lunedì 31 agosto 2015

Verba volant (109): giusto...

Giusto, agg.

In questi giorni Benjamin Netanyahu ha detto che la guerra di Israele contro Hamas è giusta. Da un certo punto di vista mi auguro che sia sincero, che ci creda davvero, perché se avesse scatenato quel conflitto solo per ragioni politiche o economiche o peggio elettorali, sarebbe il segno che non c’è limite alla malvagità umana. Ma per un altro verso spero stia mentendo, che sappia anche lui che quella guerra non è giusta, in questo caso infatti sarebbe probabilmente più facile fare la pace. Con un malvagio che si muove solo in base al proprio interesse, al proprio tornaconto, è più semplice trovare un accordo che con un onesto fanatico. Comunque sia, anche per Hamas la guerra contro Israele è giusta, anzi è addirittura santa. In fondo, da sempre, ognuno pensa che la propria guerra sia giusta.
Noi facciamo fatica ormai a considerare giusta una guerra, qualsiasi guerra; probabilmente anche chi è più vicino alle posizioni di Israele, chi giustifica le scelte di quel governo, in base al diritto di quel popolo di difendersi e di tutelare la propria sicurezza, non è disposto a sottoscrivere con la stessa enfasi le parole di Netanyahu.
Per la nostra sensibilità la guerra è ingiusta, sempre, anche perché abbiamo avuto la fortuna di nascere e di crescere in paesi che da decenni non conoscono un conflitto. E noi personalmente non abbiamo conosciuto la guerra, un’esperienza che invece ha toccato, drammaticamente e profondamente, i nostri genitori, i nostri nonni prima di loro e tutti i nostri avi. Noi siamo la prima generazione senza guerra.
Eppure anche noi siamo stati educati nel mito di una guerra giusta, che effettivamente è stata tale. La seconda Guerra mondiale è stata combattuta contro i fascismi e noi abbiamo imparato a credere nella bontà di quel conflitto, sia vedendo i film americani sia ascoltando le storie dei partigiani. Io non ho alcun dubbio che quella guerra sia stata giusta, non so se avrei avuto allora il coraggio di combatterla, ma quella era una guerra che bisognava fare. L’ultima guerra di cui si può dire questo.
La nostra Repubblica nasce da quella guerra, la nostra Costituzione - per cui in questi giorni siamo preoccupati e che vorremmo difendere contro gli attacchi scomposti ed eversivi che le arrivano da tante parti - è nata da quella guerra. Eppure in quella stessa Costituzione si dice che l’Italia “ripudia” la guerra. Questo verbo non è stato scelto a caso dai Padri - e dalle Madri - Costituenti: nella nostra lingua è più forte di rifiutare o condannare. C’è una sorta di contraddizione etimologica nell’art. 11, perché nel verbo ripudiare c’è la radice del termine latino pes, pedis, intendendo quindi che la cosa ripudiata è allontanata, respinta con i piedi, con un calcio. Si deve usare una parola che ha una radice di violenza, anche fisica, per indicare il nostro rifiuto totale della violenza della guerra.
Non è facile spiegare come siamo arrivati fin qui, come siamo arrivati alla scelta di quel verbo ripudiare, come siamo arrivati in sostanza all’idea che la guerra non può essere mai giusta. Non bastano a giustificare questo mutamento gli orrori del conflitto, il numero delle vittime, anche civili, la tragedia della Shoa, che pure è un elemento che ha inciso in maniera profonda nelle nostre coscienze.
Anche durante la prima Guerra mondiale le vittime civili raggiunsero un numero incalcolabile, le “nuove” armi provocarono morti e distruzioni fino ad allora impensabili - la Grande guerra è stato un conflitto completamente diverso da quelli dei secoli passati - eppure pochi anni dopo la prima c’è stata la seconda Guerra mondiale, perché l’orrore non è stato sufficiente e, a parte i sogni di alcuni utopisti, la pace non è riuscita a diventare un valore.
C’è una battuta illuminante scritta da Karl Kraus ne Gli ultimi giorni dell’umanità.
Quando uno dei suoi personaggi, l’Ottimista, comincia a dire
I popoli impareranno dalla guerra…
il Criticone lo interrompe:
… a non dimenticare di farla di nuovo.
Alla fine della seconda Guerra mondiale le cose sono cambiate. Io credo fondamentalmente per una ragione. Perché quella guerra, giusta - santa, se mai una ce n’è stata una da meritarsi un tale aggettivo - è stata conclusa con qualcosa di profondamente ingiusto, le bombe su Hiroshima e Nagasaki. Quei due ordigni hanno dimostrato, una volte per tutte, che il sostantivo guerra e l’aggettivo giusta non possono più essere legati.
Tra l’altro questo richiama alla storia etimologica di questo aggettivo, in cui si riconosce la radice indoeuropea yu, che significa appunto legare; è la stessa ad esempio che si ritrova nella parola giogo. Perché lo jus, la giustizia, è ciò che unisce gli uomini. E la guerra è ciò che li divide.

prima pubblicazione 30 luglio 2014

domenica 30 agosto 2015

da "Racconti di uno" di Erri De Luca


Vogliono rimandarci, chiedono dove stavo prima,
quale posto lasciato alle spalle.

Mi giro di schiena, questo è tutto l'indietro che mi resta,
si offendono, per loro non è la seconda faccia.

Noi onoriamo la nuca, da dove si precipita il futuro
che non sta davanti, ma arriva da dietro e scavalca.

Devi tornare a casa. Ne avessi una, restavo.
Nemmeno gli assassini ci rivogliono.

Rimetteteci sopra la barca, scacciateci da uomini,
non siamo bagagli da spedire e tu nord non sei degno di te stesso.

La nostra terra inghiottita non esiste sotto i piedi,
nostra patria è una barca, un guscio aperto.

Potete respingere, non riportare indietro,
è cenere dispersa la partenza, noi siamo solo andata.

venerdì 28 agosto 2015

Verba volant (209): anti...

Anti, pref.

E così renzi ha scoperto che tutti i mali dell'Italia vengono da questi vent'anni di berlusconismo e di antiberlusconismo, mettendo tutto e tutti sullo stesso piano. Perché lui è l'uomo nuovo, capace di superare e di fare sintesi degli opposti: e infatti è stato caldamente applaudito da quelli di Cl, che si ricordano bene di essere stati berlusconiani fino a ieri e hanno voglia di espiare questa loro "colpa", per continuare a lucrare con i loro affari, più o meno leciti.
Effettivamente l'antiberlusconismo dei guai ne ha fatti parecchi in questo paese. Io ho la sfortuna di avere una buona memoria e mi ricordo un giovane bolognese, senza particolari virtù, che a un certo punto si mise a capo di un comitato della "società civile" per difendere l'informazione pubblica televisiva contro il predominio e lo strapotere di Berlusconi; grazie a quel comitato, fieramente antiberlusconiano, che il partito ovviamente sostenne, quel giovane - ormai anche lui credo comincerà, come me, ad avere i primi capelli grigi - ha fatto un'imprevedibile carriera politica e adesso è uno dei capi indiscussi dei renziani di Bologna. E magari ora spiegherà anche lui, come il suo capo, che occorre superare l'antiberlusconismo, grazie al quale ha goduto - e gode - di prebende che mai avrebbe potuto ottenere grazie alle sue sole qualità. E così ce ne sono molti altri come lui: mi spiace, ma vi ricordo tutti.
Allo stesso modo, tempo prima, ci avevano spiegato, con altrettanta sfrontata sicumera, che la distinzione tra fascismo e antifascismo era una cosa superata, che era una roba del passato, del Novecento. Andatelo a spiegare agli ungheresi che i fascisti non ci sono più, visto che loro li hanno al governo e costruiscono i muri di filo spinato. Andatelo a spiegare a quegli stranieri che sono stati picchiati dai militanti di Alba dorata, andatelo a spiegare a Stefano Cucchi e a Federico Aldrovandi che i fascisti non ci sono più nelle istituzioni del nostro paese. Io fino a quando vivrò continuerò a dire che sono antifascista, perché quella parola lì non dice solo cosa non sono, ma dice anche cosa sono, quali sono i miei valori, valori di cui vado orgoglioso. Peraltro i fascisti sono tornati con tale prepotenza, proprio grazie al fatto che in tanti hanno cominciato a dire che fascismo e antifascismo sono idee superate: per questo non possiamo abbassare la guardia.
Per la stessa ragione credo di aver fatto bene in questi vent'anni a essere antiberlusconiano - lo rivendico - perché Berlusconi e i suoi alleati hanno rappresentato la parte peggiore di questo paese, sono quelli che ci hanno trascinati nella merda in cui si troviamo adesso. Anzi mi dovete ringraziare di essere stato antiberlusconiano: è anche grazie all'antiberlusconismo se nel '96 siamo riusciti a dare a questo paese, seppur per un tempo troppo breve e con limiti innegabili, uno dei migliori governi che abbia mai avuto.
Poi l'antiberlusconismo non bastava - e troppe volte ce lo siamo fatti bastare. Solo perché erano antiberlusconiani ci siamo alleati con un pezzo di destra, abbiamo perfino cominciato a dire che Montanelli dopotutto non era così male, mentre è stato per tutta la vita un coerente anticomunista, che ha sostenuto le cose peggiori - compreso Berlusconi, finché non l'ha licenziato - in nome di un'ottusa, livida e retrograda ostilità verso la sinistra. Proprio perché eravamo acriticamente antiberlusconiani abbiamo raccolto un po' di tutto, in nome di una fantomatica alleanza repubblicana, e oggi molta di questa feccia lì è finita nel pd di renzi. Per essere antiberlusconiani abbiamo finito per dimenticare di essere di sinistra e anche di questo ha approfittato il fantoccio di Rignano per scalare il partito, grazie anche a quell'antiberlusconosmo che adesso gli va così così stretto. Perché alla fine la destra va a destra, per natura.
Pur con questi limiti, che ovviamente non sono quelli a cui si riferisce renzi in questa sua sparata qualunquista, io sono ancora antiberlusconiano, non solo perché credo nei valori costituzionali, in cui Berlusconi e i suoi non hanno mai creduto, ma soprattutto perché mi sento antropologicamente diverso da un berlusconiano. E anche migliore. Non dobbiamo avere paura di usare questa parola: in questi vent'anni noi abbiamo rappresentato un'Italia migliore di quell'Italia maschilista, clericale, autoritaria, disonesta che ha votato per Berlusconi perché Berlusconi la rappresentava in maniera così plateale e sfacciata, senza alcun infingimento. I democristiani avevano sempre fatto finta di essere migliori dell'Italia che votava per loro, Berlusconi invece ha chiesto di essere votato proprio in nome della sua immoralità e la maggioranza degli italiani l'ha votato perché faceva schifo come loro. E in tanti sarebbero pronti a rivotarlo, perché continuano a fare schifo allo stesso modo.
Naturalmente adesso molti di loro preferiscono votare renzi, perché capiscono che in fondo è come loro, ma non è così volgare, e poi è giovane, ha tempo per garantire i loro affari, i loro privilegi, le loro rendite, la loro corruzione.
Per questo io adesso non ho problema a dire di essere antirenziano, anche se tra qualche anno verrà qualche solone a spiegarci che abbiamo sbagliato ad essere antirenziani, anzi che proprio questo antirenzismo ha rovinato il paese. No, il paese lo avete rovinato voi e continuate a farlo, voi che avete usato prima i fascisti e poi i democristiani, che avete usato Berlusconi e che ora usate renzi. Con l'unico obiettivo di impedire la crescita democratica di questo paese, per difendere le vostre ricchezze, per difendere il vostro potere. Per questo dobbiamo continuare ad essere anti-voi.

martedì 25 agosto 2015

Verba volant (208): sindaco...

Sindaco, sost. m. e f.

Renato Zangheri è stato uno studioso di economia, uno storico del movimento socialista, un dirigente politico di primo piano del Pci, capogruppo alla Camera negli anni immediatamente successivi alla morte di Enrico Berlinguer - anzi, in quei tragici giorni di giugno dell'84, fu uno dei pochissimi a cui si pensò come possibile segretario generale del partito - ma è stato soprattutto il sindaco di Bologna - così in tanti lo hanno ricordato nei giorni scorsi - dal 1970 al 1983, anni difficili, drammatici, per quella città. E per il paese.
Di questo, ossia del sindaco, vorrei parlare anch'io, benché Zangheri l'abbia conosciuto e apprezzato soprattutto grazie ai suoi libri. Poi ho avuto la fortuna di incontrarlo di persona, diverse volte, quando io ero un funzionario di provincia e lui era Zangheri - Zangheri e basta - e ricordo l'estrema gentilezza, la cortesia un po' fuori del tempo di quel professore aristocratico e comunista.
In tanti hanno fatto dei paragoni con il tempo presente. Francamente credo sia sciocco confrontare le persone: rischia di essere non solo ingeneroso per quelli che - a volte anche indegnamente - si sono seduti su quello scranno, ma soprattutto irrispettoso verso di lui. Come sarebbe stato sciocco fare dei paragoni tra lo stesso Zangheri e Dozza, tra quel professore dai toni pacati e l'eroe della guerra di Liberazione.
Credo sia utile invece provare a confrontare il contesto, in particolare il rapporto tra la società e la politica, a Bologna e in Italia, proprio a partire dalla figura del sindaco, di quel sindaco; anche per provare a trarne un qualche insegnamento, e non solo per fare un'operazione di mera nostalgia.
Ovviamente oggi in giro di Zangheri non ce n'è nessuno, ma immagino che, se ci fosse, non diventerebbe mai sindaco, non vincerebbe mai le primarie, e noi dovremmo continuare a scegliere tra gli scartini che abbiamo in mano. Questa differenza non sta ovviamente in un limite di comunicazione, in una diversa capacità di saper usare i mezzi messi a disposizione dalla tecnologia, il problema non è che Zangheri oggi non saprebbe "bucare lo schermo", come si dice con una brutta espressione, o non avrebbe la capacità di interagire nel mondo social, quello che cambia - e che rende Zangheri e quelli come lui così drammaticamente inattuali - è il fatto che loro non ragionavano solo per l'oggi, come invece fanno i politici con cui ci confrontiamo quotidianamente.
Quelli erano uomini dai pensieri lunghi, non solo perché avevano a disposizione molto tempo per sviluppare le proprie politiche - Zangheri ha governato Bologna per tredici anni e avrebbe potuto continuare ancora per un po', di fatto doppiando il tempo che adesso ha a disposizione un sindaco "moderno" - ma perché per loro quella era la dimensione della politica. Guido Fanti, che ha preceduto Zangheri a Palazzo d'Accursio, ha governato la città per soli quattro anni, eppure le scelte fatte da quell'amministrazione hanno "progettato" Bologna per i decenni successivi. E' proprio questa prospettiva che oggi manca alla politica e che allora invece era normale avere, perché la politica era fatta di tempi lunghi e non era usa-e-getta come quella in cui noi abbiamo la sfortuna di vivere. Riguadagnare tempo alla politica credo sia la prima lezione che dovremmo imparare per riconquistarla, per farla tornare al posto che le spetta. Perché se la politica smette di essere visione, se smette di immaginare il futuro, magari con la voglia di cambiarlo, finisce per essere la schifezza che è oggi.
Zangheri, a differenza di quello che fa l'attuale sindaco di Bologna, di quello che fanno tutti i sindaci di tutte le città, piccole e grandi, non inseguiva una popolarità dettata dai sondaggi, ma un'ideale e aveva le idee per realizzarlo. Perfino le scelte che oggi, con la nostra lente deformata, rischiamo di vedere come meramente populiste erano figlie di un ragionamento complesso. In uno dei ricordi più belli e più intellettualmente densi, scritto all'indomani della morte di Renato Zangheri, Fausto Anderlini ci ha spiegato come la scelta di rendere gratuito il trasporto pubblico, che oggi ci può sembrare una trovata elettorale, fosse legata allo studio e alle riflessioni del Zangheri professore delle tesi economiche di Sraffa e di Boccara, al tentativo di mettere in pratica un modello di sviluppo economico diverso da quello capitalista. Era a suo modo rivoluzionario Zangheri, perché era comunista, comunista italiano certo, con tutto quello che significò in quegli anni, nel bene e nel male - socialdemocratico direbbe, con ragione, qualcuno - ma comunque aveva l'obiettivo di immaginare un modello di sviluppo diverso, avendo la possibilità politica, oltre che gli strumenti intellettuali, per farlo. Adesso mi pare francamente che questa capacità di unire teoria e prassi, riflessione e azione, sia decisamente caduta in disuso, l'importante - lo vediamo anche nell'attuale classe dirigente - è fare, non importa cosa, basta fare, muoversi in fretta, non stare fermi. E, sia detto senza polemica, forse Zangheri e quella generazione di amministratori là erano più "rivoluzionari" di quelli che andavano in piazza a contestarli e che oggi spesso votano a destra.
Per inciso rileggere le scelte politiche di quell'amministrazione, di quelle amministrazioni, ad esempio riferito al tema dei servizi pubblici - che si volevano universali, gratuiti, di qualità - a quello che ancora non si chiamava welfare, ma che pensava davvero al benessere delle donne e degli uomini - e delle bambine e dei bambini - fa capire cosa significa davvero la parola riformismo, che adesso viene usata indifferente a destra come a sinistra e ha perso ogni carattere. Oggi riforme non significa più niente, mentre per uomini come Zangheri, che riformisti lo erano davvero, era una parola piena di senso. Ecco noi dobbiamo riconquistare anche questo senso, perché riforme è una parola nostra, le riforme servono per fare stare meglio le persone, tutte le persone, a partire dagli ultimi, dai poveri, da chi è partito in ritardo o è rimasto indietro. Le riforme non sono tali se, come quelle di renzi, servono ai ricchi per diventare ancora più ricchi.
Poi c'è un'altra cosa che immediatamente si percepisce come una differenza di sostanza tra ieri - o l'altro ieri - e oggi. Zangheri era certamente un sindaco autorevole, una persona capace di condizionare le scelte delle persone che stavano intorno a lui, ma non era l'uomo solo al comando, di cui sembra nutrirsi la politica nei giorni nostri. Zangheri era Zangheri anche perché c'era un partito forte e autorevole dietro e di fianco a lui, un partito fatto da migliaia di iscritti, un partito che promuoveva le persone, le faceva partecipare, le formava, chiedeva il loro parere, le faceva essere partecipi di un progetto di governo. Quell'amministrazione funzionava così bene non solo perché Zangheri era un bravo sindaco, ma perché c'era una città, una comunità che funzionava bene, che si prendeva cura della cosa pubblica, che partecipava alle scelte, che condivideva una speranza e lottava per realizzarla. Per questo anch'io posso dire di aver conosciuto Zangheri: l'ho conosciuto attraverso le persone di quella generazione con cui ho avuto la fortuna e l'opportunità di lavorare, attraverso quelle compagne e quei compagni, attraverso un modo di fare politica, un impegno volontario e diretto per gli altri. E' impossibile astrarre l'esperienza politica e amministrativa di Renato Zangheri dalla storia della città, della sua città, dalla storia del partito, del suo partito, un partito che si identificava con la città, che la amava.
E che questo legame profondo esistesse lo testimonia prima di tutto il fatto che era riconosciuto dai nemici, da quelli che volevano spezzare la resistenza della città e che misero la bomba nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione: strage fascista e strage di classe, attentato a Bologna, a quella Bologna di sinistra, che funzionava, che dimostrava che qualcosa di diverso era possibile, grazie all'impegno solidale di tanti, attentato a cui i bolognesi, grazie anche a Zangheri, reagirono con un dolore composto, con una rabbia operosa, benché le ferite siano rimaste e abbiano cambiato per sempre e nel profondo la città.
Nessuno può realmente pensare di tornare a quel tempo - se qualcuno ci crede o è un illuso o mente - ma riscoprire quello spirito solidale e partecipativo, quella voglia e quella capacità di prendersi cura delle città, come dell'intero paese, e degli altri, riappropriarsi della politica come una cosa bella e utile è l'unica condizione per sperare che qualcosa cambi, per sperare di non essere condannati a vivere questo eterno presente così nauseabondo.

domenica 23 agosto 2015

"Ora sono morti" di John Dos Passos


Questa non è una poesia
sono due uomini in grigie casacche di detenuti.
Un uomo siede guardandosi la carne malata delle mani
- mani che non hanno lavorato per sette anni.
Ma tu lo sai quant'è lungo un anno?
Lo sai quante ore ci sono in un giorno
quando il giorno è ventitre ore su una branda in una cella
in una cella in una fila di celle in un braccio di file di celle
tutte vuote del soffocante vuoto di sogni?
Tu li conosci i sogni di uomini in carcere?
Ora sono morti.
I neri automi hanno vinto.
Loro sono completamente bruciati.
Le loro carni sono passate nell'aria del Massachusetts
i loro sogni sono passati nel vento.
"Ora sono morti", dà di gomito la segretaria
del governatore al governatore.
"Ora sono morti", dà di gomito il giudice della Corte d'Appello
al giudice della Corte Suprema.
"Ora sono morti", dà di gomito il rettore dell'università
al rettore dell'università.
Una risata secca sale da tutti i morti,
morti in colletto bianco, morti in cappello da seta;
morti in mantello.
Salgono e scendono dalle automobili
respirano a fondo con sollievo
mentre vanno su e giù per le strade di Boston.
Essi sono liberi dai sogni.
Dai sudici panni del carcere
le loro voci esplodono in mille linguaggi
cantando una canzone
da far scoppiare i timpani al Massachusetts.
Scrivici su una poesia se te la senti!

mercoledì 19 agosto 2015

Verba volant (207): museo...

Museo, sost. m.

A onor del vero credo sia la prima volta che in questo paese si apre una qualche discussione, seppur ferragostana, seppur relegata nelle pagine interne dei giornali - perché in prima può starci solo la Boschi in bikini - sulla nomina dei direttori dei principali musei italiani e sarebbe anche una cosa positiva - Dio sa quanto bisogno ci sarebbe di discutere in maniera approfondita di cultura nel nostro paese - se non fosse che si sentono quasi esclusivamente delle incredibili stupidate. Da far girare la testa, e non solo la testa.
Capisco - anche se non giustifico - quelli che sono stati esclusi o che si sentono esclusi - quasi sempre le due categorie non coincidono - immagino che abbiano da criticare, nel merito e nel metodo, la scelta fatta dal ministero. Anche se, per carità di patria, farebbero meglio a stare zitti; spesso questi che criticano hanno già dato cattiva prova di sé in ruoli analoghi e anzi tanto più strillano tanto più sono stati direttori, assessori, curatori incapaci e insipienti.
Quelli che invece proprio non riesco a sopportare sono quelli che criticano la scelta perché dei venti nominati sette sono stranieri. Mi spiegate per quale arcana ragione solo un italiano potrebbe dirigere un museo italiano? Curioso poi è l'atteggiamento di questi nazionalisti in servizio permanente effettivo che plaudirebbero se un italiano fosse chiamato a dirigere un museo tedesco e invece deplorano come un'offesa alla dignità italiota se avviene l'inverso. Per professioni come queste non esiste il criterio della nazionalità, perché la cultura, come l'arte e la scienza, non ha nazionalità. Il direttore del Cern di Ginevra dovrebbe essere svizzero solo perché quel centro di ricerca si trova nella confederazione elvetica? E magari proprio originario di uno dei cantoni francofoni, per non urtare la loro sensibilità etnica. E un direttore d'orchestra deve essere nato nella città in cui ha sede l'orchestra che dirige? Pensate che in Lombardia potrebbero esserci solo musicisti leghisti. C'è anche un dato meramente statistico: visto che l'Italia detiene da sola quasi il 50% del patrimonio artistico mondiale, solo noi italiani, che siamo così pochi, dovremmo essere incaricati di occuparcene? E uno studioso tedesco o francese o addirittura cinese non potrebbe mai sperare di diventare direttore di un museo italiano, solo perché tale carica deve essere assegnata per forza a un nostro compatriota?
La questione non è la nazionalità di chi è chiamato a dirigere questa o quella istituzione culturale o scientifica, ma la sua competenza. Ora di questo non posso davvero dire nulla, non conosco nessuno di questi venti, o meglio ho la fortuna di conoscerne uno, perché bolognese e perché è un collega comunale. Lui so che è bravo, molto bravo, e farà bene a Caserta come ha fatto bene a Bologna, ma, con questa eccezione, visto chi ha scelto queste venti persone, non ho una grande fiducia nel risultato finale di questa selezione, di cui peraltro non sono chiarissimi i criteri e gli obiettivi. Il problema non è avere sette direttori stranieri, il problema vero è avere il ministro italiano. Il problema sono i consigliori, tutti rigorosamente italiani, del ministro. Magari potessimo avere al ministero tutti giovani - donne e uomini - provenienti dall'estero, non cresciuti in questa burocrazia asfittica e melmosa, non figli di, non amici di, non iscritti a, ma soprattutto potessimo avere persone capaci di sapere cosa succede nel mondo e non solo in tre o quattro ristoranti di Roma. E magari finalmente un ministro che un po' ne capisce, di politica e di cultura.
Il tema non è sapere se questa o quella persona è in grado di dirigere un museo, o almeno non è la più importante. Fondamentale è decidere che musei vogliamo, e investire di conseguenza. Il museo deve essere una struttura viva, in cui si fa conservazione, ma anche ricerca. E si fa di tutto per mettere a disposizione del pubblico, di tutto il pubblico, il patrimonio di quel museo.
I nostri musei si chiamano così perché così si chiamava il Museo - con l'iniziale maiuscola - che Tolomeo I e i suoi successori vollero costruire ad Alessandria come luogo di incontro tra studiosi, tra persone care alle Muse appunto, e come luogo di insegnamento. Peraltro il Museo era cosmopolita, come lo era la città che lo ospitava, perché quei sovrani vollero che vi arrivassero studiosi, artisti e scienziati di tutte le parti del mondo. Ed era felicemente promiscuo e contaminato, perché arte e scienza devono convivere, anche nel tempo moderno delle iperspecializzazioni. Certo anche nel Museo di Alessandria, al cui interno si trovava la grande biblioteca, la conservazione era importante, ma non era nato per questo, tanto che è stato distrutto, è andato a fuoco - e in quel rogo, o quei roghi, noi abbiamo perso tante opere degli antichi - ma quella distruzione non ha potuto distruggere la cultura di quei sapienti. E noi siamo figlie e figli di quella cultura, nonostante i roghi, perché il loro insegnamento è arrivato fino a noi. Perché la cultura la fanno le donne e gli uomini, non solo i libri, i quadri, le opere d'arte, per quanto splendidi, per quanto preziosi. E la fanno soprattutto quelli che con il loro lavoro riescono ad insegnare agli altri, ai loro contemporanei e a quelli che verranno dopo di loro.
A Eike Schmidt e ai suoi nuovi colleghi forse non potremo chiedere questo, perché si troveranno legati in una pania di regole assurde, di vincoli solo formali, perché avranno a disposizione poche risorse e un personale spesso demotivato, deliberatamente voluto così, perché non valorizzato, non riconosciuto, non pagato in maniera sufficiente. A loro non possiamo chiedere di cambiare il mondo, ma almeno di offrirci dei musei più simili a quelli che si vedono nelle città europee. Capire invece che tipo di museo vogliamo riguarda tutti noi, perché riguarda la politica - e quindi escludiamo Franceschini e i suoi complici - riguarda che idea abbiamo di società e di futuro.

domenica 16 agosto 2015

da "Satyticon" di Petronio

Dov'è ora la tua irascibilità, dove la tua prepotenza? Eccoti qui in balia dei pesci e delle belve e tu, che fino a poco fa vantavi la potenza del tuo dominio, di una nave tanto grande, dopo il naufragio, non hai neppure una tavola. Avanti, ora, mortali, e riempitevi il petto di idee grandi! Avanti, con le vostre precauzioni, e programmate un uso che duri mille anni per le ricchezze procacciate con la frode! Senza dubbio costui ancora ieri fece il bilancio del suo patrimonio, senza dubbio fissò in cuor suo anche il giorno in cui intendeva far ritorno in patria. Dei e dee, come lontano dalla sua meta egli giace! Ma ai mortali non sono solo i mari che danno questa bella prova di lealtà. Quello, mentre combatte, le armi lo piantano in asso, quell'altro, mentre espleta i doveri sacrificali agli dei, vien sepolto dalla rovinosa caduta dei suoi penati. Quello, caduto dalla vettura, resta per sempre senza fiato, lui che si affannava per far presto, il cibo strozza chi è ingordo, il digiuno consuma chi è astinente. A ben fare i calcoli, da ogni parte c'è un naufragio.

venerdì 14 agosto 2015

"Tra tutte le opere" di Bertolt Brecht


Tra tutte le opere
io prediligo quelle usate.
I bacili di rame ammaccati, appiattiti sugli orli,
le forchette e i coltelli dai manici di legno
che molte mani hanno logorato: queste mi parvero
le più nobili forme. Così anche i selci
che circondano le vecchie case,
smussati dai molti piedi che li calpestarono,
coi ciuffi d'erba che vi crescono in mezzo: queste
sono felici opere.

Entrate nell'uso molteplice, sovente variando aspetto,
migliorano la loro guisa, si fanno pregevoli
perché sovente saggiate.
Persino i frammenti di sculture
con le loro mani mozze m'incantano. Per me
vissero anch'essi. Furono portati anche se poi lasciati cadere.
Anche se travolti stettero pure a non grande altezza.
Gli edifici mezzo diroccati
riprendono l'aspetto di maestosi disegni
ancora incompiuti: le loro belle misure
sono già intuibili; è necessario però
il nostro intendimento. Eppure
hanno già servito, sono anzi già sorpassati. Il sentirlo
mi rende felice.

martedì 11 agosto 2015

Verba volant (206): fame...

Fame, sost. f.

Scena: la piccola sala colazione di un piccolo albergo italiano, sul lago Maggiore. Umile, ma onesta, come avrebbe detto Massimo Troisi. Per alcuni giorni gli ospiti dell'albergo - e quindi della sala colazione - sono quasi tutti stranieri e questo spiega il consumo mattutino di salumi, formaggi e uova sode. L'unica famiglia italiana, pur concedendosi il lusso di eccedere un po' rispetto alla normale colazione casalinga, si limita alle offerte dolci del ricco buffet e osserva stupita questo uso, che ci pare - nonostante tutto - barbarico dei clienti di altri paesi. Peraltro la preponderante presenza di stranieri spiega - anche se non giustifica, ai nostri palati italici - il fatto che il caffè sia così così: loro non se ne accorgono. La sala colazione, anche se quasi piena e occupata da diverse famiglie con bambini, è comunque silenziosa e conosciamo le nostre rispettive nazionalità solo dal saluto con cui ci siamo augurati il buongiorno o da un rimprovero a voce un po' più alta rivolto a un bambino vivace; peraltro le sgridate suonano praticamente uguali, da una lingua all'altra.
L'ultimo giorno - il nostro ultimo giorno di vacanza - la proporzione si inverte e gli italiani diventano maggioranza. Di colpo cambia la scena, ma soprattutto l'audio della sala colazione: dopo pochi minuti sappiamo con precisione come ciascuno dei nostri "colleghi" ha dormito la notte precedente, sappiamo cosa faranno nel corso della giornata e sappiamo anche cosa hanno detto i parenti rimasti a casa. Colpisce che, nonostante siano italiani come noi e quindi immaginiamo abituati alla coppia cappuccino e brioche, diminuisca rapidamente il numero di fette di salume e di formaggio sui vassoi del buffet, più rapidamente di quando c'era una maggioranza di tedeschi. Dopo che uno dei nuovi avventori ha chiesto - rumorosamente come al solito - al cameriere un'ulteriore dotazione di tovaglioli di carta, capiamo: sui loro tavoli sono allineati, regolarmente incartati, i panini - due a testa - che si sono nel frattempo preparati e che vengono riposti nello zainetto, che uno di loro ha pronto per la bisogna.
Occorre precisare che non ci trovavamo in una landa desolata, in cui sarebbe stato impossibile procurarsi un qualsivoglia genere di sostentamento, ma in una rinomata località di villeggiatura dove sono si possono trovare - senza sforzo - ristoranti, bar, pizzerie, focaccerie, gelaterie, insomma ogni sorta di locale dove la fame può essere domata, naturalmente dietro l'esborso di una cifra in denaro. Supponiamo anche che non si tratti di una fame atavica, come quella di Totò in Miseria e nobiltà. I nostri rumorosi connazionali si possono evidentemente permettere di andare in vacanza e di fare i tre regolari pasti al giorno. Non li abbiamo seguiti durante la giornata, ma - vedendo in azione altri esemplari di quella specie - siamo certi che abbiamo mangiato, prima, dopo e durante il pranzo al sacco gentilmente "offerto" dall'albergo, delle cose comprate lungo la strada. La figlia dei connazionali rumorosi è un'adolescente, pensiamo particolarmente attenta a quello che mangia - per evidenti ragioni di look - e forse i suoi due panini, preparati dalla mamma con le provviste dell'albergo, neppure li mangerà e magari saranno gettati; anche questo può essere facilmente verificato osservando un gruppo di persone in vacanza.
Naturalmente non voglio trarre da questo piccolo episodio una morale: so bene che ci sono tedeschi rumorosi - e forse anche qualcuno di loro che si prepara i "panini di scorta" approfittando del buffet dell'albergo - e italiani che sembrano svizzeri. Però qualcosa vorrà dire. Farsi i panini per il pranzo al buffet della colazione è il segno di una mancanza di rispetto per quelli che vengono a mangiare dopo di te, di una furbizia da quattro soldi, di un'incapacità di rispettare le comuni regole del vivere civile che sono preponderanti nel nostro paese, che sono ormai le nostre caratteristiche dominanti. A tutti i livelli e in tutte le circostanze. Beati gli ultimi, se i primi sono onesti, dice un conosciuto adagio del nostro paese e per questo noi italiani, conoscendoci, cerchiamo sempre di arrivare per primi al buffet.

venerdì 31 luglio 2015

Verba volant (110): strage...



Strage, sost. f.

Il sostantivo latino strages ha la stessa radice di sternere, che significa abbattere.
Il 2 agosto 1980 forze oscure e potenti decisero di gettare a terra il nostro paese, facendo scoppiare una bomba nella sala d’aspetto di seconda classe della stazione centrale di Bologna. Da allora non ci siamo più rialzati.
Sappiamo ormai chi ha messo quella bomba, chi ha ordinato quella strage, chi ha insabbiato e ha coperto per anni esecutori e mandanti. Non sappiamo tutti i loro nomi e, anche quando li sappiamo, non ci sono le prove per condannarli. Probabilmente alcuni nomi non li sapremo mai e, a questo punto, dopo 35 anni da quel terribile giorno di agosto, non arriveranno altre sentenze. Su questo hanno vinto loro, nonostante gli sforzi di alcuni magistrati coraggiosi che hanno provato, nonostante tutto, a cercare la verità, e l’impegno con cui l’associazione delle famiglie delle vittime ha ostinatamente continuato a chiedere giustizia.
Sappiamo chi ha voluto quella strage perché abbiamo studiato qualche libro di storia, perché abbiamo letto l’articolo Cos’è questo golpe? Io so di Pier Paolo Pasolini, scritto per raccontare la verità sulle stragi che hanno preceduto quella di Bologna. Soprattutto perché abbiamo visto cosa è successo dopo quella stagione di stragi, cominciata il 12 dicembre 1969.
C’è qualcosa però in quella strage che non ho mai capito fino in fondo. La strage di Bologna non serviva più, l’Italia era già cambiata, avevamo già capito la lezione. Nel ’69 e negli anni immediatamente successivi la parte oscura del potere di questo paese - politici, militari, industriali, mafiosi - decisero di armare dei gruppi fascisti affinché in Italia ci fosse un clima tale da auspicare una svolta autoritaria o almeno da fermare la crescita di una cultura riformatrice. E così fu. Ma nell’80 non c’era più bisogno delle stragi.
Temevano che l’Italia potesse diventare troppo di sinistra? Era un timore infondato; poche settimane prima della strage questo paese aveva già dato prova della propria fedeltà all’alleanza atlantica, coprendo tutte le nefandezze che americani e francesi avevano commesso sui cieli di Ustica e gli euromissili a Comiso sarebbero stati installati comunque, nonostante le proteste del Pci di Enrico Berlinguer e di Pio La Torre. Volevano dare un segnale ai notabili democristiani? Sarebbe stato sufficiente ucciderne uno, come fece la mafia nel ’92 con Salvo Lima; e poi Aldo Moro era già morto, ucciso da altri, ma con la benevola complicità di questi pezzi oscuri dello stato. Per impaurire Nenni e quelli che avevano combattuto in Spagna e avevano fatto la Resistenza era stato necessario organizzare il golpe Borghese, ma per fermare quelli venuti dopo bastavano un po’ di soldi.
Chi ha deciso di colpire la stazione di Bologna ha voluto certamente colpire la città dei comunisti. Ma credo soprattutto sia stato animato da un odio profondo verso il popolo. Non è stata scelta a caso proprio la sala d’attesa di seconda classe, non è stata scelta a caso la data della strage. Erano i primi giorni di vacanza, la stazione era affollata - come sempre - di viaggiatori, ma soprattutto era piena di famiglie del popolo - operai, impiegati, studenti, gente normale insomma - persone che finalmente potevano permettersi una vacanza, magari breve, magari in carrozza di seconda classe, magari verso la solita pensione della Riviera, ma era una vacanza, qualcosa che solo fino a qualche anno prima si potevano permettere solo i ricchi. E a qualcuno dava fastidio proprio questa spensierata voglia di benessere. Io sono convinto che ci sia anche l’odio di classe dietro la strage di Bologna; anzi è proprio questo odio che ne spiega, in qualche modo, l’efferatezza.
E anche su questo purtroppo hanno vinto loro. Non usano più le bombe, non hanno più bisogno della manovalanza fascista, hanno imparato ad utilizzare sistemi più sofisticati - e apparentemente indolori - ma l’obiettivo è sempre quello: garantire i loro privilegi, le loro ricchezze, il loro potere, contro di noi. E, con tutta evidenza, ci stanno riuscendo, dal momento che si allarga la forbice tra i pochissimi che hanno molto, sempre più, e i moltissimi che hanno poco, sempre meno. E perché si restringono gli ambiti della democrazia, in Italia come nel resto d’Europa.
Hanno vinto loro perché sono riusciti, anche grazie a quella strage, a far sì che il nostro paese fosse come loro volevano diventasse. Per questo io non credo a quelli che dicono che bisogna superare quegli anni, che bisogna arrivare a un clima di pacificazione. Io non credo alla pacificazione e personalmente non la auspico: io “quelli” voglio continuare a detestarli, a odiarli, anche per quello che hanno fatto 35 anni fa alla stazione di Bologna.
Questo 2 agosto non sono a Bologna, non vado da diversi anni alla manifestazione ufficiale, ma il mio pensiero va a quelle persone. Per chi non crede - come me - leggere la lista dei nomi, ripeterli ogni anno, ogni volta che si passa per quella stazione e si ha il tempo per sostare qualche minuto davanti a quella lapide, è una sorta di preghiera laica, la preghiera della memoria.

giovedì 30 luglio 2015

Verba volant (205): decoro...

Decoro, sost. m.

Al di là delle inevitabili - e francamente poco interessanti - meschinerie legate alla guerra tra bande che si sta consumando per il controllo del Comune di Roma, la vicenda della capitale è interessante sotto diversi punti di vista. Tra qualche mese Ignazio Marino sarà cacciato dal Campidoglio con l'accusa, infamante, di non aver riportato il decoro nella città eterna, perché ovviamente in pochi mesi non riuscirà a ripulire Roma, almeno secondo i desiderata delle persone che in queste settimane urlano perché la città è sporca e che hanno trovato eco anche su tutti i giornali nazionali e internazionali. Roma - come qualunque altra città, piccola o grande - non sarà mai pulita, o almeno non sarà mai pulita come chiedono questi esagitati, anche perché qualche giornalista "a servizio" troverà sempre una cartaccia per terra o una scritta su un muro, di cui incolpare il sindaco di turno, e perché quelli che vogliono cambiare il sindaco troveranno sempre qualcuno disposto a "sporcare" per loro la città, a costo di pagarlo.
Il problema è ridurre il tema complesso del governo di una città - e tanto più complesso quanto più la città è grande - al decoro. Cos'è il decoro? Chi lo giudica? Chi lo misura? Ma soprattutto è davvero così importante? Una ventina d'anni fa a Parma l'amministrazione guidata da Elvio Ubaldi - fintamente civica, ma saldamente in mano al mondo degli affari e al centrodestra cittadino - si caratterizzò per un notevole impegno nel ripristinare il decoro della città, anche con risultati oggettivamente eccellenti. I parmigiani applaudirono a quegli interventi di facciata - nella città ducale la forma è da sempre più importante della sostanza - e Parma fu vista da tanti come un modello di buon governo cittadino, come un esempio da imitare; eppure proprio in quegli anni è nato quel sistema di malaffare e di corruttela diffusa, che ha portato di fatto la città al fallimento, le cui conseguenze si sentiranno ancora per moltissimi anni e da cui probabilmente la città non si risolleverà più. Rischiamo che il decoro fine a stesso si trasformi in quella roba lì, se si perde il concetto di governare, se non si ha un'idea della città che si vuole costruire.
A Roma è stata scoperta un'organizzazione criminale di tipo mafioso ramificata nella politica e nella pubblica amministrazione e per renzi e il New York Times il problema è il fatto che i marciapiedi non sono puliti. A Roma ci sono bande fasciste che organizzano blocchi stradali davanti ai centri di accoglienza e Alessandro Gassman, immagino in buona fede, propone che i cittadini scendano in piazza armati di ramazze per pulire le strade.
Da molto tempo le città - ed evidentemente anche i cittadini - soffrono questa mancanza di governo, questa assenza di progettualità, che non è solo imputabile al continuo calare delle risorse, all'applicazione rigorosa e sostanzialmente stupida del patto di stabilità, che ha frenato ogni investimento pubblico nelle città italiane. Questo è certamente vero, ma è anche vero che per molti sindaci, se il patto di stabilità non ci fosse stato, avrebbero dovuto inventarlo. Questa mancanza di risorse è stata per tantissimi amministratori un alibi perfetto con cui nascondere la propria incapacità, la propria inadeguatezza, la propria stupidità. Non si ragiona più su cosa deve diventare una città, in che modo deve crescere - o non crescere - su come devono essere distribuite le risorse. Le città, o meglio tanti cittadini che vivono nelle città - qualunque città, il discorso non vale solo per Roma - stanno diventando più poveri e il problema più importante non può essere il decoro, il sindaco non può essere giudicato soltanto da come ha pulito le strade o da come ha sistemato le aiuole, ma anche da come ha aiutato i cittadini a resistere alla povertà, da cosa ha fatto per rendere la sua città più solidale. A Roma c'è un enorme patrimonio immobiliare pubblico, tantissime case per lo più vuote o male utilizzate; l'amministrazione capitolina ha un piano per utilizzare almeno una parte di questo patrimonio? O preferisce, come fanno praticamente tutte le altre amministrazioni comunali, continuare a concedere autorizzazioni per costruire brutte case in periferia? E in questo caso dove sta il decoro?
Poi certamente c'è anche il tema della bellezza della città - visto che Marx ci ha insegnato a volere il pane e le rose - ma la bellezza è qualcosa di profondamente diverso dal decoro. Nella bellezza c'è un'idea, c'è anche una sfida che le città - e chi le amministra - dovrebbero assumersi. I centri commerciali che punteggiano le periferie delle nostre città sono belli? Spesso no. Sono un esempio di decoro? Sì, sono puliti, sono ben curati, sono "decorosi", perché c'è sempre qualche lavoratrice - per lo più straniera - pronta a passare lungo gli scaffali del supermercato o davanti alle vetrine dei negozi per raccogliere le cartacce. E nessuno osa sedersi per terra in un centro commerciale, anche perché chi lo facesse, sarebbe - più o meno gentilmente - accompagnato all'uscita da un robusto bodyguard. Poi a nessuno interessa se la donna che pulisce e l'energico "accompagnatore" siano assunti in regola o in nero o se ricevano una paga adeguata. Il decoro è comunque salvo. E a nessuno interessa quante tangenti siano state pagate per costruire quel centro commerciale, quanti alberi siano stati abbattuti, cosa altro si sarebbe potuto costruire lì. Il decoro è comunque salvo.
In questi anni, l'ho scritto molte volte - a qualcuno ormai sembrerò perfino noioso - c'è stata una progressiva e inesorabile riduzione degli ambiti della democrazia in questo paese, di cui hanno fatto le spese prima di tutto le assemblee elettive e gli enti locali, oltre naturalmente a noi cittadini. D'altra parte, se tutto il governo di una città si riduce alla capacità di tenerla pulita, al rispetto del decoro, alla lotta contro il degrado - altro termine feticcio, che vuol dire tutto e niente - a cosa serve un sindaco eletto dai cittadini? Basta un commissario, e infatti il disegno di renzi per Roma è sostituire Marino, per un tempo indefinito, con il prefetto Gabrielli, che nei prossimi mesi gestirà il Giubileo e poi tutta Roma. Perché un commissario è sicuramente più efficiente, non ha paura di doversi scontrare con nessuno, tanto sa che il suo potere non deriva dalla legittimazione popolare, ma dal favore del governo. Magari è più corrotto perché non c'è nessuno che lo controlli, ma questo non importa a nessuno. Chiaramente renzi - o meglio chi pensa e agisce dietro a questo antipatico fantoccio - immagina, al posto dei Comuni, un sistema di commissari - mi verrebbe da dire di podestà - assoggettati al sindaco d'Italia che siede a palazzo Chigi. In sostanza a cosa serve la politica quando la logica è quella dell'emergenza? In questi anni il capitale ha delegittimato la politica, per delegittimare la democrazia, e così oggi il loro maggior rappresentante a capo del governo è il campione dell'antipolitica, l'uomo che ha distrutto l'ultimo rimasto dei partiti italiani.
Questa parossistica ricerca del decoro, in cui sono impegnati tutti i sindaci d'Italia, con risultati più o meno brillanti, rischia di farci dimenticare cos'è una città. Una città è un organismo, complesso e vivo, in cui abitano, lavorano, si divertono e soffrono le persone. Una città più bella non è solo una città più pulita e più ordinata, ma una città più solidale e una città in cui si produce più cultura, una città in cui si riconosce una storia - e pensate quante storie Roma avrebbe da raccontare - una città che sa accogliere, sia i turisti, anche quelli che la visitano per un giorno solo, sia i nuovi cittadini, arrivati spesso da paesi molto lontani, una città che non ha paura del futuro, una città più onesta e più democratica. Una volta queste erano le sfide della sinistra, che infatti ha espresso alcune generazioni di ottimi amministratori - lo so perché ho avuto la fortuna di conoscerne un po' - adesso sembra che anche su questo punto abbiamo rinunciato, magari per assicurarci un posto nella municipalizzata incaricata di pulire le strade.
E una città così, diventata più bella perché più ricca di cultura e di culture, sarà anche più pulita, perché ciascuno di noi la sentirà propria. E la curerà.

lunedì 27 luglio 2015

Verba volant (204): intercettazione...

Intercettazione, sost. f.

C'è davvero stata quella benedetta telefonata tra Crocetta e Tutino? E se c'è stata, è stata davvero intercettata? Non lo so, non lo sappiamo, ma francamente a questo punto saperlo è quasi superfluo, ininfluente; certamente esiste la notizia di quell'intercettazione e questo è bastato a scatenare quello che chi ha confezionato quella notizia voleva scatenare.
Premetto che io non parteggio per nessuna delle parti in causa: sapete che ho un pessimo giudizio del pd e dei suoi dirigenti e Crocetta è uno dei tanti cacicchi a cui quel partito, specialmente nelle regioni del sud, si è affidato per ottenere voti e per raggiungere il governo; è solo più debole di altri, ad esempio di Emiliano e di De Luca - per fare i nomi di altri due boss molto noti - che invece, forti dei loro voti e dei loro affari, spadroneggiano nei loro territori, ricattando il governo centrale. Fosse per me Crocetta potrebbe andare a casa anche domani, mi è sostanzialmente indifferente a quale "cosca" del pd appartenga il presidente di quell'importante regione del nostro paese, però questa vicenda è inquietante per tanti aspetti e dovrebbe preoccupare chi crede ancora nelle istituzioni e chi spera - forse illudendosi - di poter cambiare veramente, e non solo a parole, questo paese.
Un primo aspetto preoccupante riguarda l'intercettazione in sé. Teoricamente, dal momento che le procure hanno escluso di avere agli atti questa specifica intercettazione, dovremmo dedurre che non esiste e che quindi quella telefonata non si è svolta, o almeno non si è svolta con le modalità ormai note. Però queste smentite non sono servite a niente, perché evidentemente tutti sanno che esiste un sistema illegale di intercettazioni, a cui molte persone sono sottoposte, indipendentemente dal fatto che esista su di loro un'indagine giudiziaria. In questo paese non è possibile avere completa fiducia delle istituzioni a cui è delegata la tutela dell'ordine pubblico, perché sappiamo che negli anni hanno risposto a poteri diversi rispetto a quelli costituzionali, poteri sempre illegali e spesso criminali. Sappiamo che i servizi segreti di questo paese hanno sempre agito - e agiscono - al di fuori della Costituzione e quindi sappiamo che queste intercettazioni "mirate" vengono fatte e che vengono usate. Quindi quella intercettazione, anche se non è stata ordinata dalla magistratura, è possibile che esista.
L'altro aspetto preoccupante è che questa telefonata tra il presidente della Regione e un importante esponente della sanità siciliana - incidentalmente anche suo medico e medico di una buona parte della classe dirigente dell'isola, mafia compresa - è verosimile, perché indicativa della crisi morale, prima che politica, di questo paese - di tutto il paese, non solo delle regioni del sud - in cui gli interessi particolari prevalgono su quelli generali e le consorterie sulla politica, in cui queste telefonate, durante le quali si alternano minacce, blandizie, scambi di favori, di promesse, di segreti, sono ormai comuni, perché raccontano la viscida rete di complicità che tiene legate tra loro le nostre classi dirigenti. Sappiamo che quella telefonata può esserci stata, può essersi svolta nei toni raccontati da quel cronista prezzolato, e questo è comunque grave.
L'elemento più importante però è che chi ha voluto colpire Crocetta, immaginando di poterlo sostituire alla fine di questa vicenda con una persona più gradita, non ha usato l'intercettazione - come avrebbe potuto fare e come solitamente "loro" fanno - in maniera riservata, ma ha organizzato questa messinscena per lanciare segnali obliqui anche ad altre persone. Davvero, come diceva Giovanni Falcone, ci troviamo al cospetto di menti raffinatissime; che poi si tratti di mafia non possiamo saperlo, anzi personalmente penso che la mafia non c'entri affatto. L'intercettazione è stata pubblicata su un giornale direttamente riconducibile ai poteri che sostengono l'attuale presidente del consiglio e la sua cricca e a pochi giorni dall'anniversario della strage di via D'Amelio. Ovviamente nessuna delle due circostanze è casuale.
Scegliendo L'Espresso l'autore di questa vicenda ha voluto dire qualcosa, anche se in maniera indiretta, a quelli che hanno scelto il fantoccio di Rignano, a quelli che governano questo paese manovrando lui e i suoi ministri. Ha detto loro di stare comunque attenti, perché, anche se adesso sono forti e si credono invincibili, c'è qualcun altro, altrettanto forte, che può sparigliare i giochi, magari facendo pubblicare una qualche intercettazione proprio su renzi e i suoi amici oppure facendo qualcosa di molto peggio. Io credo che i veri destinatari di questo attacco non siano tanto a Palermo - Crocetta è una figura debole, che non richiedeva questa operazione per essere delegittimato - ma a Roma, un po' come avvenne nel marzo del '92, in un'altra fase delicatissima della vita del paese, quando uccisero fisicamente Salvo Lima per ammazzare politicamente Giulio Andreotti.
Il 23 maggio e il 19 luglio sono gli unici due giorni, in questo triste paese che ha perso la memoria, in cui si fa davvero qualcosa per far crescere la cultura contro la mafia, un po' per ipocrisia, ma soprattutto per sincera commozione. Due giorni su 365 sono pochi, praticamente nulla, ma anche due giorni danno fastidio alla mafia e a chi con la mafia fa affari e governa. E infatti quest'anno, oltre che a colpire Crocetta e il pd, sono riusciti, con questa notizia, a far passare sotto silenzio l'anniversario della strage di via D'Amelio: forse non è stato il motivo scatenante di questa operazione, anche perché credo che non sia una questione strettamente legata alla mafia, ma certamente un effetto collaterale, gradito e cercato. Altrimenti non avrebbero aspettato proprio alcuni giorni prima del 19 luglio per scatenare questa bagarre. Che è servita a far passare il messaggio che in fondo sono tutti uguali, che si può anche non votare, perché tanto il più pulito ha la rogna e cose così.
In quei giorni, e anche questa cosa è degna di nota, un po' tutti abbiamo fatto la nostra parte in commedia, abbiamo fatto quello che chi ha pensato a tutto questo voleva che facessimo. A partire dalla famiglia di Paolo Borsellino, su cui l'opinione pubblica ha riversato la propria gratitudine verso quello che ha fatto quel magistrato. E anche su questa sorta di transfert emotivo credo che prima o poi dovremmo interrogarci: basta essere il familiare di una persona perbene per essere una persona altrettanto perbene? Personalmente comincio a nutrire qualche dubbio e credo che per primi i familiari dovrebbero stare attenti al potere che hanno, un potere che non hanno certo chiesto, che si sono ritrovati in mano, ma che possono usare bene o male. Non ho motivo per dubitare che Manfredi Borsellino sia un'ottima persona e un bravo poliziotto, ma le sue parole, certamente dettate dall'amore per la sorella, certamente dette in buona fede, hanno finito per chiudere il caso. E' stato proprio il suo discorso a rendere del tutto inutile che l'intercettazione esistesse o meno; e questo il manovratore lo sapeva bene, proprio come sapeva che tanti avremmo scritto parole sdegnate. Proprio perché l'intercettazione ci è sembrata credibile in tanti abbiamo lanciato la nostra pietra, piccola o grande, contro Crocetta, e così abbiamo fatto il gioco dell'abilissimo organizzatore di questo dramma pirandelliano, in cui nessuno è come lo si crede.
Tra qualche mese Crocetta si sarà dimesso - o l'avranno fatto dimettere - tra un po' di tempo ci sarà un nuovo governo in Sicilia, altrettanto incapace di quello che c'è adesso di affrontare i problemi di quella regione, e quindi la mafia sarà ancora un po' più forte, perché più è debole lo stato più è forte la mafia. In questi giorni credo si sia consumato un atto della nuova trattativa tra un pezzo di stato - o chi per lui - e la criminalità: il capitale, in cambio di voti e di soldi, lascia il governo di quella terra ai clan mafiosi, anche perché con loro ormai fa affari in tutta Italia. Pecunia non olet.

giovedì 23 luglio 2015

Verba volant (203): rogo...

Rogo, sost. m.

Il 13 luglio 1920 i fascisti bruciarono a Trieste il Narodni dom, la Casa nazionale degli sloveni della città, la sede delle loro organizzazioni, in cui si trovavano anche un teatro, una cassa di risparmio, un caffè e un albergo, l'Hotel Balkan. Quell'incendio fu, secondo gli storici, uno dei primi atti dello squadrismo, che, in quei lunghi mesi che precedettero la marcia su Roma, uccise migliaia di persone, distrusse sedi di partito, camere del lavoro, redazioni e tipografie di giornali. E' una delle pagine più drammatiche della storia recente del nostro paese, che portò al regime fascista e alla guerra. A leggere le cronache di quegli anni colpisce, insieme alla violenza verbale dei fascisti che rivendicavano con orgoglio quelle aggressioni, l'ignavia di tanti democratici che sottovalutarono quel fenomeno, provarono a spiegarlo, a giustificarlo, a ridimensionarlo. E le poche voci che provarono a denunciarlo - che pure ci sono state - furono o messe a tacere con la forza o semplicemente ignorate.
Questo è uno dei tanti anniversari che non siamo soliti ricordare in questo paese, che ha volutamente perso la memoria. E siccome quelli che dimenticano la storia, sono condannati a riviverla, quasi negli stessi giorni, in queste assolate e calde giornate di luglio, squadre fasciste sono tornate in azione, a Treviso e a Roma, usando ancora il fuoco e colpendo, ancora una volta, gli stranieri, i diversi. E purtroppo, ora come allora, sono troppe le voci che cercano di sottovalutare queste azioni. Naturalmente sono molto preoccupanti le reazioni di quegli esponenti politici, a volte anche con rilevanti incarichi istituzionali, che hanno giustificato queste violenze, che hanno dato la loro solidarietà agli aggressori invece che agli aggrediti. Sappiamo che c'è in Italia, come in Europa, una destra che esaspera queste contraddizioni e ha bisogno, per sopravvivere, di questi fenomeni di violenza. Purtroppo è sempre più difficile arginarla, anche perché in molti casi i loro voti vengono cercati, i loro leader vengono blanditi, anche da quelle forze di destra che pure dovrebbero avere una storia antifascista: Zaia - non dobbiamo mai dimenticarlo - governa il Veneto con i voti di tutto il centrodestra italiano. In Francia una parte rilevante della destra repubblicana non è disponibile a un'alleanza con il partito di Marine Le Pen, in Italia invece questo argine è rotto da tempo e ormai non può più essere riparato.
A me però quello che preoccupa di più non è la violenza verbale della Lega o di Fratelli d'Italia o di quei partiti che cercano di intestarsi, per calcolo elettorale, questo razzismo xenofobo, alimentato dalla crisi e dalla povertà, ma la sostanziale indifferenza con cui questi episodi sono stati affrontati e soprattutto l'incapacità - o la non volontà - di chiamare le cose con i loro nomi. Sono stati episodi di squadrismo, compiuti da gruppi, organizzati e conosciuti, di fascisti. Abbiamo letto commenti che tendono a ridimensionare questi gravi episodi di violenza, e che, pur condannandoli, cercano di attenuarne la portata; in molti casi abbiamo letto espressioni come "guerra tra poveri" oppure analisi sulla composizione sociale dei cittadini che avrebbero partecipato a queste violenze, sottolineandone l'esasperazione. Come è accaduto anni fa a Rosarno, in questi casi non sono stati i cittadini, per quanto esasperati, per quanto poveri, per quanto rancorosi verso i nuovi arrivati - ancora più poveri di loro - a bruciare i letti destinati all'accoglienza dei migranti o ad organizzare i blocchi, ma allora furono le cosche dell'ndrangheta e ora sono state le bande fasciste legate a CasaPound.
Non possiamo girarci intorno, non possiamo fare finta che non esistano. Ci sono e naturalmente c'è qualcuno a cui va bene che ci siano, qualcuno a cui conviene che queste bande fasciste rimangano in attività, pronte ad intervenire, per tenere alto un livello di tensione, che evidentemente a loro fa comodo. Sappiamo ormai bene chi finanziava le squadre fasciste negli anni Venti, sappiamo che ricevevano denaro e ordini dai grandi proprietari terrieri e dagli industriali per stroncare sul nascere ogni richiesta dei socialisti. Le squadre fasciste si sono diffuse nel paese perché la loro azione serviva alle classi dominanti per tenere a freno il nascente movimento socialista. Ora non ci sarebbe neppure più il bisogno di intimidirci, visto che la sinistra in Italia si è suicidata, consegnandosi a renzi e al pd, eppure, per antica paura o per inveterata abitudine, tengono questa arma sempre carica, sempre pronta a colpire.
Per questo dobbiamo denunciare ogni volta che le forze del capitale usano i fascisti, per questo dobbiamo spegnere i roghi non appena si accendono. Perché più tardi si interviene più è difficile farlo.

mercoledì 22 luglio 2015

da "Homer & Langley" di E.L. Doctorow

Il principale progetto di Langley era la raccolta dei giornali allo scopo ultimo di creare un numero unico ed eterno che andasse bene per qualsiasi giorno. […] Il progetto di Langley consisteva nel contare gli articoli di cronaca e archiviarli secondo la categoria: invasioni, guerre, stragi, incidenti d'auto, disastri ferroviari e aerei, scandali rosa, scandali ecclesiastici, rapine, omicidi, linciaggi, stupri, malefatte politiche con una sottocategoria per i brogli elettorali, reati della polizia, crimini della malavita, truffe finanziarie, scioperi, roghi di casamenti popolari, processi civili, processi penali, e così via. C'era una categoria a parte per i disastri naturali come epidemie, terremoti e uragani. Non le ricordo tutte. Langley mi spiegò che alla fine - non disse quando - avrebbe avuto sufficienti prove statistiche per circoscrivere i risultati agli avvenimenti definibili, per la loro frequenza, come manifestazioni fondamentali del comportamento umano. Dopodiché, grazie a ulteriori confronti statistici, avrebbe ottenuto un modello fisso in base al quale stabilire quali articoli andassero in prima pagina, quali in seconda, e così via. Anche le fotografie andavano commentate e scelte per la loro tipicità, ma questo, ammetteva, era difficile. Forse non avrebbe usato fotografie. Era un'impresa colossale, che lo teneva occupato parecchie ore al giorno. Correva fuori a comprare tutti i giornali del mattino, e più tardi quelli della sera, e poi c'erano i quotidiani finanziari, le pubblicazioni erotiche, quelle che trattavano dei vaudeville e dei fenomeni da baraccone, e così via. Voleva fissare la vita americana in un'unica edizione, quello che definiva il giornale di Collyer senza data, eternamente attuale, il solo giornale di cui la gente avrebbe avuto bisogno.

da "Ragtime" di E.L. Doctorow

La Mamma portò il lutto per un anno. Alla fine di questo periodo, Tate, avendo accettato che sua moglie era morta, le chiese di sposarlo. Naturalmente, non sono barone, disse, sono un ebreo lituano socialista. La Mamma accettò senza esitare. Lo adorava, e le piaceva stare con lui. Ciascuno trovava deliziosi i tratti del carattere dell'altro. Si sposarono con una cerimonia civile in un'aula del tribunale di New York City. Si sentirono benedetti. La loro unione fu felice, anche se senza prole. Tate fece un mucchio di denaro scrivendo sceneggiature di film a serie Nido di spie, e L'ombra del sottomarino. Il suo grande successo doveva ancora venire. La famiglia trovò un inquilino per la casa di New Rochelle, e si trasferì in California. Andarono ad abitare in una grande casa bianca, con le finestre arcuate il tetto di tegole arancione. Lungo il marciapiede v'era una fila di palme, e nel giardino aiuole di fiori rossi. Una mattina, Tate guardò fuori dalla finestra del suo studio, e vide i tre bambini seduti sul prato. Dietro di loro, sul marciapiede, c'era un triciclo. Stavano parlando, mentre prendevano il sole. Sua figlia, dai capelli neri, il figliastro dal capelli color grano, e il figlio adottivo, il bambino nero. D'un tratto gli venne un'idea per un film. Un gruppo di bambini, tutti amici, bianchi, neri, grassi, magri, ricchi, poveri, di ogni qualità, birbantelli, piccoli manigoldi, protagonisti di mille avventure buffe, un mazzo di furfantelli come tutti noi, una banda, che si cacciava nei guai e ne veniva fuori. In realtà, da quest'idea nacque non un solo film, ma diversi. E per allora, l'era del Ragtime era ormai finita, come se la storia altro non fosse che un'aria suonata da una pianola. Avevamo fatto la guerra e l'avevamo vinta. L'anarchica Emma Goldman era stata deportata. La bella e appassionata Evelyn Nesbit aveva perduto la sua bellezza ed era caduta nell'oscurità. E Harry K. Thaw, ottenuto il rilascio dal manicomio, ogni anno sfilava a Newport, nella parata dell'Anniversario dell'Armistizio.

venerdì 17 luglio 2015

Verba volant (202): povero...

Povero, agg. e sost. m.

I più antichi etimologisti decompongono il termine latino pauper - da cui deriva l'italiano povero - in pau-ca e par-iens, quindi il povero è letteralmente colui che produce poco; mi pare significativo che già la storia della lingua metta in relazione la povertà e il lavoro. 
Gli statistici inevitabilmente misurano la povertà utilizzando un criterio quantitativo, ossia calcolano quanto denaro è necessario per acquistare i beni e i servizi ritenuti essenziali per uno standard di vita minimo, ma questo dato - per quanto significativo - non riesce a descrivere e raccontare la povertà, che è un fenomeno sociale più complesso e che dovremmo saper misurare anche usando criteri qualitativi. E non solo per concordare con l'antico adagio secondo cui i soldi non danno la felicità, proverbio peraltro inventato da chi i soldi li ha e cerca in questo modo di consolare chi invece non li ha.
In questi giorni è uscita l'ultima indagine dell'Istat che fotografa la povertà in Italia e i dati sono, come sempre, sconfortanti. Nel 2014 l'incidenza della povertà assoluta nel nostro paese è sostanzialmente stabile: 1 milione e 470mila famiglie - il 6,8% della popolazione residente, pari a 4 milioni e 102mila persone - sono in condizione di povertà assoluta, con una percentuale che sale nel Mezzogiorno all'8,6%. E il fatto che, dopo due anni in cui i poveri sono aumentati, quest'anno il dato sia rimasto stabile non è una buona notizia. La cosa preoccupante è che non si incide sulle cause che determinano questa povertà, limitandosi a qualche intervento di maquillage come i bonus, così cari a questo governo, o qualche altra regalia, interventi che comunque lasciano il tempo che trovano.
Torniamo quindi al valore etimologico del termine e proviamo a considerare povero chi non lavora. Chi non ha un lavoro è povero non soltanto per il fatto che non ha, per sé e per la propria famiglia, i soldi necessari per comprare il pane, ma soprattutto perché perde in dignità, in competenza, in libertà. 
Per la generazione di mio padre il lavoro ha rappresentato un elemento fondamentale della propria formazione. Mio padre aveva la licenza elementare, ma ha sempre lavorato e lavorando ha sviluppato tutte le proprie competenze, anche tecniche. In particolare mio padre sapeva fare - e bene - diverse cose in campo elettromeccanico e le ha imparate esclusivamente facendole - e sbagliando all'inizio - osservando le persone più vecchie di lui che le sapevano già fare, soprattutto non smettendo mai di aggiornarsi; e le ha continuate ad imparare, anche mentre le insegnava a persone più giovani di lui. Per mio padre il lavoro - insieme alla politica - è stato un'agenzia formativa molto più importante della scuola; e questo vale per tantissime persone di quella generazione. Per quelli della generazione di mio padre l'art. 1 della Costituzione non era una formula rituale, ma qualcosa che vivevano giorno per giorno, per cui avevano lottato e che avrebbero voluto trasmettere a noi.
Per quella generazione il saper fare - e questo valeva per ogni lavoro, perché ogni lavoro aveva una propria dignità - significava poter lavorare e quindi essere un cittadino. Perché il lavoro, insieme al salario - che è importante e deve essere equo - dà alle persone una ricchezza non quantificabile, perché è il lavoro, e non il salario, che rende cittadini liberi. Per questo le forze del capitale hanno svalutato in questi anni il lavoro, lo hanno impoverito, lo hanno precarizzato, lo hanno dequalificato, oltre naturalmente ad avergli dato meno valore attraverso salari sempre più bassi e non più equi. Magari possono concedere un reddito di cittadinanza, perché una paga senza lavoro non crea cittadini, ma sudditi; e loro, come abbiamo visto anche in questi giorni in Grecia, hanno bisogno di sudditi, non di cittadini.
La vicenda greca è paradigmatica di questo scontro. La povertà non si combatte con il rigore. In Grecia l'austerità e gli interventi di svalutazione del lavoro hanno provocato un crollo del pil del 25%, hanno portato la disoccupazione al 27% e fatto diminuire stipendi e pensioni di oltre il 35%. In un paese che aveva bisogno di lavoro, non sono stati fatti interventi per stimolare la competitività e la crescita, ma sono stati fatti solo tagli ai servizi pubblici, è stato reso più precario il lavoro e più difficile studiare. E così i poveri sono aumentati e sono destinati, purtroppo, a crescere ancora.
Per questo lottare contro la povertà significa essenzialmente garantire opportunità di lavoro, sicuro, che garantisca alle persone un reddito equo e una prospettiva di continuità, che permetta loro di crescere, di formarsi, di avere dignità. Perché - ed è il più grande insegnamento che ci ha lasciato la generazione di mio padre - una persona che ha dignità non è mai povera.

lunedì 13 luglio 2015

Verba volant (201): battaglia...

Battaglia, sost. f.

Non è stata la battaglia di Maratona, in cui l'esercito ateniese, pur inferiore per numero, sconfisse l'armata persiana, grazie al coraggio dei propri soldati e all'abilità dei propri strateghi. Ma non è stata neppure la battaglia delle Termopili, anche se qualcuno in Germania avrebbe voluto sterminare i governanti greci, come fecero le truppe di Serse con gli opliti spartani. E' stata una sconfitta - è onesto dirlo - perché la sproporzione delle forze in campo era evidente. Tsipras e gli altri che con lui hanno trattato hanno capito evidentemente che quello era il massimo risultato che potevano raggiungere, sono stati realisti e hanno fatto bene a fare quello che hanno fatto, portando a casa alcuni risultati possibili, soprattutto la concessione di un prestito notevole, per tre anni, che per un po' di tempo metterà quel paese al riparo da queste trattative continue e dal furore cieco dei nemici della Grecia.
Comunque sia è stata una battaglia importante, perché ha svelato qualcosa che fino ad ora erano riusciti a mascherare, a celare. Alle forze del capitale non è mai interessato risolvere la questione del debito greco - un problema tutto sommato economicamente poco rilevante - il loro vero obiettivo è sempre stato quello di eliminare - con le buone o con le cattive - il governo greco perché espressione di una sinistra non addomesticabile, non disposta a piegarsi ai voleri del liberismo. Punire la Grecia era indispensabile perché occorreva mandare il segnale, agli spagnoli prima di tutto, ma anche a tutti quelli che potevano mai pensare di ribellarsi, che la punizione sarebbe stata terribile. Tsipras e Syriza hanno avuto il merito storico, anche grazie all'intuizione di indire il referendum, che non si trattava di una questione economica, ma esclusivamente politica, di uno scontro politico violentissimo, in cui le forze del capitale erano disposte a tutto, pur di affossare il governo greco.
E questo - almeno per ora - non sono riuscite a farlo. Spero che Tsipras resista, che riesca a continuare a guidare quel paese, che possa essere lui a gestire questo accordo, perché un nuovo esecutivo di "larghe intese", un governo tecnico, significherebbe davvero la fine di quel paese. Il referendum è stato il baluardo che ha difeso il governo greco; senza quel voto - di cui dovremo sempre ringraziare le donne e gli uomini della Grecia - la violenza delle forze del capitale sarebbe stata incontenibile, il paese sarebbe stato umiliato, vilipeso, schiacciato, dagli sgherri delle forze del capitale.
Lo scontro di questa notte ha segnato un passaggio di epoca. L'Europa non potrà più essere la stessa, perché questa trattativa ha fatto capire quali sono le forze in campo, ha fatto capire che la cosiddetta sinistra riformista è ormai un docile strumento in mano alle forze del capitale. Però ci ha anche mostrato che un'alternativa è possibile, che una sinistra di governo, non settaria e votata alla pura testimonianza, è possibile, senza abdicare ai propri principi e ai propri valori. Questa sconfitta richiede a tutti noi un rinnovato impegno, a non arrenderci, a non pensare che ogni nostro sforzo sia vano, a non rimanere passivamente ad aspettare che altri vengano a risolvere i nostri problemi, a prendere in mano la bandiera della lotta. E a lottare, per scalfire la forza del nemico, come hanno fatto in questi giorni i greci e come dovremo fare noi nei prossimi anni.
Ευχαριστώ, grazie compagne e compagni greci.
ΑΝΤΙΣΤΑΘΕΙΤΕ για την Ελλαδα για την Ευρωπη, RESISTETE per la Grecia per l'Europa.

sabato 11 luglio 2015

Verba volant (200): conflitto...

Conflitto, sost. m. 

Srebrenica, 11 luglio 1995: è nostro dovere di uomini ricordare, è nostro dovere di europei. Perché europei erano gli 8.000 uomini che furono uccisi in quella strage, europee erano le donne - mogli, madri, figlie - che furono costrette ad abbandonare quella città, con il dolore nel cuore per i mariti, i figli, i fratelli che avevano lasciato là insepolti, europei erano quelli che li ammazzarono, europei erano i soldati che, nonostante fossero là a garantire, se non la pace, almeno la tregua, lasciarono compiere quella tragedia. Alcuni di quegli europei erano cristiani, altri erano musulmani, perché ci sono anche gli europei musulmani - sono pochi forse, ma ci sono, con buona pace dei crociati in servizio permanente effettivo; alcuni erano di origine serba, altri di origine bosniaca, altri ancora, prima di quella guerra, non sapevano esattamente come definirsi, perché in quella terra antica e complicata è da sempre difficile distinguere in maniera netta le genealogie, poi un giorno scoppia la guerra, io rimango da una parte, tu dall'altra e da amici che siamo diventiamo nemici; altri infine erano olandesi, ma potevano essere francesi, inglesi, italiani e la storia non sarebbe stata diversa da come purtroppo è stata.
Quelli della mia età hanno la fortuna di non aver visto la guerra, ce l'hanno raccontata - se abbiamo voluto ascoltare le loro storie - i nostri nonni, i nostri genitori, ma noi non sappiamo proprio come sia fatta quella bestia lì. Poi delle guerre da qualche parte del mondo ce ne sono sempre, qualcosa sappiamo di quei conflitti, a volte perfino ci coinvolgono, almeno da un punto di vista politico. Per quelli della mia età le manifestazioni contro la Guerra del Golfo - quella di Bush il vecchio, il più assennato della famiglia - sono state un'occasione per avvicinarsi alla partecipazione politica. In quel caso sembrava abbastanza semplice schierarsi, perché quella guerra era un errore madornale, oltre che un crimine, e le vicende degli anni successivi - anche al netto dei disastri combinati dal Bush meno assennato - hanno dimostrato purtroppo che avevamo ragione noi. La guerra in Bosnia è stata oggettivamente fin dall'inizio più difficile da capire e credo che uno dei motivi per cui oggi l'Europa sia questa cosa che non ci piace sia anche l'incapacità di allora di affrontare in maniera netta quel tema.
Rispetto a quel conflitto io ebbi l'opportunità - tra il '94 e il '96 - di poter dare una mano al gruppo che a Bologna cercava di aiutare i profughi di quel conflitto. Sono andato alcune volte nel campo profughi d Ribnica, in Slovenia, dove c'erano molte famiglie bosniache e durante l'estate organizzavo il soggiorno qui di alcuni gruppi di bambini. E' stata una delle esperienze più belle della mia attività politica, perché è stata anche l'unica possibilità che ho avuto di capire un po' cosa significa davvero la guerra.
La prima volta che i bambini - allora avevano quattro e cinque anni - sono venuti in Italia mi colpì come si attaccassero a me e agli altri ragazzi volontari, volessero di continuo giocare con noi. La cosa mi stupì, ma poi, quando qualche mese dopo andai per la prima volta al campo, mi resi conto di una cosa che forse doveva essere ovvia: in quel campo gli unici adulti erano donne, e quindi in qualche modo, approssimativo e imperfetto, noi dovevamo essere i loro fratelli maggiori. Quando una notte si svegliarono spaventati - dormivamo nella scuola elementare di Granarolo - perché in un paese vicino c'era uno spettacolo di fuochi artificiali, fu molto difficile rimetterli a letto a farli riaddormentare; allora ho intuito davvero cosa sia la paura.
Conoscendo quelle persone, andando qualche volta in qual campo, ho capito anche che il loro essere musulmani era tutt'altra cosa da quello che ci stavano cominciando a raccontare. Anch'io posso genericamente definirmi cristiano, perché sono cresciuto in questo paese, ho partecipato - per amore o per forza - a delle funzioni religiose, conosco le preghiere, festeggio il natale e così via, ma questo non fa di me un fondamentalista. La stessa cosa valeva per loro: più della religione era importante mantenere una serie di tradizioni, anche molto antiche, a cui erano giustamente legati, ma questo non faceva di loro dei fondamentalisti. Temo che uno degli esiti più pericolosi di quel conflitto sia di aver spazzato via tutto questo e di aver riportato indietro la storia, quando per la religione, da entrambi le parti, era lecito uccidere. E infatti oggi la Bosnia è uno dei luoghi dove l'integralismo islamico recluta con più facilità per la propria guerra contro l'Occidente. Non perdonerò mai a chi ha voluto quella guerra di aver fatto così male a quei bambini, di aver loro insegnato il fanatismo.
Sono passati vent'anni da quella strage. Al di là degli accordi, più o meno fragili, al di là dei processi, più o meno efficaci, non sono stati vent'anni di pace e credo che il mondo che vedono ora da adulti quelli che allora erano bambini non sia migliore. E questa è una nostra sconfitta.

da "Il ponte sulla Drina" di Ivo Andrić


Il mio defunto padre sentì una volta da šeh-Dedija e raccontò poi a me quand'ero bambino, da che cosa deriva il ponte e come venne eretto il primo ponte del mondo. Quando Allah il potente ebbe creato questo mondo, la terra era piana e liscia come una bellissima padella di smalto. Ciò dispiaceva al demonio, che invidiava all'uomo quel dono di Dio. E mentre essa era ancora quale era uscita dalle mani divine, umida e molle come una scodella non cotta, egli si avvicinò di soppiatto e con le unghie graffiò il volto della terra di Dio quanto più profondamente poté. Così, come narra la storia, nacquero profondi fiumi e abissi che separano una regione dall'altra e dividono gli abitanti di una dalle altre e disturbano coloro che viaggiano per la terra che Dio ha dato loro come giardino per il loro cibo ed il loro sostentamento. Si dispiacque Allah quando vide che cosa aveva fatto quel maledetto; ma poiché non poteva tornare all'opera che il demonio con le sue mani aveva contaminato, inviò i suoi angeli affinché aiutassero e confortassero gli uomini. Quando gli angeli si accorsero che gli sventurati uomini non potevano superare i burroni e gli abissi per svolgere le loro attività, e si tormentavano, si guardavano e si chiamavano invano vicendevolmente da una sponda all'altra, al di sopra di quei punti spiegarono le loro ali e la gente cominciò a passare su di esse. Per questo, dopo la fontana, la più grande buona azione è costruire un ponte, così come il peggiore peccato consiste nel metterci addosso le mani, dato che ogni ponte, dalla trave gettata su un torrente montano fino a questa costruzione di Mehmed Pascià, ha il suo angelo che lo guarda e lo sostiene, finché gli è destinato da Dio di sussistere.

mercoledì 8 luglio 2015

Considerazioni libere (403): a proposito di una vittoria difficile...

Abbiamo vinto, in maniera netta e inequivocabile; e non ci succedeva da tempo. Abbiamo festeggiato, forse con un po' troppa enfasi, ma - dovete scusarci - non ci siamo abituati. Adesso però è il momento di riflettere su cosa ha significato il successo del no nel referendum greco dello scorso 5 luglio, un risultato per molti aspetti storico. E le ragioni per essere preoccupati, nonostante tutto, sono molte.
In questa considerazione non voglio soffermarmi sugli aspetti più propriamente economici della crisi. Il governo greco in questi giorni è impegnato in una trattativa difficile. Le forze del capitale non si sono certo arrese e vorranno punire la Grecia per lo sgarro subito, ma credo che, alla fine e nonostante tutto, un accordo lo troveranno. Si preparano comunque giorni difficili per quel popolo, la loro lotta sarà dura e devono sentire tutta la nostra solidarietà. Non basta aver fatto il tifo la scorsa settimana, non basta aver gioito la notte del 5 luglio, dobbiamo continuare a seguire quello che avviene in Grecia, possibilmente sfuggendo alla controinformazione dei giornali e delle televisione di regime che ci raccontano una realtà distorta. E soprattutto dovremmo provare a fare come la Grecia; che è la cosa più difficile, specialmente qui in Italia. 
E qui vengo al punto che mi interessa di più, ossia alle prospettive della sinistra a seguito di questo voto. E' vero che abbiamo vinto, che siamo riusciti a far passare, per la prima volta, un'opzione politica diversa rispetto all'imperante ideologia ultraliberista, che però è tutt'altro che sconfitta, anzi ha dimostrato, ancora una volta, una pervasività inquietante.
Un elemento che mi preoccupa - molto - è la sostanziale e totale adesione della maggior parte degli esponenti del Pse all'ideologia ultraliberista. In questa vicenda Jean-Claude Juncker e Martin Schulz, pur essendo i rappresentanti di due famiglie politiche formalmente contrapposte, hanno detto e fatto le stesse medesime cose. Anzi Schulz è quello dei due che ha usato i toni più minacciosi, che ha rinunciato da subito alle blandizie diplomatiche, dichiarando esplicitamente che il loro obiettivo era la caduta del governo Tsipras e la creazione di un esecutivo più malleabile, sostanzialmente prono ai voleri della Troika. In questa settimana era impossibile capire chi fosse del Ppe e chi del Pse. Rajoy e renzi sono intervenuti con la stessa virulenza contro il fronte del no, il primo comprensibilmente preoccupato per la crescita di Podemos - che certamente sarà galvanizzato da questo risultato - il secondo, che - purtroppo per noi - non ha questo pensiero, per puro servilismo; eppure Rajoy e renzi sono uno del Ppe e uno del Pse, ma sono ormai indistinguibili per scelte politiche e azione di governo.
Di fatto questo referendum ha segnato il suicidio politico dei socialisti europei, la loro resa di fronte alle forze del capitale. E anche chi - come me - in questi anni è sempre stato critico verso quel movimento e lo ha ritenuto inadeguato, non può essere contento di questa fine ingloriosa.
Pensate a quello che è successo in questi giorni: la piccola Grecia, che rappresenta il 2% del pil di tutta l'Unione europea, è riuscita a bloccare le forze del capitale, perché queste, per tracotanza, hanno costruito un sistema monetario che non prevede l'uscita dall'euro di uno dei paesi aderenti. L'uscita della Grecia dall'area euro e il conseguente ritorno alla dracma è stato il bluff usato in questi mesi dalle forze del capitale, che pure sapevano che questa opzione avrebbe causato più danni a loro che alla Grecia. La forza di Syriza è stata quella di denunciare questo bluff, di dire, come il bambino della fiaba, che il re è nudo. Pensate se questa presa di posizione fosse stata presa, mesi fa, dai paesi governati da esponenti del Pse - dalla Francia, dall'Italia, dalla Danimarca - non sarebbe servito il referendum greco, non sarebbe servito il sacrificio di quel popolo che, per difendere l'Unione, anche per noi, ha messo in pericolo i propri risparmi. Invece il Pse ha scelto il rigore, le privatizzazioni, la legislazione che limita i diritti dei lavoratori, l'aumento della tassazione indiretta e la diminuzione di quella diretta, in buona sostanza ha scelto di abbandonare a se stessi i poveri, i lavoratori, per difendere i ricchi, i privilegiati, ha deciso di allearsi con le forze del capitale, giustificando questa scelta nel nome della modernità.
Come ho scritto molte volte, di questa deriva portiamo la responsabilità tutti noi che abbiamo fatto politica in questi anni nel campo della cosiddetta sinistra riformista e fino a quando non rifletteremo, senza infingimenti, su questo nostro passato recente, che tiene avviluppato ancora tanti, non faremo passi in avanti. Il Pse è il morto che rischia di far annegare il vivo.
Poi c'è un'altra considerazione che riguarda proprio i cittadini greci. A quello che sappiamo la stragrande maggioranza dei giovani di quel paese ha votato no. Credo sia comprensibile, visto che proprio loro sono quelli che hanno subito più duramente gli effetti di questa crisi, che o non trovano lavoro - la disoccupazione giovanile supera il 60% - o, se lo trovano, è sottopagato e precario. Mi piacerebbe sperare che sia cresciuta tra quei giovani una forte consapevolezza di sinistra, ma temo non sia così. Soprattutto in questa generazione è penetrata a fondo l'ideologia ultraliberista, anche perché noi abbiamo offerto loro un pessimo esempio, in questi anni non abbiamo mai davvero rappresentato un modello alternativo per questi ragazzi. 
I ragazzi greci sono così diversi dai loro coetanei italiani? Non credo. Tra i nostri giovani prevale la sfiducia nella politica, la difficoltà a riconoscere i valori della condivisione pubblica, l'idea che perseguire egoisticamente il proprio benessere sia un valore positivo. E' l'ideologia ultraliberista che ha ormai inculcato nei nostri ragazzi l'idea che ognun per sé, Dio per tutti. Questo egoismo, che si trova nei giovani, ma prevale nettamente anche tra i vecchi - basta osservare i comportamenti collettivi di gran parte dei nostri contemporanei - è la destra "interiorizzata", il capitalismo che ormai ha infettato i cervelli e inaridito i cuori, che si è diffuso come un cancro. Così ad esempio la difficoltà di condurre battaglie comuni, e il parallelo tentativo di trattare ognuno il proprio particulare, è uno dei motivi che indebolisce il movimento sindacale. Spero di sbagliarmi, ma credo che il voto dei giovani greci sia la reazione rabbiosa di una generazione con le pezze al culo, e non il prodromo di una rinnovata spinta di sinistra, del diffondersi dell'idea di partecipazione solidale.
Oggi fortunatamente in Grecia Syriza è riuscita a intercettare queste pulsioni, ma in altri paesi, dove la crisi non ha toccato così ferocemente la carne viva della persone, non è la sinistra a svolgere questo ruolo, ma la destra fascista, quella che vive e si rafforza esacerbando il conflitto tra gli ultimi e i penultimi, oppure la destra qualunquista, quella che dice che tutto va male, perché sono tutti uguali. E sempre nella storia, questi movimenti hanno fiancheggiato le forze del capitale, le hanno aiutate, sono state le loro naturali alleate.
Era importante vincere e Tsipras e i compagni di Syriza hanno fatto bene a usare tutti i mezzi per sconfiggere le forze del capitale, ma quanto di quel voto è frutto di un taglio decisamente nazionalista che il governo ha dato a questa consultazione, sfruttando anche il naturale risentimento antitedesco? Probabilmente molti hanno deciso di votare no spinti più dal desiderio di vendicarsi della Germania o dall'orgoglio greco che dall'adesione a un progetto politico così radicalmente di sinistra. Così come per noi è imbarazzante la compagnia delle persone con cui ci siamo ritrovati a festeggiare per l'esito del referendum: il nostro no non è quello della Lega, della Meloni, di Brunetta o di Grillo. In Italia abbiamo rischiato di rappresentare il no quasi solo come un'opzione della destra, della destra peggiore.
Francamente ho visto un po' troppo entusiasmo intorno al risultato del voto greco. L'euforia è giustificata, perché adesso sappiamo che le forze del capitale non sono imbattibili, perché le vediamo costrette a trattare con gli "impresentabili", con quelli senza cravatta, perché probabilmente adesso dovranno accettare di rinegoziare il debito; e tutto questo sarà un'iniezione di fiducia per i compagni di Podemos, per i compagni del Sinn Fein, per i tentativi che si stanno compiendo in Europa di costruire una sinistra nuova. Tra l'altro, morto il Pse, ossia il rappresentante della cosiddetta sinistra riformista, anche il senso della dicotomia tra sinistra riformista e sinistra radicale cade. Dal momento che la sinistra riformista non esiste più - o è una caricatura, come in Italia - la sinistra radicale deve anch'essa ridefinirsi, perché non basta più dire di essere a sinistra del Pse. A sinistra di niente non c'è posto per niente.
Mi pare che in Italia in particolare ci sia la tentazione di riunire tutta la sinistra, senza aggettivi, che si dia un'eccessiva enfasi alla necessità di stare tutti insieme. Capisco che sia importante, vista anche la nostra naturale tendenza a scinderci. Ma se è vero quello che ho detto prima, credo invece che qualche aggettivo occorra usarlo, altrimenti rischiamo che l'entusiasmo che si è creato intorno al pur importantissimo risultato del referendum greco venga vanificato nel lungo periodo. Come sapete io sono particolarmente affezionato all'aggettivo socialista, perché credo che questa parola possa esprimere ancora molta della sua potenzialità, possa spiegare il conflitto che c'è nel mondo - e lo abbiamo visto agire in questi giorni - tra le forze del capitale e quelle del lavoro. Una volta la chiamavano lotta di classe, altro termine che io voglio ricominciare a usare, perché spiega che si sta da una parte o dall'altra e che queste due parti sono destinate a scontrarsi. E infatti essere socialisti significa lottare per un'uguaglianza sostanziale, che è in antitesi alla concezione prettamente individualistica oggi così in auge; essere socialisti significa credere che esistano dei beni comuni da sottrarre al mercato, che la ricchezza debba essere redistribuita, che la piena occupazione e la dignità del lavoro possano porre dei limiti all'iniziativa privata, che il welfare debba essere universalistico.
Ad esempio credo sia significativo il fatto che una delle richieste della Troika su cui si è arenata la trattativa, sia stata quella di impedire al governo Tsipras di reintrodurre la contrattazione collettiva nazionale, abolita dai precedenti governi di destra. Dal momento che questa misura non ha incidenza sul debito che la Grecia è stata costretta ad accumulare, è chiaro che l'Unione europea ha condotto tutti i negoziati in questi mesi - e li sta conducendo oggi - con uno spirito violentemente ideologico, con l'obiettivo di cancellare i diritti conquistati dai lavoratori nei decenni successivi alla fine della seconda guerra mondiale. E, guardando all'Italia, è altrettanto chiaro che il tanto decantato riformismo renziano, che ha prodotto - tra le altre castronerie - il jobs act, non è altro che la mera esecuzione di ordini che vengono dalle forze del capitale; anche per questo il risultato del referendum è stato così importante.
E' stato necessario, ma non sufficiente. E' stato necessario votare no, per fermare l'attacco del capitale, per guadagnare un po' di tempo, per prendere coraggio, ma non è sufficiente per costruire una vera alternativa socialista, che prospetti un sistema radicalmente diverso dei rapporti economici e sociali. Mi pare che i compagni greci ci stiano provando. Noi purtroppo no.