornata. Per questo l'assemblea di Atene era per lo più incontrollabile. Comunque sia né Pericle né Cimone né gli altri leader ateniesi hanno mai dovuto scrivere un programma elettorale; e nessuno di quelli che votavano per loro glielo ha mai chiesto.
Come nessuno ha mai chiesto di conoscere il programma del Pci e della Dc, nessuno ha mai chiesto di sapere ciò che è scritto prima, perché sapevamo già cosa avrebbero fatto - o non fatto - dopo: bastavano i valori, le idee, e gli uomini e le donne che li rappresentavano. Poi c'erano tutti gli aspetti meno commendevoli che abbiamo già visto nell'Atene classica: l'adesione acritica verso un leader, il voto scambiato per una qualche prebenda, la difesa del proprio particulare fingendo di occuparsi del bene pubblico. Ma al di là di tutto c'erano dei valori e questi bastavano. E questi non potranno mai essere sostituiti da un programma, per quanto completo e articolato, per quanto ben scritto. 
E anche stavolta, nonostante raccontiamo - ai noi stessi più che agli altri - che voteremo questo o quel partito perché ne condividiamo il programma, per quello che hanno scritto prima, noi voteremo qualcuno ancora in base alle nostre idee, sperando che quello che farà dopo non sia troppo diverso da queste. Una speranza che svanirà molto velocemente.

sabato 20 gennaio 2018

Verba volant (478): maestro...

Maestro, sost. m.

Magari possiamo crederlo quando siamo ragazzi, ma invecchiando scopriamo che non è vero che gli eroi son tutti giovani e belli. E crescendo scopriamo anche che i nostri maestri non sono le persone che pensavamo che fossero. Scopriamo che gli scrittori, gli artisti, i filosofi che ci hanno insegnato a vivere, che hanno formato la nostra personalità e la nostra cultura, non sono le persone che ci eravamo immaginati dalle loro opere. Scopriamo che erano bugiardi, adulteri, giocatori, invidiosi, ladri e anche peggio, ma, nonostante tutto, mostriamo verso di loro indulgenza, perché siamo grati di quello che ci hanno lasciato - e spesso le loro opere sono figlie di questi vizi - e anche perché quelle colpe sono anche le nostre. Siamo indulgenti verso di loro perché lo siamo verso di noi e perché riusciamo sempre a trovare una giustificazione per noi, e quindi anche per loro.
Ma cosa succede quando la colpa è qualcosa di terribile, qualcosa per cui non riusciamo a provare indulgenza? Cosa succede quando un artista che amiamo fa qualcosa per cui proviamo orrore, è colpevole di qualcosa di così grave da far vacillare persino la nostra idea, così saldamente radicata, che nessun reo meriti la morte? La violenza verso i bambini è per me - come credo per moltissimi di voi - uno di questi crimini che non possono avere né giustificazione né perdono. E se di questo crimine viene giudicato colpevole un mio maestro? Continuerò a considerarlo tale? Continuerò a leggere, a guardare, a studiare le sue opere?
Non si tratta di un caso di scuola, di una sorta di esercitazione filosofica, ma di qualcosa di cui devo occuparmi perché uno dei registi che amo di più, l'autore di Io e Annie Zelig e di molti altri film, è accusato di aver molestato la propria figlia adottiva, quando aveva solo sette anni. Vorrei non fosse così, lo vorrei soprattutto per la vita di quella giovane ragazza che comunque è la vittima di questa storia, perché, anche nel caso che le accuse fossero inventate, si troverebbe al centro di un drammatico e implacabile conflitto familiare, di cui lei certamente non ha colpa.
Accettiamo che le accuse siano vere - sono comunque verosimili - e credo che abbiano fatto bene alcuni attori - da ultimo è stato Colin Firth - ad annunciare che non sono più disponibili a lavorare con Woody Allen, anche se questo atteggiamento, se diventasse condiviso da molti, potrebbe portare al fatto che il regista newyorkese non potrà più fare film. Ma cosa dovremmo fare con i film che ha già fatto? Dovremmo smetterli di guardarli, di consigliarli, di considerarli bellissimi, come effettivamente sono? Dovremmo smettere di cercare di capire il rapporto tra donne e uomini attraverso quei film? E nessuno sa raccontare le donne come lui. Dovremmo rinunciare a interrogarci sulla colpa e sull'identità, altri temi sempre presenti nell'opera di Allen? O dovremmo smettere di ridere o di essere cullati dalla nostalgia, perché il loro autore è un molestatore di bambini?
Maestro deriva da una forma contratta del latino magister, che ha la stessa radice di magnus, grande, e ne è un comparativo: il maestro è etimologicamente colui che è più grande di noi e quindi ha il diritto di insegnarci. Un maestro che commette una colpa così grave non è più grande di noi e quindi dovrebbe perdere tale diritto. Però ci sono le sue opere e quelle continuano a fare quello che devono. Capisco che può apparire gesuitica e ipocrita questa distinzione tra l'autore e le sue opere, eppure mi pare l'unico modo per affrontare questo tema così delicato.
In Crimini e misfatti, un altro dei grandissimi film di Allen, l'unico personaggio positivo pare il professor Louis Levy, l'intellettuale capace di capire il dramma degli uomini e di trovarne una possibile soluzione. Nel documentario che girano su di lui il professore dice tra le altre cose:
La felicità umana non sembra fosse inclusa nel disegno della creazione, siamo solo noi, con la nostra capacità di amare, che diamo significato all'universo indifferente. Eppure la maggior parte degli esseri umani sembra avere la forza di insistere e perfino di trovare gioia nelle cose semplici: nel loro lavoro, nella loro famiglia e nella speranza che le generazioni future possano capire di più.
Il professore sembra aver trovato il senso della vita, ma la registrazione del documentario deve essere interrotta, perché il professor Levy si suicida, contraddicendo con questo gesto estremo tutte le sue parole.
Spesso i maestri non sono i più grandi, forse non è neppure necessario che lo siano. E se i maestri fossero sopravvalutati, se fossimo più importanti noi che impariamo dai nostri e dai loro errori? Perché alla fine non possiamo dare la colpa ad altri di quello che siamo e neppure pensare che sia merito di altri: siamo noi responsabili di quello che siamo, nel bene e nel male. E soprattutto per le cose buone che avremo fatto e per quelle cattive, perché tutti commettiamo le une e le altre: non c'è bianco e nero, ma solo una vastissima gamma di grigi. E per questo saremo giudicati e ricordati: discepoli e maestri.

mercoledì 17 gennaio 2018

Considerazioni libere (421): a proposito di una donna vittima degli uomini...

Ci sono artisti capaci di superare le barriere del tempo: Giuseppe Verdi è senz'altro uno di questi. Mia moglie ed io abbiamo avuto la fortuna di assistere al Regio di Parma a un bellissimo allestimento del Rigoletto. Si è trattato di un'occasione speciale e unica: celebrare i cinquant'anni in cui il grande baritono Leo Nucci ha interpretato questo ruolo, in oltre cinquecento rappresentazioni in ogni parte del mondo.
È stato ripreso uno storico allestimento della fine degli anni Ottanta, senza alcun tentativo di attualizzare l'opera - come troppe volte si tenta di fare, con risultati non sempre felici - eppure, guardato e ascoltato oggi, con la sensibilità di oggi, pensando a quello che succede ogni giorno intorno a noi, Rigoletto ci racconta una storia i cui tratti essenziali sono assolutamente attuali.
Il duca di Mantova è un predatore sessuale, un maschio che gode unicamente della conquista, incapace di provare una qualsivoglia forma di amore, perché questa o quella per me pari sono. Non è consapevole del dolore che lascia dietro di sé, il suo unico obiettivo è appagare il proprio piacere. Un tipo del genere dovrebbe essere fermato, ma è un uomo di potere e quindi questa sua voracità sessuale non può essere sanzionata, anzi viene non solo tollerata, ma in qualche modo assecondata da chi sta intorno a lui, cortigiani vil razza dannata. Basta aprire un qualsiasi giornale per vedere le vicende di tanti uomini come il duca, uomini che usano il loro potere per soddisfare i propri appetiti ai danni delle donne e che, come il duca, sanno sempre trovare una giustificazione del loro comportamento. L'ultima aria cantata dal duca è la celeberrima La donna è mobile, una canzonaccia da osteria, per quanto resa sublime dalle note di Verdi. Il duca ci dice che non è colpa sua, ma è colpa delle donne che sono volubili e che si offrono: è il se l'è cercata, che diventa l'alibi di qualunque predatore.
Rigoletto è un padre egoista, un uomo che, pur dicendo che fa tutto quello che fa per amore della figlia, è concentrato solo su se stesso. Il mondo di Rigoletto comincia e finisce in lui e la figlia deve vivere in questo mondo asfittico in cui c'è un solo dominus. Rigoletto ama la figlia in maniera smisurata, ma come estensione di sé e per proteggerla la tiene esclusa dal mondo, le nasconde perfino il proprio nome, le impedisce di vivere. E anche Rigoletto, come il duca, non arriva mai a essere consapevole della propria colpa. Di fronte al corpo senza vita della figlia, uccisa per la sua cieca brama di vendetta, il buffone non riconosce la propria responsabilità, ma incolpa la maledizione lanciata su di lui. Questo urlo, che chiude il dramma, suggella l'ennesima fuga dalle proprie colpe. E quante volte abbiamo sentito le parole di un padre come Rigoletto: l'ho fatto per il suo bene, perché lei non poteva capire, ho dovuto decidere io per lei. No, tua figlia capiva benissimo, ma tu non eri capace di accettare le sue decisioni, non volevi accettarle, perché l'hai sempre considerata una tua proprietà.
Gilda è la vittima di questi due uomini ed è la sola che muore. Eppure Gilda li ama, anzi è l'unica capace di amare davvero. Ama suo padre, nonostante la tenga reclusa, nonostante non le abbia mai insegnato a vivere, si sforza di capire il dramma di quell'uomo e si convince che accettare quella forzata prigionia lo faccia star meglio. E la accetta, anche se ne soffre. Ama il duca di Mantova, lo ama nonostante lo veda mentre la tradisce, mentre dice a un'altra le stesse parole che ha detto a lei, e lo ama al punto da sacrificarsi per lui, anche se sa che non lo merita e che lui non conoscerà mai questo sacrificio. Quante donne sono state vittime di questo amore sbagliato, di questo amore che le ha rese cieche, anche all'evidenza. Quante donne non hanno denunciato l'uomo che le picchiava perché convinte - come Gilda - che ma pur m'adora. E aspettano, e troppe volte aspettano fino a quando lui le uccide.
Gilda è certamente migliore dei due uomini che hanno voluto possederla. L'unica decisione che ha potuto prendere da sola nella sua vita è quella di consegnarsi al sicario che la ucciderà, il dramma che vive quella giovane donna è che la sua libertà si compie nell'accettare la morte, in una scelta sbagliata, in quella di annullarsi. Ancora una volta.

lunedì 15 gennaio 2018

Verba volant (477): fascismo...

Fascismo, sost. m.

Quando c'era lui... è ormai una frase che ci sentiamo ripetere sempre più spesso, e non solo da alcuni vecchi nostalgici. Infatti questa frase - variamente articolata e variamente espressa - è diventata una sorta di refrain che possiamo ascoltare da persone delle più diverse provenienze politiche, tutti quelli che vogliono spiegarci che Mussolini e i fascisti hanno fatto anche cose buone.
Dal punto di vista della storiografia, è la scoperta dell'acqua calda: è ovvio che quel regime ha compiuto azioni politiche positive per la crescita sociale ed economica di questo paese. Il fascismo è durato vent'anni e ha avuto un consenso - sincero - molto ampio; non basta la forza della propaganda per spiegare le ragioni di questa convinta adesione. Il regime fascista ha avviato un vasto programma di opere pubbliche che ha dato lavoro a migliaia e migliaia di persone e che ha cambiato il paese, ha creato un sistema di welfare, migliorando le condizioni di vita di tantissime famiglie. Questi sono dati di fatto facilmente dimostrabili, anche senza fidarsi della memoria dei nostri vecchi, che ovviamente tendono a ricordare con indulgenza l'età in cui erano bambini. Lo facciamo tutti.
Riconoscere questi risultati e anche ammirare alcune delle cose che quel regime ci ha lasciato - ad esempio io ho sempre trovato l'Eur molto bello - non significa essere fascisti o nostalgici. Significa soltanto aver studiato un po' di storia. Cosa che non hanno fatto quelli che in questi anni si sono ritrovati a parlare delle "cose buone" fatte dal fascismo.
L'aspetto preoccupante di queste frasi, a volte buttate lì senza molto rifletterci e spesso usate in maniera spericolata per agguantare qualche voto nei circoli del fascismo più estremo, non è tanto quello che dicono - che è anche vero - ma quello che non dicono, o meglio quello da cui nascono queste parole in libertà. Quando la politica diventa sempre più una tecnica, apparentemente neutra, e sempre meno un sistema di valori - come è avvenuto e come continua ad avvenire - allora è naturale guardare solo ai risultati. E quei risultati sono numeri. Quanti bambini grazie alle colonie volute dal regime hanno potuto fare le vacanze? Moltissimi; e allora chi non sa altro applaude Mussolini. Ma la politica è un'altra cosa, è appunto un insieme di valori, un progetto ideale, anche un'utopia per molti di noi. Quel sistema di welfare dedicato all'infanzia era finalizzato a creare consenso, a plasmare l'educazione delle italiane e degli italiani. E ci riusciva, con un certo successo.
Credo ricorderete Una giornata particolare, il più bel film di Ettore Scola e certamente uno dei più significativi per capire il fascismo. Antonietta, il personaggio interpretato con dolorosa rassegnazione da Sophia Loren, non è fascista, eppure ha il suo album di ritagli con le foto di Mussolini e con gli slogan del fascismo. Antonietta è fascista perché il mondo attorno a lei è tutto fascista e perché il fascismo riempie la sua vita. Il fascismo le ha permesso anche di vivere meglio dei suoi genitori, di abitare in un appartamento con la luce elettrica, per quanto modesto. Permette ai suoi figli di andare a scuola. E Antonietta è fascista e fatica persino a capire perché Gabriele, l'annunciatore Eiar a cui presta il suo volto malinconico Marcello Mastroianni, non lo sia. Il fascismo era l'indottrinamento in cui Antonietta viveva e stava crescendo i suoi figli, era quel sistema di valori così onnipresente, grazie anche alla forza del sistema della comunicazione radiofonica. E allora quando parliamo delle "cose buone" del fascismo non possiamo separare questi due aspetti: per questo si dice regime totalitario, perché un regime così tende a plasmare tutta una società, mettendo ai margini gli irregolari, i diversi, quelli incapaci di adeguarsi, come Gabriele.
A me preoccupa non tanto la nuova insorgenza del fascismo, con quelle caratteristiche di violenza che sappiamo grazie ai libri di storia - che pure è un fenomeno che esiste e che va tenuto sotto controllo - ma il fatto che tanti non capiscano la differenza e che per tanti quel governo fu un governo come gli altri, che fece cose giuste e cose sbagliate. Mi preoccupa che per tanti - per la maggioranza temo - la politica non sia più un sistema di valori, ma una sorta di grande abaco con le sue palline colorate: le cose buone da una parte e quelle cattive dall'altra, poi si contano e si sceglie. E' la logica che sta dietro ai governi dei "tecnici", ai governi delle "larghe intese", ai governi per tutte le stagioni, perché qualcosa di buono lo fanno tutti, anche per sbaglio. Ma ognuna di quelle palline colorate non è solo un numero, ma è una persona.
A me fa paura un nuovo fascismo che si sta facendo sempre più forte - quello imposto dal capitale -che tende a omologare tutto, a nascondere le differenze e i conflitti, che ci dice che c'è un'unica ricetta. E' un fascismo che non ci vuole in divisa, apparentemente non ci vuole tutti uguali, ma ci omologa, perché ci considera solo un numero, una statistica, un dato nei fatturati, perché esistiamo quando consumiamo e quando compriamo. Ed è un fascismo da cui sarà molto difficile liberarci, molto più difficile di quanto sia stato togliere di mezzo quel regime che fece anche "cose buone". 

domenica 14 gennaio 2018

Verba volant (476): cesso...

Cesso, sost. m.

Il Pianigiani nel suo celebre Dizionario etimologico di fine Ottocento affronta certi lemmi con una certa comprensibile riluttanza, ma non può certo esimersi dal compito. Ci spiega quindi che trattasi di "quel luogo appartato della casa, ove si suol deporre le superfluità del ventre, che più comunemente dicesi luogo comodo". Si tratta infatti del participio passato del verbo latino cedere, che significa ritirarsi. Per questo nei treni si usava la parola ritirata, prima che i termini stranieri toilette e wc ci togliessero dall'imbarazzo.
Comprensibilmente The Donald, nonostante la sua carica, non dimostra la stessa ritrosia dell'etimologista senese: se deve dire cesso, dice cesso. Anzi usa quella parola come un manifesto politico e con quella parola lancia un segnale preciso. A dire il vero Trump ha usato una parola ben più volgare del termine italiano di cui oggi mi occupo in Verba volant. E sono convinto che lo abbia fatto di proposito. Perché sapeva che quella scurrilità, pur usata nel corso di un incontro riservato, sarebbe trapelata e avrebbe provocato le reazioni indignate di quelli che parlano bene, dei grandi giornali, mentre sarebbe stata molto apprezzata dai suoi elettori, da quelli che l'hanno votato e anche da qualcuno che non l'ha votato, ma che sul punto la pensa esattamente allo stesso modo e si è rotto le scatole di ascoltare in televisione i commenti politicamente corretti di quelli che spiegano quali parole possono essere usate e quali no.
Quella parola così volgare è servita a Trump per riannodare i fili con un'America profonda che pensa che gli Stati Uniti non debbano continuare ad accogliere quella gente là e che considera ipocrita quelli che oggi hanno criticato il presidente pur pensando sostanzialmente la stessa cosa.
Il problema non è quale termine Trump abbia usato, ma che idea oggi sia prevalente in una società come quella degli Stati Uniti. E anche nella nostra. Evidentemente nonostante otto anni di un presidente nero, nonostante tanti telefilm così attenti a bilanciare la presenza delle tante componenti della società americana, nonostante un'attenzione maniacale per l'uso delle parole - o probabilmente anche come reazione a tutte queste cose - un pezzo rilevante della società americana, forse maggioritaria, crede che sia colpa di quegli stronzi di immigrati che farebbero meglio a stare nei loro cessi di paese. Trump ha detto quello gli americani volevano sentirsi dire, anzi ha usato le stesse parole che usano loro, non come quegli altri damerini della televisione che hanno paura di usare certe parole.
Ovviamente per noi che siamo dalla parte giusta, per noi che non usiamo cesso neppure per dire che dobbiamo andare a deporre le superfluità del ventre e che non penseremmo mai di usare quel termine per definire i paesi da cui vengono le donne e gli uomini che arrivano nei nostri paesi, per noi che siamo così bravi, è facile criticare Trump, è facile dire che è un rozzo troglodita, ma quando lo abbiamo criticato, quando ci siamo messi la nostra brava medaglia al valore del politicamente corretto, non abbiamo fatto nulla per affrontare la questione vera, ossia quello che pensano le persone che hanno votato Trump, che sfogano in questo modo - sbagliato e ignorante fin che si vuole, ma è il loro modo - le loro paure e le loro insicurezze. Anzi rischiamo che queste critiche rafforzino Trump, perché, al di là dello sdegno per quella volgarità, non abbiamo dato una risposta a quelle paure.
Mentre Trump - e quelli come Trump - una risposta l'ha data: il muro, noi di qua e loro di là. E' qualcosa che si capisce, che alla lunga non funziona - noi lo sappiamo, ma loro no - mentre la nostra risposta è incomprensibile.
La nostra risposta è per forza di cose più complessa, perché è più difficile - ma non così difficile -  spiegare che i nemici non sono quelli di là dal mare, ma sono i padroni, sono quelli che ci sfruttano, sono quelli come Trump, ma credo sia necessario fare uno sforzo per usare parole chiare. E soprattutto avere il coraggio e la capacità di parlare con quelle persone che hanno paura e che fino ad ora hanno creduto solo a quelli come Trump.
E a Trump diciamo di stare attento: prima o poi riusciremo a tirare la catena.
 

giovedì 11 gennaio 2018

Verba volant (475): università...

Università, sost. f.

Pur essendo un non-elettore di Liberi e Uguali, non sono tra quelli che hanno accolto con sufficienza la proposta di Pietro Grasso di abolire le tasse universitarie; per quanto parziale, mi sembra una scelta giusta e condivisibile, anche se credo andrebbe accompagnata con una riflessione su questo tema un po' più ampia, che probabilmente non può essere fatta durante queste concitate settimane di campagna elettorale, ma che prima o poi a sinistra dovremmo cominciare a fare.
Sinceramente non ricordo quanto pesassero sull'economia della mia famiglia le tasse universitarie quando io mi iscrissi all'Alma mater - era la fine del Novecento, c'erano ancora il Pci e l'Unione sovietica - anche se credo meno di quanto pesino ora. Ricordo che i libri erano un costo gravoso, e immagino sia ancora così. E sarebbe stato molto oneroso mantenermi in un'altra città, se non fossi vissuto a pochi chilometri da Bologna: ricordo che per gli studenti delle altre regioni l'affitto era una spesa notevole e penso sia ancora così. Tra l'altro si trattava per lo più di soldi in nero, che alimentavano - e alimentano - un'economia illegale grazie a cui tanti "bravi" bolognesi prosperavano - e prosperano.
Comunque sia, per i miei genitori operai mantenere un figlio all'università era una spesa considerevole, ma in qualche modo sostenibile, seppur facendo dei sacrifici. Per loro, che si erano fermati alle elementari e all'avviamento, quel costo rappresentava un investimento per il futuro, l'assicurazione che io avrei trovato, grazie a quel fatidico "pezzo di carta", un lavoro migliore del loro e avrei avuto una vita migliore della loro. Sono grato ai miei genitori di avermi dato questa opportunità, che mi è servita molto, non solo per fregiarmi del titolo di dottore, ma soprattutto perché quell'esperienza mi ha fatto crescere, mi ha fatto incontrare libri, persone, idee, mi ha fatto amare il mondo antico e tanto altro ancora. E ha anche permesso quello che i miei genitori si erano proposti: ora lavoro anche grazie a quella laurea, non sono diventato ricco - non ne avevo neppure l'ambizione - ma comunque sto un po' meglio dei miei genitori.
Se mia moglie ed io avessimo un figlio o una figlia credo faremmo di tutto affinché potesse frequentare l'università e comunque, anche pagando le tasse universitarie, faremmo meno sacrifici di quelli che hanno fatto i nostri genitori, ma non avremmo la loro stessa ottimistica consapevolezza. Sapremmo che quella laurea non sarebbe una garanzia per il suo futuro. Se non partiamo da qui mi sembra che la discussione sull'abolizione o meno delle tasse universitarie sia assolutamente irrilevante. E probabilmente anche ingiusta, nonostante i buoni propositi di partenza. Perché oggi, probabilmente più che negli anni in cui mi sono laureato io, è più facile che si laurei il figlio di un padrone che il figlio di un operaio, e rischiamo che l'abolizione delle tasse universitarie faccia risparmiare un po' di soldi al primo - magari per comprarsi un'altra auto o per andare in vacanza - piuttosto che aiutare il secondo a laurearsi.
Più che abolire tout court le tasse universitarie riduciamole drasticamente in base al reddito, finanziamo le borse di studio, che sono state radicalmente ridotte, aiutiamo gli studenti più poveri - e gli studenti lavoratori - ad acquistare i libri, facciamo politiche attive affinché i fuorisede non siano taglieggiati dai proprietari di casa. E poi diamo valore all'educazione universitaria, facciamola diventare un bene su cui tutti noi, anche se non abbiamo figli, dobbiamo investire. In una società in cui conta di più andare al Grande fratello o avere un bel paio di tette non è facile spiegare ai nostri figli e alle nostre figlie che devono studiare, e poi che devono lavorare grazie a quello che hanno studiato. In una società in cui l'educazione è un valore si possono anche pagare le tasse universitarie.

martedì 9 gennaio 2018

"Bambino di Modena" di Gianni Rodari


Perché in silenzio
bambino di Modena,
e il gioco di ieri
non hai continuato?
Non è più ieri:
ho visto la Celere
quando sui nostri babbi ha sparato.

Non è più ieri, non è più lo stesso:
ho visto, e so tante cose, adesso.
So che si muore una mattina
sui cancelli dell’officina,
e sulla macchina di chi muore
gli operai stendono il tricolore.

lunedì 8 gennaio 2018

Verba volant (474): canone...

Canone, sost. m.

Questa è una parola che ha una storia che merita di essere raccontata. In greco antico il κανών era il regolo, il bastone di legno - è la stessa radice di canna - usato dagli artigiani come unità di misura. Ma già in Omero questa parola viene usata in senso figurato per indicare una norma e questo significato ha avuto una particolare fortuna. Eusebio di Cesarea, che fu il primo storico della chiesa nascente, prima di diventare eretico, chiamò canoni le tabelle, ideate da lui, in cui raccolse i passi concordati dei vangeli. Nel codice teodosiano canone indica l'ordinamento dei tributi in natura delle province e quindi così viene chiamata nella nostra lingua la prestazione, in denaro o in natura, che viene corrisposta a intervalli determinati di tempo come corrispettivo del godimento di un bene. In italiano il canone per eccellenza è quello che ciascuno di noi paga in ottemperanza al regio decreto del 1938 in cui è contenuta la "disciplina degli abbonamenti alle radioaudizioni".
In linea di principio io sono favorevole a pagare il canone: basta che ci mettiamo d'accordo sul perché ce lo fanno pagare.
Se si tratta - come ormai è diventato in Italia - di una tassa sul televisore - indipendentemente che venga utilizzato o meno - allora è una forma di patrimoniale e, visto che io sono comunista, credo che le patrimoniali siano sacrosante. Sono abbastanza ricco da possedere un bene, specialmente un bene di cui potrei fare a meno? Allora devo pagare qualcosa di più rispetto a chi non possiede quel bene. Magari piuttosto che far pagare la patrimoniale sul televisore sarebbe più giusto far pagare il canone su qualche altro elettrodomestico ancora più inutile, ad esempio l'apparecchio che prepara gli hot dog: se compri una boiata del genere è giusto che tu paghi una tassa più alta. Poi in questo paese le patrimoniali sono applicate in maniera ingiusta: la pagano le fasce più povere, ad esempio sul possesso del televisore e dell'automobile, e non la pagano i ricchi e i ricchissimi sui loro patrimoni e sui loro beni di lusso. Come sapete, io trovo ingiusto che anch'io - che pure non sono ricco - non paghi una patrimoniale sulla mia casa. Possiedo una casa e sono più ricco di chi non la possiede: quindi dovrei pagarla. Non a caso i governi culturalmente di destra che si sono succeduti in questo ultimo tragico venticinquennio - al di là del falso bipolarismo di facciata - hanno tolto la tassa sulla casa, perché sono contro ogni forma di patrimoniale, a parte ovviamente quelle che colpiscono i poveri.
Se invece il canone fosse una tassa sulla televisione - sul contenuto e non sul contenitore - non capisco perché devo pagarla. Lo farei volentieri se quei soldi servissero a finanziare una televisione pubblica che non avesse altra entrata oltre questa, ma evidentemente non è quello che succede adesso in Italia. La Rai non solo vende pubblicità, ma soprattutto gestisce i propri palinsesti e produce i propri programmi per venderne di più, come una qualsiasi rete commerciale: si tratta ovviamente di una scelta legittima che io, da spettatore, posso apprezzare o meno, ma che, da cittadino, non voglio finanziare.
Non entro nel merito di quello che la Rai produce e trasmette, visto che la guardo sempre meno: l'ultimo telegiornale l'ho visto nel dicembre del 2012, i programmi di cosiddetta informazione ho smesso di guardarli da molto prima. Per dovere di cronaca non guardo neppure quelli trasmessi dalle reti commerciali. Guardo regolarmente i programmi di Rai5 e i cartoni di Rai Yoyo - ma non mi piace Peppa Pig - e ascolto molto i canali radio della televisione di stato. Non prendetemi per uno di quegli snob che dicono - mentendo - che non guardano la televisione, io la guardo: mi piacciono i telefilm polizieschi - il crime come si chiama adesso - e non disdegno programmi che definireste certamente trash. La televisione è uno dei modi in cui trascorro il mio tempo libero: e non capisco perché devo pagare una tassa su questo.
Anche perché pago già, accettando di guardare la pubblicità - non ho il decoder e non guardo canali a pagamento - così come so che posso usare gratuitamente la rete - un altro modo in cui passo il mio tempo libero - accettando che vengano utilizzati i miei dati di navigazione e tollerando le inserzioni pubblicitarie. Pago per la televisione quando a vado a fare la spesa, perché ovviamente il costo della pubblicità ci viene imputato insieme a quello dei prodotti, così come quello degli imballaggi inutili. E non voglio pagare due volte per la stessa cosa.
Al di là di una boutade di campagna elettorale, credo che dovremmo ragionare se debba ancora esistere una televisione pubblica e quindi a carico della collettività. La Rai che ricordiamo più volentieri - e che alimenta ancora oggi i programmi che ne saccheggiano i magazzini - è quella che viveva in regime di monopolio e quindi poteva permettersi di non assoggettarsi al mercato. Certo doveva sottostare ad altri vincoli - spesso molto pesanti e non sempre commendevoli - ma in fondo quel monopolio era anche un segno di libertà: si poteva sperimentare e perfino correre il rischio che un programma non avesse successo. Non c'era altro da vedere. La tecnologia, spezzando quel monopolio, ha apparentemente portato una maggior libertà, ma ha anche omologato l'offerta, rendendo spesso indistinguibile una rete dall'altra.
Pur essendo un vecchio statalista, a questo punto credo che abbia poco senso una televisione di stato che, alla fine, non garantisce né la pluralità delle opinioni - e questa non era garantita neppure dalla Rai democristiana - né la qualità dell'offerta - che invece allora era garantita; e in maniera molto alta. Anzi rispetto alla qualità temo - parlo sempre da comunista - che il mercato ci garantisca di più, perché alla fine una serie scritta e girata bene sarà più vista e quindi venderà più detersivi di una mal fatta, un programma di intrattenimento intelligente avrà più audience di uno volgare. Certo la roba brutta continuerà a esserci in televisione, come i brutti romanzi d'appendice continuarono a essere pubblicati nel secolo scorso, ma ora tutti i brutti romanzi sono dimenticati e noi leggiamo ancora Pinocchio e Uno studio in rosso, come i nostri figli vedranno ancora le serie più belle che guardiamo noi ora. Indipendentemente dal canone.
E francamente non so se, a questo punto, una televisione pubblica senza pubblicità e tenuta in piedi solo con il canone sarebbe utile, sarebbe uno spazio libero in cui far crescere idee nuove. Certamente in Italia non funzionerebbe così, sappiamo già che sarebbe ancora una volta un mezzo per aiutare gli amici, gli amici degli amici, e al massimo per garantire un po' di soldi a qualcuno, una sorta di welfare mascherato. Credo però che anche in una società più virtuosa della nostra le novità si sperimenterebbero da altre parti, perché oggettivamente la rete dà possibilità che prima non avevamo e soprattutto dà a chi è capace un pubblico che un tempo solo la televisione sapeva garantire.
Al di là delle promesse demagogiche di questi giorni, continueremo naturalmente a pagare il canone - siamo obbligati a farlo, altrimenti ci tagliano la luce - e a guardare buona televisione. Questo è più difficile perché dipende soprattutto da noi, dalla nostra capacità di esercitare uno spirito critico, di scegliere quello che è fatto bene, a scapito di quello che è fatto male. Dovremo usare la nostra intelligenza e darci un po' di strumenti, dovremo darci un canone.

sabato 6 gennaio 2018

Verb volant (473): befana...

Befana, sost. f.

Gli antichi Romani, facendo proprie alcune tradizioni che erano presenti in tutta l'Italia centrale e che si rifacevano a credenze antichissime, celebravano dodici notti nel cuore dell'inverno, dal solstizio al momento in cui la natura sembrava finalmente rinascere. Erano notti dense di mistero, in cui i confini tra il regno dei morti e quello dei vivi tendevano a diventare sempre più labili. In queste dodici notti alcune mitiche figure femminili volavano sui campi per propiziarne la fertilità nell'anno che stava per cominciare. E' così che nasce la befana.
A dire il vero quel numero dodici era un tentativo per dare un ordine a qualcosa che faticava a essere inquadrato in un altro modo. Furono infatti i Romani a imporre il loro calendario solare, basato appunto su dodici mesi, rispetto a quello lunare, ossia il loro calendario patriarcale, segno di una società dominata dagli uomini, rispetto a quello sottoposto alla luna, alle donne e alla loro dea primigenia, la Gran madre. Come noto, i cristiani non fecero altro che sovrapporre le loro feste a quelle romane. Il giorno in cui veniva celebrato il Sol invictus divenne il giorno in cui loro festeggiavano la nascita di Gesù e dodici giorni dopo - perché anche loro preferivano mettersi sotto il segno maschilista del sole - decisero di celebrare l'epifania, ossia il momento in cui quel bambino, nato in un povero paese della Giudea, il figlio di un oscuro falegname di Nazareth, si era manifestato al mondo nella sua maestà divina, tanto da essere onorato da alcuni re venuti da ogni angolo del mondo, guidati da una stella, portando doni preziosi e esotici.
Ma nonostante i Romani e nonostante i cristiani, quelle creature misteriose, il cui tempo era segnato dalle fasi lunari, dal ciclo femminile e dall'alternarsi delle stagioni, riuscirono a resistere, presero il nome, storpiandolo, da quella nuova festa dei cristiani e continuarono a volare nelle lunghe notti invernali, cominciando anch'esse a portare doni. Erano certo creature benigne, ma erano anche pronte a punire, se noi mortali lo avessimo meritato; e spesso lo meritiamo. Ovviamente non mancò la reazione dei maschi che, non potendo sconfiggere quelle potentissime creature, le dipinsero vecchie e brutte, con i vestiti laceri. E cominciarono a fare roghi per bruciare quelle streghe nella notte dell'epifania.
La befana riuscì comunque a resistere ancora. E' stata sconfitta - e questa volta per sempre - soltanto dalla forza della pubblicità. 

martedì 2 gennaio 2018

Verba volant (472): campagna...

Campagna, sost. f.

Volenti o nolenti, le prossime otto settimane saremo in campagna elettorale.
E che campagna sarà? Certamente brutta. Non occorre essere un aruspice particolarmente dotato per fare questa previsione. E, per favore, non diamo la colpa di questo alla classe politica. Se questo paese fa schifo - e credo che su questo il giudizio sia difficilmente confutabile - non è per colpa di renzi o di Berlusconi, di Grillo o di Salvini, ma perché l'Italia è piena di uomini e di donne come loro. La nostra classe politica, con la sua arrogante ignoranza, la sua ipocrita ignavia, la sua fraudolenta avidità, rappresenta una società in cui queste "virtù" sono molto diffuse, anzi sono decisamente preponderanti. Poi possiamo far finta di credere - come abbiamo fatto negli ultimi vent'anni - che non sia così e che sia possibile una sorta di catartica palingenesi, solo votando per quello che dice che con lui cambierà tutto.
Chi voterò alla fine di questa campagna elettorale, che immagino già estenuante? Ovviamente non voterò per la destra che conosciamo - quella di Berlusconi e di Salvini - che probabilmente tornerà a vincere. Né voterò per la destra che promette di cambiare tutto, perché nessuna destra vuole mai davvero il cambiamento. Non voterò per il pd - anche questo potevate immaginarlo - anzi spero che queste elezioni segnino una sonora sconfitta per questo partito. Non voterò neppure per Liberi e Uguali perché li conosco troppo bene e non mi fido di loro. Nonostante quello che pensa di me qualcuno che mi ha conosciuto in un'altra vita, ossia che sia stato colpito da una forma precoce di esacerbata demenza, non sono così sciocco da pensare che la rivoluzione sia possibile, ma scegliere come proprio leader uno come Grasso significa dire che la rivoluzione non solo non è possibile, ma è sbagliata. Grasso e i miei ex compagni del Pds rappresentano una storia - che peraltro è anche la mia - piena di tragici errori, che dovremmo lasciarci alle spalle il prima possibile.
Immagino finirò per votare per la lista Potere al Popolo, di cui forse conosco troppo poco per non fidarmi e di cui, proprio per questo, non approfondirò la conoscenza nelle prossime settimane: non vorrei essere costretto a cambiare idea. Confesso che non conosco neppure abbastanza bene il meccanismo perverso della nuova legge elettorale per capire se questo sia un voto "utile" o perso, se servirà a eleggere una rappresentanza, anche minima, della sinistra radicale in parlamento o se sarà solo un segno di sconfortata testimonianza. In ogni caso ho deciso di smettere di votare pensando alle conseguenze del mio voto, cercando di capire se il mio voto servirà o meno, perché in fondo penso che non serva. A prescindere.
Per questo credo sia necessario cambiare prospettiva e le prossime elezioni, nella loro inutilità, mi interessano poco. E mi appassionano poco. L'espressione campagna elettorale è una metafora mutuata dal linguaggio militare. Come noto la campagna è il territorio aperto ed esteso fuori dal centro urbano; da qui questa parola è passata al significato di luogo adatto al rapido movimento degli eserciti e quindi è diventata sinonimo di guerra e per metafora ha cominciato a indicare quel particolare conflitto che avviene prima delle elezioni e a cui io ho tante volte partecipato nella mia vita precedente.
Cambiando prospettiva mi piacerebbe anche cambiare metafora. Al di là di quello che succederà il prossimo 4 marzo, la sinistra in Italia avrebbe bisogno dei tempi lunghi e dei ritmi della campagna. Chi coltiva la terra sa bene che dal momento in cui si prepara la terra per la semina a quello del raccolto deve passare del tempo, sa che in qualche caso bisogna lasciar riposare la terra, non seminarla, se si vuole che la raccolta degli anni successivi sia migliore. E sa che ci vuole pazienza e che ogni stagione richiede uno specifico lavoro. Il terreno della sinistra in Italia è inaridito - per colpa soprattutto di quelli come noi - e seminare in questa terra cattiva porterà frutti scarsi, rischiando di impoverirla ancora di più. Credo che adesso sarebbe più utile ricostruire e riparare gli attrezzi, che abbiamo usato fino a distruggerli, sarebbe più saggio mettersi a studiare - visto che abbiamo smesso di farlo - per capire di cosa la terra ha bisogno e cosa sarebbe meglio coltivare, sarebbe forse meglio prevedere un periodo di maggese. E soprattutto aspettare che cresca una nuova generazione di contadini.

domenica 31 dicembre 2017

"Fine d'anno" di Jorge Luis Borges


Né la minuzia simbolica
di sostituire un tre con un due
né quella metafora inutile
che convoca un attimo che muore e un altro che sorge
né il compimento di un processo astronomico
sconcertano e scavano
l’altopiano di questa notte
e ci obbligano ad attendere
i dodici e irreparabili rintocchi.
La causa vera
è il sospetto generale e confuso
dell’enigma del Tempo;
è lo stupore davanti al miracolo
che malgrado gli infiniti azzardi,
che malgrado siamo
le gocce del fiume di Eraclito,
perduri qualcosa in noi:
immobile.

Verba volant (471): anno...

Anno, sost. m.

Tutti noi sappiamo cosa sia un anno. In questi giorni ce ne lasciamo indietro uno e ne aspettiamo un altro: così è la vita. In latino annus significa cerchio - e dal suo diminutivo annulus deriva infatti l'italiano anello - e infatti l'anno è il tempo che impiega il sole a compiere il suo giro intorno alla terra.
Errore blu. Lo so che ci hanno insegnato che è la terra che gira intorno al sole, con tutte le implicazioni del caso, ma visto che da qua sembra proprio che sia il sole a compiere il suo giro, avvicinandosi e allontanandosi alternativamente dalla terra, credo che Galileo mi perdonerà questa licenza letteraria. Il dottor Watson ci racconta che Sherlock Holmes non conosceva la teoria copernicana e anzi che un giorno si spazientì quando cercò di spiegargliela. "Lei dice che giriamo intorno al sole. Anche se girassimo intorno alla luna non farebbe un soldo di differenza per me o per il mio lavoro."
Francamente Holmes non ha tutti i torti. E' più pericoloso credere che su questo pianeta ci siano - e che ci saranno sempre - le risorse che permettono a pochissimi di noi di vivere come viviamo, di stare al caldo d'inverno e al fresco d'estate, di avere tutta l'energia che vogliamo, in qualunque luogo e in qualunque ora, di essere sempre e continuamente connessi, magari per scambiarci inutili e ipocriti auguri di capodanno. E' più pericoloso credere che non possiamo fare a meno di tutte le cose che poi il giorno dopo scartiamo. E' più pericoloso dimenticare che il benessere di noi che siamo sempre meno si basa unicamente sul fatto che gli altri, che sono sempre di più, stanno male, e soffrono per garantire a noi il superfluo.
Che la terra giri o stia ferma poco importa a chi vive rovistando nelle discariche dove noi abbiamo buttato il nostro vecchio telefonino perché volevamo un modello nuovo che ci permettesse di conoscere i nomi delle stelle, nomi che ci dimenticheremo un minuto dopo averle viste perché distratti da un nuovo gioco. Che la terra giri o stia ferma poco importa a chi viene cacciato dalla propria terra perché noi lì dobbiamo costruire una grande diga o perché noi abbiamo inquinato un fiume e reso irrespirabile l'aria. Che la terra giri o stia ferma poco importa a chi viene sfruttato.
E forse a tutti loro importa poco anche sapere che anno sarà quest'anno che sta per iniziare, che noi scrutiamo con tanta attesa, perdendoci in vaticini sempre uguali ogni anno. Almeno evitiamo di dire le frasi che sempre si dicono in queste occasioni: per fortuna che quest'anno sta per finire e altre banalità del genere; per decenza faremmo meglio a tacere. Forse tutti loro non si accorgeranno nemmeno che è arrivato questo nuovo anno: sono troppo lontani per sentire i botti, di cui noi ci scandalizziamo solo perché rendono nervosi i nostri animali, di cui ci importa molto di più delle persone che sopravvivono per garantire che anche quest'anno possiamo brindare.
Francamente non so bene cosa augurarvi, cosa augurarci. Forse che il 2018 sia davvero peggiore.

mercoledì 27 dicembre 2017

Verba volant (470): surgelato...

Surgelato, sost. m.

Una vita fa, quando facevo un altro mestiere, avevo la responsabilità di diversi ristoranti e ogni sera, seppur per un solo mese all'anno, davo da mangiare a qualche migliaio di persone. E credo di poter dire che in quei ristoranti si mangiava bene, spesso molto bene. Ovviamente non per merito mio, ma grazie al lavoro di un esercito di volontarie e volontari che mettevano a disposizione, oltre al loro tempo, il loro saper fare.
C'erano - com'è giusto che sia - delle regole che dovevamo rispettare e venivamo controllati affinché le rispettassimo; e in quegli anni chi doveva controllarci lo faceva con particolare zelo, visto che non ci era molto amico.
Quando una coppia disse di essere stata male dopo aver cenato da noi, fui dispiaciuto per loro, ma non ero affatto preoccupato delle possibili conseguenze, non perché sapessi che avevamo formalmente rispettato le regole, come avevamo fatto, ma perché sapevo che eravamo capaci e scrupolosi. E infatti le autorità sanitarie che avevano ricevuto quella denuncia accertarono che quei due erano stati male perché in una sola serata avevano incautamente mangiato e bevuto quello che avrebbero dovuto consumare in alcuni giorni.
Non ho idea di come sia andata nel caso del cuoco stellato e personaggio televisivo di cui si parla in questi giorni, il cui errore pare sia stato omettere qualche informazione dal menù e tenere in frigorifero alimenti non tracciati. Certamente quel ristorante ha le risorse per garantire il rispetto formale delle regole. E immagino che chi ci lavora sappia lavorare, ossia abbia la passione e la cura delle sfogline che ai miei tempi facevano i tortellini per le Feste dell'Unità: se è così Cannavacciuolo è a posto.
Le regole sono naturalmente importanti, anzi è indispensabile che ci siano per tutelare sia i consumatori sia coloro che lavorano con scrupolo e coscienza. Ma non pensiamo che un sistema articolato e complesso di regole serva a garantirci quando andiamo a mangiare in un ristorante. Anzi rischiamo che troppe regole - come spesso succede nel nostro paese, non solo in questo settore - creino l'effetto opposto. Chi vuole servirci porcherie potrà continuare a farlo, riuscendo a dimostrare  che sulla carta tutto è in regola e, se scoperto, che le norme sono così complesse da dar adito a lunghi contenziosi. Chi, al contrario, è capace di fare e fa bene perché è l'unico modo in cui lo sa fare, rischia di perdere tempo e risorse per sistemare le carte, magari facendo un po' meno bene quello che saprebbe fare così bene oppure decide di lasciar perdere perché seguire tutte le regole formali gli costerebbe troppo. Non è il caso dello chef di cui si parla, che non ha il diritto di fare l'offeso: può permettersi di lavorare bene e di rispettare le regole. Ma per molti - meno personaggi - non è sempre così.
Il problema anche in questo caso è il valore che diamo al lavoro e al saper fare un lavoro. In una società come la nostra in cui il lavoro non ha valore, non è riconosciuto e infatti non viene pagato in maniera equa, rischiamo di considerare un sistema di regole come l'unico modo per garantire che qualcosa venga fatto bene. Ma non è mai così: una serie di regole - anche se fossero ben scritte, cosa peraltro rarissima - non può sostituire la capacità e la passione, non sostituisce quel quid che ad esempio garantisce che quello che mangiamo sia fatto come deve essere fatto. Surgelato o meno.

domenica 17 dicembre 2017

Verba volant (469): vagina...

Vagina, sost. f.

Perdonatemi: questa definizione è un trucco.
So bene che non avete bisogno di Verba volant per sapere cosa sia e come funzioni questo organo che il Pianigiani, richiamandone l'etimologia dal sostantivo vasvaso, o dall'aggettivo vacuus, vuoto, definisce il "canale che conduce nella matrice".
Ma ormai siete qui e spero abbiate qualche minuto per continuare la lettura.
Credo che conosciate Internazionale, il settimanale d'informazione - ispirato dall'equivalente francese Courrier International - che pubblica articoli della stampa straniera tradotti in italiano. Ovviamente ha anche un sito, davvero ben fatto, in cui ospita articoli e commenti. Sabato 16 dicembre, dando una veloce occhiata al sito, ho visto l'elenco dei sei articoli più letti. Li riporto nello stesso ordine:

Lettere dalla vagina: perché è così difficile raggiungere l’orgasmo
Rinunciando ai toast all’avocado potremo comprare casa?
I sogni senza limiti di Alexander Langer
Si può rimanere amici degli ex?
I nodi della Brexit vengono al pettine
Come sedurre qualcuno al primo appuntamento


Al di là della gioia di vedere che qualcuno parla ancora di quel politico visionario che è stato Alexander Langer, questa lista mi ha fatto riflettere. Il primo titolo richiama un video realizzato dalla giornalista Mona Chalabi e dalla regista Mae Ryan in cui le due autrici incontrano un’educatrice sessuale, una neuroscienziata, una sessuologa e un’esperta di disfunzioni sessuali, per capire come mai per le donne sia più difficile provare piacere rispetto agli uomini. Si tratta di un argomento serio, trattato con competenza, che non concede nulla alla pruderie. Quante delle persone che hanno cliccato su quel titolo hanno effettivamente guardato fino alla fine il video, che dura sedici minuti e fa parte di un ciclo di quattro?
Il secondo titolo apre un articolo di sociologia: una cosa seria nonostante il titolo curioso. Il quarto e il sesto titolo richiamano gli articoli di uno stesso autore, Alain de Botton, uno scrittore svizzero che cerca di applicare i concetti della filosofia alla vita di tutti i giorni: nulla di eccezionale, i suoi articoli sono piccoli concentrati di consigli di buon senso, non rendono migliore la vita, ma neppure peggiore.
Perché i lettori di Internazionale, nella scelta piuttosto vasta di articoli che avevano a disposizione, hanno scelto in maggioranza proprio questi sei? Immagino non siano maniaci sessuali, né fanatici dei toast all'avocado. Probabilmente per la stessa ragione per cui qualcuno di voi - qualcuno più del solito immagino - cliccherà sulla parola vagina guardando il mio blog. Ed è la stessa ragione per cui io l'ho messa, perché se avessi scelto un altro titolo - magari più attinente alla cosa di cui effettivamente ho scritto - non lo avreste cliccato. Io, come sapete, non vivo di quello che scrivo: il numero di voi lettori al massimo solletica la mia vanità, ma per chi ci vive evidentemente questo è un tema dirimente, perché quei clic in più fanno la differenza.
Ho già scritto che mi appassiona poco il tema delle fake news, mi sembra un modo per distrarci da questioni più serie. Ad esempio mi sembra più interessante capire quali sono i criteri secondo cui le notizie, quelle vere e anche quelle false, ci vengono presentate, specialmente nell'informazione sulla rete. Chi decide se un titolo va in alto o in basso? Chi decide se in quel titolo c'è una parola - come vagina - che attirerà la nostra attenzione? Chi decide che per accompagnare quella notizia ci sarà una foto? E che foto? Perché ovviamente la notizia con la foto di una bella donna avrà più possibilità di essere cliccata. Quali sono i criteri attraverso cui chi può ci guida attraverso le notizie?
Apparentemente abbiamo davanti una quantità sterminata di informazioni e apparentemente abbiamo la libertà di sapere tutto. Ma alla fine sappiamo davvero tanto di più di quello che sapeva la generazione che non si informava con la rete? Davvero siamo così liberi di scovare tutte le notizie che vogliamo? O finiamo per cliccare sempre sulle stesse? Ad esempio, una notizia che appare in cima alla lista delle "più lette" la leggiamo perché ci interessa davvero o perché è in quella lista? E cliccando alimentiamo la curiosità di quello che verrà dopo di noi. 
Quanto siamo effettivamente liberi e quanto le nostre scelte sono condizionate? Credo dovremmo cominciare a farci qualche domanda, se non vogliamo essere un vaso vuoto, che qualcuno si prenderà il compito di riempire.

venerdì 15 dicembre 2017

Verba volant (468): materna...

Materna, sost. f.

Nei giorni scorsi il Comune di Bologna ha deciso di cancellare questa frase dalla carta dei propri servizi educativi: "La frequenza alla scuola dell'infanzia è gratuita".
Per i cittadini non cambia nulla: si sono affrettati a spiegare da Palazzo d'Accursio. Ed è vero, almeno per quest'anno: fino a questa decisione le famiglie pagavano soltanto per la mensa, mentre adesso pagheranno la stessa cifra, senza alcun aumento, ma come una retta per la frequenza. Formalmente Merola e i suoi assessori dicono la verità, se si guarda solo all'aspetto strettamente contabile della questione, ma purtroppo non stiamo parlando solo di questo. E non è qualcosa che interessa solo le famiglie che usufruiscono di quel servizio e pochi altri addetti ai lavori, è un tema che dovrebbe coinvolgerci tutti, perché viola un principio e su una questione così centrale come l'educazione.
Dire che la scuola dell'infanzia - quella che frequentano le nostre figlie e i nostri figli dai tre ai sei anni e che noi chiamavamo materna - deve essere gratuita significa dire che quella è scuola, a tutti gli effetti, e quindi, a norma della Costituzione, deve essere "aperta a tutti" e "gratuita". Poi le famiglie possono scegliere anche di non farla frequentare ai propri figli, perché non è obbligatoria, oppure possono scegliere una scuola privata, ma lo stato, in tutte le sue articolazioni, deve garantirne la gratuità. 
Credo sia utile fare un po' di storia, visto che evidentemente anche chi la dovrebbe conoscere pare l'abbia dimenticata. In Italia la scuola materna nasce con la legge n. 444 del 1968. Sono gli anni del centro-sinistra, gli anni in cui - grazie al ruolo del Psi - vengono approvate alcune riforme importanti che segneranno gli anni successivi della vita del nostro paese: la legge sulla scuola media unica, quella sul divorzio, lo Statuto dei lavoratori, sono gli stessi anni in cui si diede finalmente avvio all'autonomia regionale. In questo contesto nacque la scuola materna statale, che si volle appunto "gratuita". Dal momento che però questa legge faticava a diventare pienamente operativa, perché venivano aperte poche materne - visto che la Dc frenava nell'applicazione, perché fino ad allora questo settore era monopolio della chiesa cattolica - le amministrazioni comunali, specialmente nelle cosiddette "regioni rosse", decisero di investire su questo servizio e nacquero quindi le materne comunali, anch'esse ovviamente gratuite. Eliminare questo principio della gratuità significa d'un tratto cancellare tutta questa storia. 
Ricordo che alla fine del secolo scorso, quando l'amministrazione di sinistra di Granarolo, alle porte di Bologna, provò a ragionare sul passaggio delle materne comunali allo stato, perché già allora quei servizi gravavano davvero molto sul bilancio comunale e quella ci sembrava un'opportunità per investire in altri settori, ci fu una levata di scudi da parte delle famiglie e in generale della nostra comunità. Quelle scuole erano sentite parte della vita della nostra piccolissima città e quindi decidemmo di continuare a tenerle, spiegando ogni anno ai cittadini che parte delle loro tasse andavano a coprire i costi di quel servizio, indipendentemente dal fatto che loro ne godessero o meno, perché quello che le famiglie pagavano per la refezione era assolutamente insufficiente a coprire tutte le spese. Il principio che noi che facevamo politica difendevamo - e che la nostra comunità difendeva insieme a noi - era che l'educazione era un bene primario e che, come tale, doveva essere a carico della collettività. 
Decidere che invece è qualcosa che le famiglie devono pagare - al di là della cifra che effettivamente spendono - significa dire che si tratta di qualcosa che la collettività non può e non deve garantire e che le famiglie devono in qualche modo organizzarsi. Le famiglie ricche potranno scegliere se mandare i loro figli a una scuola privata - e di fatto la materna comunale è diventata tale, secondo quello che ha deciso il Comune di Bologna - mentre le famiglie povere dovranno tenere i figli a casa. In fondo è compito delle madri tenere i figli: cosa vogliono queste donne? La parità?
Da persona che ha avuto la bella opportunità di occuparsi dell'amministrazione delle scuole dell'infanzia sento questa decisione come un dolore. Prima di tutto perché sta passando nell'indifferenza generale, senza che scateni una reazione per una scelta politicamente grave. L'assicurazione che le tariffe non cresceranno è bastata a tacitare ogni dubbio. Evidentemente noi "vecchi" - o noi "di prima", come preferite - abbiamo una qualche responsabilità, se non siamo riusciti a trasmettere l'idea. In qualche modo abbiamo difeso quei servizi, in qualche caso li abbiamo ampliati e migliorati, abbiamo fatto degli investimenti, ma non siamo riusciti a raccontare la politica, a dire che non si trattava solo di bilanciare costi e ricavi, ma era una bandiera della nostra politica, del nostro essere amministratori della cosa pubblica. E anche alcune nostre decisioni di allora sono andate nella direzione che ha portato alla cancellazione della gratuità di oggi: la scelta di finanziarie le scuole private, perché quando non riuscivamo più a garantire il servizio a tutti, abbiamo preferito appoggiarci alle strutture private che già c'erano, la scelta di preferire il personale del privato rispetto a quello del pubblico, perché costava meno - ma perché aveva e ha meno diritti - la scelta di allontanarci dall'idea iniziale, che la materna - come il nido per altro - è scuola e quindi ogni investimento in educazione non è una spesa, ma un modo di rendere migliore il futuro della comunità. Quando abbiamo smesso di fare i politici e abbiamo cominciato a fare i ragionieri abbiamo fatto partire la macchina che è arrivata agli attuali amministratori di Bologna, che giustificano la loro decisione, spiegando che più bambini si portano il pasto da casa e quindi non pagano la refezione e quindi i conti non tornano: per questo tutti devono pagare la retta di frequenza. Ma le famiglie decidono di non servirsi della refezione scolastica, perché è cara ed è scadente, perché è in mano a privati che hanno il solo obiettivo di guadagnare. 
E' il cane che si morde la coda: il Comune offre un servizio scarso, meno persone lo usano, quelle poche che lo usano lo devono pagare di più, intanto il Comune ha sempre meno soldi da spendere - perché i guadagni se li intasca il privato gestore - e il servizio diventa sempre più scarso. E' il modo per smantellare la scuola pubblica, a favore dei privati, che ci guadagnano due volte: oggi, perché sono gli unici beneficiari delle rette alte e dei servizi scadenti e soprattutto domani, perché, chiuse o ridotte al lumicino le scuole pubbliche, loro potranno avere, ancora una volta, il monopolio dell'educazione delle nostre figlie e dei nostri figli. 
Se solo volessimo saremmo in grado di fermare questo meccanismo perverso. Il Comune di Bologna ha deciso che non vuole farlo, che vuole la scuola in mano ai privati. Noi dobbiamo tornare a sventolare la bandiera della scuola "aperta a tutti" e "gratuita". E dovremmo rilanciare: se oggi riscrivessimo da sinistra la legge n. 444 dovremmo dire che la materna deve anche essere obbligatoria, perché fondamentale per la crescita delle nostre figlie e dei nostri figli, specialmente in una società come la nostra, fatta di tante famiglie che arrivano da tante parti del mondo.
La materna gratuita e obbligatoria sarebbe davvero una bella battaglia.   

mercoledì 13 dicembre 2017

Verba volant (467): alibi...

Alibi, sost. m.

Come recita un antico adagio: la mamma dei creativi è sempre incinta. A me piace guardare le pubblicità: mi pare raccontino quello che siamo meglio di molti altri generi letterari.
Da qualche giorno vedo la réclame di una onlus che cerca sostegno economico per finanziare le proprie campagne a favore dei poveri in Italia, perché "nel nostro paese nessuno deve conoscere la fame". Non conosco quell'associazione e non ho motivo per dubitare che il loro lavoro sia utile e prezioso e quindi che i soldi che doneremo saranno impiegati nella maniera giusta. Ma credo sia significativo quell'insistere durante tutto lo spot sul fatto che gli aiuti sono destinati ai poveri in Italia.
Quante volte abbiamo sentito dire: con tutti i problemi che ci sono qui, perché dovremmo aiutare quelli là? E "quelli là" sono di volta in volta le donne e gli uomini dell'Africa o dell'Asia o dell'America latina. Questo spot offre finalmente una risposta: i poveri in Italia ci sono, dacci i soldi che noi li aiutiamo. Una sorta di leghismo della solidarietà che, secondo quell'associazione e quei creativi, dovrebbe smontare l'alibi di chi non vuol donare agli "altri", di chi dice che ci sono altre priorità. Non so quanto questa campagna sia efficace - mi auguro per quell'associazione che lo sia - ma francamente credo che quelli che non donano per le campagne di solidarietà internazionale non lo faranno neppure questa volta. Perché ci sarà sempre un nuovo alibi.
Lo spot racconta la vicenda di Mauro, un clochard come dicono quelli che parlano bene, uno dei tanti che per qualche motivo si è ritrovato in mezzo a una strada. Quelli che cercano una ragione per non tirare fuori neppure un centesimo troveranno subito una giustificazione per la loro grettezza: ma questo Mauro poi come mai si è ridotto così? e non potrebbe cercarsi un lavoro? E poi arriva la madre di tutte le scuse: gli italiani sono così, preferiscono chiedere l'elemosina che lavorare. E questo lo dicono gli stessi che due minuti prima, quando è passato lo spot di Emergency o di Amref, in cui i poveri sono stranieri, hanno detto che bisogna aiutare prima gli italiani.
Alibi in italiano è un sostantivo, ma è una parola presa di peso dal latino: in quella lingua l'avverbio alibi significa in un altro posto. Spesso quando c'è da aiutare gli altri, quelli che per colpa loro o per mera sfortuna o per nostra responsabilità - la maggioranza dei casi - sono in difficoltà, noi siamo da un'altra parte. O forse sono i poveri - italiani o stranieri poco importa - che noi vogliamo sempre che stiano da un'altra parte.

lunedì 11 dicembre 2017

Verba volant (466): gelato...

Gelato, sost. m.

Ci sono storie industriali capaci di raccontare un'epoca. Probabilmente il nome di Giovanni Tanara non vi dice nulla e neppure quello di Italgel, però se vi dico Coppa del nonno e Mottarello scommetto che riesco a strapparvi un sorriso: perché tutti noi abbiamo un ricordo legato ai gelati prodotti nella fabbrica di Parma fondata nel 1960 dall'erede della fiaschetteria Tanara, a cui l'attività di famiglia negli anni del boom cominciò a stare stretta e che riuscì in poco tempo a fare della città emiliana la capitale del gelato.
La storia di questa azienda è un pezzo importante della storia della crescita economica del nostro paese nella seconda metà del Novecento, racconta la capacità di alcuni imprenditori e di moltissimi lavoratori di valorizzare le proprie capacità per realizzare prodotti di qualità. Quando parliamo delle eccellenze del made in Italy in campo alimentare non possiamo farci convincere che il primo sia stato quel paraculo renziano che vediamo negli spot dei telefonini e che vuole convincerci di aver inventato il "mangiar bene", ma dobbiamo pensare a uomini come Tanara e alle centinaia di lavoratrici e di lavoratori che hanno prodotto i gelati nello stabilimento di Parma. Sta lì la vera eccellenza: la capacità di applicare alla produzione industriale e di massa le capacità di una bottega artigiana, la capacità di trasformare il proprio saper fare in una ricchezza condivisa.     
Ma non è solo una storia del passato, perché ancora oggi le vicende industriali sono capaci di raccontare un'epoca, anche se in un modo del tutto diverso e purtroppo drammatico. Ovviamente il nome Froneri non vi dice nulla, ma è una storia che merita di essere raccontata. Così si chiama la joint venture che le multinazionali Nestlé e R&R hanno creato nel 2016 per produrre gelati, compresi tutti quelli dei marchi Italgel e Motta. Tra le prime decisioni di questa nuova azienda c'è stata quella di chiudere lo storico stabilimento di Parma. Perché? A dire il vero nessuno lo ha spiegato, ma verosimilmente perché i padroni della Froneri preferiscono produrre gelati in altri paesi, dove evidentemente spendono meno e quindi contano di guadagnare di più.
La decisione di chiudere lo stabilimento di Parma significa prima di tutto licenziare centoventi persone; insieme a loro perderanno il lavoro anche ottanta stagionali e cinquanta lavoratori dell'indotto: in tutto si tratta di duecentocinquanta persone, duecentocinquanta famiglie che di punto in bianco si ritroveranno a brevissimo senza un lavoro. E non perché lo stabilimento di Parma non produca utili o perché l'azienda sia in perdita, ma semplicemente perché la Froneri, al di là della retorica di quello che è scritto nei loro comunicati stampa e sul loro sito, è nata con il preciso obiettivo di licenziare in Europa - ci sono altri ottocentocinquanta lavoratori a rischio, oltre a quelli di Parma - per portare la produzione in altri paesi.
Il dramma è prima di tutto per la vicenda di queste persone, che stanno lottando con coraggio e con caparbietà - mostrando nella lotta la stessa passione con cui fanno il proprio lavoro - ma anche per un modo di concepire il lavoro in cui il saper fare, la competenza, la passione per quello che si fa e si sa fare non contano nulla. I padroni della Froneri non sono più imprenditori, ma burocrati, che applicano schemi in cui il lavoro ha perso ogni valore.
Per questa ragione - e per la storia che c'è dietro ogni Mottarello - Il tema non è uno scontro tra lavoratori del vecchio mondo e quelli dei paesi cosiddetti emergenti - e per fortuna i lavoratori lo hanno capito, dal momento che ci sono agitazioni e proteste negli stabilimenti Froneri in giro per il mondo contro la decisione di licenziare i loro colleghi di Parma - ma lo scontro tra un potere che non vuole riconoscere valore al lavoro e le persone che non solo vivono di quel lavoro, ma che quel lavoro hanno contribuito a far nascere, crescere e sviluppare. Le lavoratrici e i lavoratori della Froneri sono la ricchezza di quell'azienda, non un costo, perché loro sanno fare il gelato, possono continuare a farlo e possono insegnare ad altri a farlo. E sono una risorsa per il nostro paese, perché difendono - oltre ai nostri ricordi di bambini, per cui quel gelato era il premio per una cosa fatta bene - la forza economica di un settore vitale della produzione industriale italiana. Parma non può perdere la fabbrica di gelati fondata da Giovanni Tanara, duecentocinquanta famiglie non possono perdere quell'impiego, noi, tutti noi, dobbiamo lottare con i lavoratori della Froneri perché cambi l'idea di lavoro nel nostro paese, perché il lavoro torni a essere un valore.

martedì 5 dicembre 2017

Verba volant (465): brugola...

Brugola, sost. f.

Gli antichi greci credevano che nell'estremo nord del continente europeo ci fosse un paese perfetto - che chiamavano Iperborea - abitato da un popolo bello e felice, che aveva caratteristiche quasi divine: succede quando si immaginano cose che non si conoscono.
Molti secoli sono passati da allora, anche se spesso continuiamo a vivere in un mondo che ci siamo costruiti da soli, abitato soltanto dai nostri sogni e dalle nostre illusioni. Certo da quelle fredde regioni del nord sono arrivate donne come Greta Garbo, Ingrid Bergam, Anita Ekberg, donne che sono state protagoniste dell'immaginario di intere generazioni. E poi è arrivata la prassi di una socialdemocrazia di governo, che era oggetto di invidia per noi "sinistri" dell'Europa del sud, che dovevamo limitarci alla teoria e all'opposizione. E poi è arrivata Ikea. E così ci siamo svegliati.
Anche Ikea, a suo modo, è stata rivoluzionaria. Proprio in quei grandi magazzini, per la prima volta, noi maschi abbiamo visto nei "nostri" bagni i fasciatoi; e questo avrebbe dovuto interrogarci sulle "virtù" dei nostri omologhi svedesi, che evidentemente non si vergognano di cambiare i loro pupi in un luogo pubblico. Non so quanto quei fasciatoi nei bagni degli uomini in Italia siano stati effettivamente utilizzati, ma sono lì, come una sorta di memento: ricordati che gli svedesi lo fanno. Abbiamo visto nei loro cataloghi famiglie che non definivamo ancora tali; facciamo fatica anche adesso a riconoscere che sono famiglie proprio come la nostra, ma in questo un po' siamo migliorati, anche grazie a Ikea. Ma soprattutto abbiamo visto i prezzi bassi e così abbiamo pian piano riempito le nostre case di mobili svedesi dai nomi impronunciabili, che, armati delle nostre brugole, abbiamo montato, spesso proferendo improperi che anche uno svedese avrebbe capito benissimo. 
C'è qualcosa però che ancora fatichiamo a vedere. Quei prezzi abbordabili sono certo frutto delle lungimiranti scelte imprenditoriali dei padroni di Ikea, che con le loro scatole sempre più piccole hanno ottimizzato i costi di trasporto e di stoccaggio, ma anche delle politiche aziendali tese a ridurre al massimo i diritti dei lavoratori. Ce l'hanno ricordato un paio di anni fa i facchini - rigorosamente immigrati, e non dalla Scandinavia - che lavoravano - e lavorano ancora - nel grande centro di smistamento Ikea di Piacenza; ce l'ha ricordato pochi giorni fa Marica Ricutti, licenziata dopo diciassette anni di lavoro, perché - viste le sue condizioni familiari, madre separata con due figli, di cui uno disabile: una famiglia non da catalogo, ma assolutamente vera - non poteva accettare i nuovi orari imposti dall'azienda; ce l'ha ricordato il dipendente Ikea di Bari, licenziato dopo undici anni di lavoro, perché la sua pausa era durata cinque minuti in più del tempo consentito. Per fortuna ce l'hanno ricordato i loro colleghi che hanno deciso, nonostante tutto, nonostante non sia mai facile, di fare sciopero, hanno deciso di mobilitarsi, anche se adesso rischiano, perché i padroni di Ikea vanno per le spicce, non vogliono piantagrane, e magari vogliono solo lavoratori più giovani e ancora più facilmente licenziabili grazie al jobs act.
E ora quei lavoratori ci chiedono giustamente un aiuto, perché la loro lotta è anche la nostra. E' una nostra lotta non solo perché anche noi siamo lavoratori, ma perché siamo consumatori e, in quanto tali, abbiamo diritto di avere un mobile funzionale a un prezzo ragionevole, ma questo diritto non può tradursi nello sfruttamento di un'altra persona, di quella che lo costruisce, di quella che lo trasporta, di quella che lo vende.
Le grandi dive svedesi ormai le possiamo vedere solo in film in bianco e nero, la socialdemocrazia scandinava non c'è più, perché non è riuscita a capire che quel mondo di cui era stata protagonista è finito e che il capitalismo l'ha spazzata via, senza che fosse capace di organizzare una qualche reazione. Non c'è più un mondo che avevamo idealizzato; e gli Iperborei non sono mai esisti. C'è rimasta Ikea, ci sono rimasti i padroni di Ikea, che possono permettersi di fare quello che vogliono. E noi siamo qui, che brandiamo le nostre brugole.