lunedì 19 ottobre 2015

Verba volant (80): treno...

Treno, sost. m.

Nella lingua italiana questa parola ha due significati molto diversi: quasi si può parlare di due parole differenti dal momento che hanno un'etimologia e una storia completamente diverse.
Treno, come calco del greco antico threnos, significa canto funebre. Celebri sono i treni di Simonide - suo quello per i caduti alle Termopili - e quelli di Pindaro. Per estensione sono dette treni anche le Lamentazioni dell'omonimo libro della Bibbia, attribuito al profeta Geremia.
Nel suo secondo - e più consueto - significato questa parola deriva dal francese train, ossia traino, un derivato del verbo traîner che, per etimologia e valore semantico, corrisponde all'italiano trascinare. Il significato di "convoglio ferroviario" si è formato dapprima nella lingua inglese - peraltro il treno lo hanno inventato loro - dove, come in italiano, train è un prestito dal francese.
In queste settimane ci è capitato spesso di parlare di treni, nella seconda accezione del termine, dal momento che l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato ha minacciato addirittura di andare in volontario esilio all’annuncio che il governo avrebbe di poco ridotto il suo faraonico stipendio. Si è trattato della solita tempesta in un bicchier d’acqua, dal momento che il ventilato taglio non c’è stato, lasciando quindi Mauro Moretti nel posto che occupa immeritatamente da cinque governi fa.
E’ notizia degli ultimi giorni che da quest’anno Moretti, invece di tagliare il proprio stipendio, ha deciso di eliminare gli intercity, così che le Ferrovie dello Stato gestiscano di fatto soltanto l’alta velocità, avendo ormai da tempo abbandonato a se stesso il trasporto locale e gli sventurati pendolari costretti ad utilizzarlo. Anzi in questo caso è possibile vedere una singolare sintesi tra i due significati della parola treno, viste le continue lamentazioni, veri e propri canti funebri, che è possibile ascoltare in qualunque stazione italiana, alla partenza e all’arrivo - quando partono e quando arrivano, cosa non sempre scontata - dei sempre più malmessi convogli del trasporto passeggeri di fascia bassa.
Ho deciso di affrontare questa definizione non per parlar male di Moretti, ma perché tra pochi giorni festeggeremo gli ottant’anni della Direttissima Bologna-Firenze: infatti il 22 aprile 1934 fu finalmente inaugurata questa fondamentale linea ferroviaria, i cui lavori - peraltro difficili a causa delle condizioni di lavoro e del terreno - erano iniziati nel 1913 e furono resi molto più complicati dalla Grande Guerra. Quella linea nasceva subito “moderna”, a doppio binario con trazione elettrica, curve ampie e ben raccordate. Rispetto alla Porrettana il percorso si era accorciato da 131 a 97 chilometri; il tempo di percorrenza tra Bologna e Firenze, che dalle cinque ore del 1864 si era ridotto a tre ore nel primo dopoguerra e nel 1927 con l’elettrificazione della Porrettana a due ore e mezza, con la nuova Direttissima si dimezzava di colpo a un’ora e un quarto. Furono almeno un centinaio i caduti della Direttissima, gli operai morti durante la realizzazione dell’opera, in particolare della grande galleria dell’Appennino - 18,507 chilometri, allora la seconda più lunga del mondo, dopo quella del Sempione - senza contare quelli che si ammalarono di silicosi.
Immagino sia stata anche l’influenza dei film western, del mito americano della frontiera, ma per noi emiliani sono stati i più domestici racconti sulla Direttissima a farci considerare da sempre l’espandersi delle ferrovie come un elemento di progresso, come un evento positivo della storia degli uomini.
Non sono uno storico dell’argomento, ma immagino che allora non sia mai sorto qualcosa di lontanamente paragonabile a un movimento no-Direttissima. Magari ci fu qualcuno che avrebbe preferito un diverso tracciato o l’utilizzo di altre soluzioni tecniche, penso che qualche notabile di Porretta si sia arrabbiato per quella scelta, ma nessuno pensava che quella ferrovia non dovesse essere realizzata. Anzi quella ferrovia ha rappresentato un elemento di orgoglio nazionale, e in questo modo fu utilizzata dal regime fascista; non per altro il Duce si vantava di far arrivare i treni sempre in orario. La costruzione di quella linea - che adesso chiameremmo una “grande opera” - ha rappresentato una grande occasione di sviluppo per quel territorio e un’opportunità di lavoro, in Italia, per tantissime persone. La Direttissima in sostanza ha unito l’Italia non solo in senso geografico, avvicinando la pianura padana al resto della penisola, ma ha rappresentato davvero un elemento unificante del paese, come è avvenuto nel secondo dopoguerra con l’Autostrada del sole. In qualche modo eravamo ancora nel tempo delle magnifiche sorti e progressive, nonostante solo cinque anni dopo l’Europa sarebbe stata sprofondata nell’incubo della seconda guerra mondiale. La scienza e la tecnica erano però un elemento di progresso, nonostante tutto.
In fondo ottant’anni non sono molti, eppure il nostro modo di affrontare questi temiè completamente cambiato. Prendiamo la vicenda dell’alta velocità tra Torino e Lione.
In merito alla linea Tav, da cittadino, sarei disposto a subire dei sacrifici - e un così pesante intervento sul territorio adesso lo consideriamo un sacrificio, a differenza di quello che avremmo pensato ottant’anni fa - se ciò significasse un vantaggio per la collettività. Il problema è che in questa vicenda sono ben chiari i sacrifici, ma sono molto più aleatori e vaghi i vantaggi.
Ritengo che, in queste condizioni, la Tav sia un errore e provo a spiegare perché.
Mi pare che in questa vicenda siano state finora prevalenti due opposte visioni ideologiche, quelli che considerano la Tav come un indispensabile elemento di progresso, una necessità strategica per l’Italia e per l’Europa e quelli che la considerano un danno, a prescindere. Fino a quando la discussione rimarrà su questo piano è evidente che nessuno riuscirà a convincere nessuno. La Tav forse non si realizzerà, o forse, più probabilmente, si realizzerà male, all’italiana - un po’ di Tav, per non scontentare nessuno e quindi scontentando tutti - perché gli appetiti sono tanti, più o meno leciti, ma certamente non si riuscirà nemmeno a ragionare sul futuro dei trasporti e della logistica in questo Paese - e questo è un grave problema per tutti, indipendentemente dalla Tav.
In Italia viaggiare e far viaggiare le merci è un’impresa forse paragonabile a quella dei pioneri del selvaggio West: si sa quando si parte, ma non quando si arriverà. In Italia viaggiare è quasi sempre sinonimo di utilizzare l’automobile, far viaggiare le merci significa quasi sempre caricarle su camion. La rete del trasporto ferroviario, al netto della linea ad alta velocità tra Roma e Milano, è nettamente al di sotto degli standard degli altri paesi europei.
In queste condizioni tra le priorità dell’Italia non c’è la linea Torino-Lione. Prima occorre rendere più snello il traffico locale, migliorando le reti di trasporto pubblico;decongestionare il traffico di lungo raggio, potenziando la rete ferroviaria, tutta la rete ferroviaria, da nord a sud; ridurre il traffico dei tir, con una politica di disincentivi, attraverso l’imposizione di pedaggi molto più costosi. Come è evidente si tratta di uno sforzo economico incredibile - molto più gravoso di quello necessario per realizzare la Torino-Lione - che richiederebbe miliardi di investimenti diffusi sul territorio. Tra l’altro è lecito chiedersi che visione dell’Italia c’è dietro un’opera che potenzia il traffico di persone e merci tra ovest ed est dell’Italia settentrionale, mentre i collegamenti tra il nord e il sud dell’Italia, quelli sì veramente strategici alla luce dello sviluppo mediterraneo, sono al livello che conosciamo, basti pensare alla Salerno-Reggio Calabria o alle ferrovie siciliane.
La linea Torino-Lione riuscirà a diminuire in maniera sensibile il traffico di automobili su quella tratta? Probabilmente no, anche perché non è particolarmente significativo dal punto di vista numerico, come ad esempio quello dell’asse nord-sud. L’alta velocità sposterà considerevolmente il traffico merci dalla gomma al ferro? No. Per raggiungere questo scopo non serve l’alta velocità, facendo guadagnare un’ora o due di tempo, basterebbe penalizzare la circolazione dei tir sulla strada e rendere più conveniente e soprattutto certa in termini di orari quella su ferro, mentre in Italia avviene esattamente il contrario. Il problema è che Svizzera e Austria sono impegnate a potenziare la propria rete di trasporto su ferro, mentre in Italia preferiamo “impiccarci” a un progetto che interessa un angolo del paese dove viaggia solo una piccola parte delle merci.
Inoltre preoccupa il fatto che su quanto costerà effettivamente la Torino-Lione ci siano forti divergenze. I comitati della Val di Susa stimano che quest’opera costerà almeno 23 miliardi di euro, a cui si devono aggiungere altre spese difficili da prevedere, ad esempio per la gestione della sicurezza presso i cantieri (per Chiomonte si è arrivati a spendere 90mila euro al giorno). Gli stessi comitati denunciano anche una sproporzione nell’accordo con la Francia per la ripartizione dei costi: l’opera sarà per un terzo sul suolo italiano, ma il nostro paese sosterrà il 57,9% delle spese. Infine ci sono dei dubbi sull’effettiva misura del contributo europeo. Chi sostiene la necessità di realizzare la Tav, dice invece che costerà 2,8 miliardi di euro, e che questa spesa, dilazionata in dieci anni, è sostenibile; dicono inoltre che il contributo europeo è certo e che potranno esserci anche investimenti privati, sul modello di esperienze simili fatte in Europa. La differenza tra i due dati è troppo grande, anche perché, in buona sostanza, il tracciato non è ancora stato stabilito definitivamente e di conseguenza è difficile credere che i costi possano essere individuati in maniera univoca.
Chi sostiene che la Tav, a questo punto, debba essere completata gioca con le parole; i lavori non sono mai cominciati veramente né sul versante italiano né su quello francese. E’ stato impiantato un cantiere dove saranno raccolti i detriti dei primi scavi conoscitivi che serviranno a ottenere informazioni sul tipo di rocce, in modo da stabilire il tracciato definitivo della linea. Forse siamo ancora in tempo a fermarci, magari decidendo di spendere quei soldi in maniera diversa.
E allora?
E allora / io quasi quasi prendo il treno / e vengo, vengo da te, / ma il treno dei desideri / nei miei pensieri all’incontrario va.

articolo pubblicato la prima volta il 6 aprile 2014 

sabato 17 ottobre 2015

Verba volant (217): goal...

Goal, sost. m.

Lo so che goal è una parola inglese e che dovrei usare rete, però il football, come disse una volta il presidente Pertini raccontando la propria emozione per il penalty sbagliato da Cabrini nella finale dell'82, deve essere raccontato in inglese.
Qualche giorno fa, in un paese vicino a Bologna, si è svolta una partita di calcio del campionato provinciale giovanissimi, che è finita 31 a 0. Anche chi non si intende di sport sa che è un risultato praticamente impossibile, che indica un'incredibile disparità tra le due squadre in campo.
Poco prima della fine dell'incontro l'arbitro, poco più che ventenne, ha consultato gli allenatori e ha deciso, d'accordo con loro, di interrompere la partita, il cui esito era chiaramente segnato. Qualche giorno dopo l'arbitro è stato sospeso perché non ha rispettato il regolamento, che non prevede la fine della partita per manifesta superiorità di una delle due squadre. Qualcuno ha già sottolineato che il vero errore dell'arbitro non sia stato tanto sospendere la partita quanto scrivere questa sua decisione nel referto arbitrale; se non avesse scritto nulla, l'Aia non lo avrebbe mai saputo, perché nessuna delle squadre avrebbe protestato e oggi potrebbe arbitrare ancora, dimostrando quel buon senso che evidentemente non hanno usato i suoi superiori di Bologna. Comunque sia una piccola lezione di vita si evince anche da questo episodio: l'ipocrisia nel calcio - come nella vita - paga sempre più dell'onestà.
Se mio figlio avesse giocato quella partita e avesse segnato il trentunesimo gol - ma anche il ventunesimo o l'undicesimo - lo avrei punito. E lo avrei tolto da quella squadra, perché evidentemente gli allenatori e i dirigenti di quella società non sono stati capaci di svolgere il loro ruolo educativo. Lo sport è uno strumento formativo importante, per alcuni ragazzi più importante anche della scuola, perché trasmette valori e può contribuire alla crescita di una persona. Infierire su un avversario in difficoltà non è un valore, pensare che sia fondamentale vincere, a qualsiasi costo e a qualsiasi prezzo, non è un valore, preferire la propria personale soddisfazione alla giustizia e al rispetto verso gli altri non è un valore. Evidentemente nessuno ha insegnato questi valori a quei ragazzini, che si sono trovati davanti una squadra così platealmente più debole, o, se qualcuno lo ha fatto, non è stato particolarmente efficace. E purtroppo, leggendo un qualsiasi giornale, vedendo quello che succede ogni giorno nel nostro paese, ci accorgiamo che noi stiamo insegnando ai nostri figli proprio questo, a pensare a se stessi prima che agli altri, a essere servili con chi è più forte di loro e arroganti con chi è più debole e spieghiamo loro che vincere è la cosa più importante di tutte, e che quindi si possono anche violare le regole, pur di farlo.
Continuare a fare goal, farne trentuno mentre gli altri ragazzini annaspavano, magari gioire per quelle reti così chiaramente immeritate, è stata una cosa decisamente stupida. Sono stato un ragazzino stupido anch'io e so che a quell'età si fanno cose stupide, ma ricordo anche che ci sono quasi sempre stati degli adulti che mi hanno fermato e mi hanno punito. Mi rendo conto che non è facile giudicare non avendo visto le cose, non avendo partecipato a quei fatti, ma penso che i dirigenti della squadra che ha vinto avrebbero dovuto chiedere loro di fermare la partita, avrebbero dovuto ritirare la squadra, anche se questo avrebbe comportato dare la vittoria a tavolino agli altri, anzi proprio perché questo avrebbe fatto vincere quelli che sul campo non avrebbero mai vinto. E forse, se ben spiegata, quella sconfitta sarebbe stata più utile di quella vittoria che sarà ricordata solo come una storia da bar.

giovedì 15 ottobre 2015

Verba volant (216): vaccino...

Vaccino, sost. m.

Non ho figli - e non ne avrò - e quindi tratto questo tema con qualche pudore. Sono già troppi quelli che non hanno figli e che vogliono spiegare a chi li ha in che modo devono fare i genitori; come dice l'antico adagio, chi sa fa e chi non sa insegna. Credo che essere padre - e tanto più essere madre - sia una cosa terribilmente complicata; tanto più in questi tempi così difficili. Non vi invidio, anzi ammiro il vostro coraggio, al limite della temerarietà, per aver fatto la scelta di diventare genitori.
Da non-padre mi ha colpito molto la discussione che in questi giorni si sta facendo sulla vaccinazione dei bambini. Ho letto che cresce il numero di famiglie che decidono consapevolmente di non vaccinare i propri figli e che di conseguenza c'è una reazione delle autorità sanitarie e soprattutto della maggioranza delle famiglie che sono preoccupate che queste mancate vaccinazioni possano causare malattie che si pensavano debellate. Ho letto, come credo abbiate fatto anche voi, che a Bologna è morta una bambina per la pertosse, una malattia che i nostri genitori chiamavano "tosse cattiva"; e la cosa ha generato un comprensibile allarme sociale.
Credo che i miei genitori non si siano neppure posti il tema se vaccinarmi o meno. Per quelli della loro generazione il vaccino non era solo un obbligo sanitario, ma in qualche modo una conquista sociale, il segno che il mondo stava cambiando, in meglio. La possibilità che tutti i bambini venissero vaccinati rappresentava una conquista, perché questo avrebbe significato debellare una serie di malattie, per cui molti, troppi, bambini loro coetanei erano morti. C'era probabilmente un'ingenuità eccessiva in questo affidarsi alla magnifiche sorti e progressive della scienza, così come era a volte mal riposta la fiducia che avevano comunque per il medico, che era uno che aveva studiato e quindi aveva più ragione più di loro, che invece non avevano studiato. E infatti uno dei loro principali obiettivi era che noi studiassimo, che diventassimo anche noi dottori.
E in qualche modo lo siamo diventati. Siamo diventati più attenti, più critici, più disincantati. Abbiamo imparato a fidarci meno dei dottori e ancor meno delle autorità sanitarie. Spesso con ragione. Io, lo sapete, ho questo vizio antico di essere socialista e anticapitalista e quindi penso tutto il male possibile delle grandi multinazionali del farmaco; credo che, al là della retorica, la loro mission non sia affatto quella di curare le persone, ma solo quella di ingrassare gli azionisti. Per questo mi batto affinché la sanità non sia privatizzata, soprattutto la ricerca non sia privatizzata, perché le industrie farmaceutiche lavorano soltanto per il loro profitto, mentre la ricerca scientifica deve essere libera. Troppe volte non lo è, troppe volte i laboratori universitari indirizzano le loro ricerche solo verso determinati settori, perché ricevono finanziamenti privati, indispensabili per sopravvivere, dal momento che lo stato le sostiene sempre meno, troppe volte le riviste scientifiche mentono perché i loro editori sono gli stessi che controllano le industrie farmaceutiche, troppe volte i medici non sono credibili, perché ricevono tangenti per dire quello che le industrie vogliono che loro dicano. Se tutto questo è vero - e purtroppo lo è - perché allora dovremmo far vaccinare i nostri figli?
Io credo che farei vaccinare i miei figli, perché la possibilità che tutti i bambini lo siano è ancora una conquista sociale. Sconfiggere le malattie, così come il curare tutte le persone allo stesso modo, è un obiettivo socialista e quindi è un mio obiettivo. E' più di un anno che in Africa nessun bambino muore a causa della poliomielite e per me questa è una buona notizia. Poi in Africa i bambini continuano a morire, a causa di altre malattie, ma soprattutto a causa nostra, perché finanziamo le guerre in quel paese, perché per mantenere il nostro stile di vita sfruttiamo le loro risorse, perché consideriamo quel popolo una merce. Però i bambini dell'Africa - e di tutto il mondo - non muoiono più di polio. Il vaccino si chiama così perché questa parola indicava sia il vaiolo che colpiva i bovini - il vaiolo vaccino appunto - sia il pus ricavato dalle pustole del vaiolo bovino, usato per l'immunizzazione attiva contro il vaiolo umano. Il vaiolo non esiste più da almeno trentacinque anni, è rimasta solo questa parola, con la sua storia etimologica, a ricordarlo. E questa è una vittoria del progresso.
Sono ingenuo anch'io come i miei genitori? Forse sì, ma sicuramente anch'io vaccinerei i miei figli, accettando il rischio che un vaccino comporta - che ogni vaccino comporta - perché il costo sociale di non vaccinarsi credo sia ancora più grave e coinvolga tutti, non solo la mia famiglia, non solo i miei figli. Però dobbiamo fare in modo che la ricerca vada avanti, che sia pubblica, libera e indipendente, dobbiamo togliere potere alle industrie e alle multinazionali del farmaco, dobbiamo punire i medici che si fanno comprare e che in questo modo tradiscono la loro missione. Dobbiamo lottare affinché le bambine e i bambini salvati dalle malattie non vengano uccisi dai conflitti o nel tentativo disperato di attraversare il Mediterraneo. Dobbiamo cambiare il mondo, una cosa che abbiamo visto essere piuttosto difficile, ma da questa malattia non riusciamo proprio a guarire.

mercoledì 14 ottobre 2015

"Biglietto di viaggio" di Samih al-Qasim


Quando sarò ucciso, uno di questi giorni
l'assassino troverà nella mia tasca i biglietti di viaggio
uno verso la pace
uno per i campi di pioggia
uno
verso la conoscenza dell'umanità

(ti prego di non sprecare i biglietti mio caro assassino
ti prego di partire…)

sabato 10 ottobre 2015

Considerazioni libere: (405): a proposito di un omicidio politico...

Temo ricorderemo a lungo, e con sgomento, quello che è avvenuto in questi giorni nel nostro paese. Se non sapremo reagire - e sinceramente non vedo alcun segno di reazione, capace di mobilitare una nuova resistenza - probabilmente diremo ai nostri figli e ai nostri nipoti che abbiamo assistito al momento in cui il regime si è reso palese, manifesto, al momento in cui il regime ha gettato la maschera, non nascondendo più la propria capacità di violenza.
Saranno tante le meschinità di cui dovremo ricordarci. Io segnalo, ora per allora, l'articolo che Lorenzo D'Albergo - dobbiamo cominciare a fare i nomi dei congiurati e dei loro servi, a futura memoria - ha scritto per Repubblica il 7 ottobre scorso; lo cito non solo perché è un articolo fazioso - ce ne sono stati tantissimi su quel giornale, contro o a favore di molte persone, non sarebbe neppure questo il problema - ma perché volgarmente fazioso, orgogliosamente di propaganda. A D'Albergo hanno detto "parla male di Marino" e D'Albergo esegue, con furia cieca, sfidando il ridicolo, mettendo in fila banalità, mezze verità, discorsi da bar, senza fare alcun riscontro, ma evidentemente né a lui né a chi gli ha ordinato di scrivere quell'articolo importa. Anzi, nel suo pressapochismo, nella sua ostentata volgarità, questo articolo è stato per me il segno che Marino aveva perso: se erano disposti a tanto, significava che ormai il sindaco era condannato. Ce ne sono stati tanti di articoli così, sul Corriere, in Rai, nelle televisioni commerciali e tutti con lo stesso bersaglio, tutti con lo stesso mandante. In questi giorni gli organi di informazione, tutti gli organi di informazione, hanno contribuito a far dimettere Ignazio Marino, tutti hanno partecipato a questo attacco squadrista. Non si sono sottratti neppure autorevoli prelati che, fingendo di non sapere di essere registrati, in una finta trasmissione di intrattenimento, che molte volte si è già prestata a queste operazioni di killeraggio politico, hanno sfogato la loro rabbia contro il bersaglio che doveva essere politicamente ucciso.
Le dimissioni di Marino non sono un episodio di lotta politica, certo meschina, ma in qualche modo riconducibile a precisi e circoscritti obiettivi politici e affaristici. Certo sono state anche questo, ma soprattutto sono state la prova generale del regime: una prova perfettamente riuscita. Da adesso, se non ci sarà una reazione - e temo che non ci sarà - tutto sarà possibile, come, dopo il delitto Matteotti, tutto è stato possibile.
Non so se il mandate di questo omicidio sieda, ora come allora, a Palazzo Chigi. Certo il presidente-segretario è il vincitore di questo scontro, ma sinceramente fatico a immaginarlo così potente. Certo è smodatamente ambizioso, certo è pronto a mentire e a tradire pur di continuare a governare, certo è un esecutore instancabile e tenace, e molto meno stupido di quanto voglia farci credere con il suo improbabile inglese, ma credo che anche lui sia una pedina di altri, che muovono davvero i fili di questa triste vicenda. Gli stessi che stanno riscrivendo la Costituzione in senso autoritario, togliendo ruolo alle assemblee legislative e agli enti locali, gli stessi che hanno abolito una parte importante dello Statuto dei lavoratori, gli stessi che sono pronti a diventare ancora più ricchi con le privatizzazioni dei servizi e dei beni pubblici.
Sicuramente Ignazio Marino è stato la vittima, ma - vi prego - non facciamone un eroe. Marino si è trovato soltanto dalla parte sbagliata della rivoltella. Il dottore è uno che ha provato a giocare e che ha perso, perché aveva carte peggiori o perché era meno bravo a barare, quindi non facciamone un santo o, peggio ancora, una bandiera della sinistra. Sarebbe deleterio, perché proprio la storia politica di Marino è emblematica della crisi democratica di questo paese. Non è che io ce l'abbia particolarmente con lui, solo mi ricordo, mi ricordo tutto. Marino è uno che è entrato in politica per fare il ministro, il segretario del pd o il sindaco di Roma, niente di meno. Solo in una fase di crisi così acuta della politica uno come Marino, venuto dal nulla, poteva sperare di arrivare così in alto, senza dimostrare in fondo nessuna qualità. Per fare il medico occorre aver studiato a lungo, per diventare un bravo chirurgo bisogna lavorare anni, in Italia invece crediamo che per fare politica non occorra studiare, anzi pensiamo che chi ha fatto politica sia il meno adatto per governare. E quindi siamo disposti a votare chi non ha mai fatto politica; perfino uno come Marino.
Stendiamo poi un velo sui mariniani, ossia su quei dirigenti locali del pd che hanno sostenuto Marino quando si candidò a segretario, nella consapevolezza che la sua sconfitta avrebbe comunque assicurato a qualcuno di loro un qualche posto di sottogoverno, in nome di un pluralismo spartitorio che funzionava ancora in quel partito, prima che renzi prendesse tutto. E così i mariniani - non costringetemi a fare i nomi, spulciate un po' e li troverete da soli - sono diventati consiglieri comunali, regionali, deputati; se hanno ancora le loro cariche immagino siano diventati renziani.
Gli apologeti di Marino dicono che è onesto. Se anche lo fosse - e personalmente non lo metto assolutamente in dubbio - cosa significherebbe? Dobbiamo scegliere qualcuno solo perché è onesto? Tutti dovrebbero esserlo. Eppure tanti in Italia hanno fatto carriera politica, in particolare a sinistra, solo perché erano - e sono - onesti. Ma l'onestà non può essere un programma politico, e Marino un programma non l'ha mai avuto, o meglio non ha mai avuto un programma di sinistra, perché non è uno di sinistra, ma solo uno che aveva l'ambizione di fare il ministro, il segretario del pd o il sindaco di Roma, niente di meno.
Si è espresso, da cattolico, a favore delle unioni civili e dei diritti delle persone omosessuali; questo significa essere di sinistra? No. Ha pedonalizzato i Fori imperiali e ha tolto gli ambulanti attorno ai monumenti; questo significa essere di sinistra? Non so, ma francamente non mi pare rilevantissimo. Ha fatto davvero qualcosa per migliorare la vita delle migliaia di persone che vivono malissimo nelle periferie di Roma? Ecco questa sarebbe stata una cosa di sinistra, magari impopolare, perché avrebbe toccato rendite, poteri costituiti, privilegi piccoli e grandi. Ha denunciato l'enorme patrimonio immobiliare, pubblico e privato, che c'è a Roma, spesso vuoto, a volte "affittato" ai soliti noti, mentre tante persone sono senza casa o vivono in case che dovrebbero essere abbattute? Espropriare le case sfitte delle banche sarebbe un atto da comunista e certo Marino non voleva essere considerato tale. Ha messo insieme alcuni slogan, gli stessi che ha messo insieme renzi, che ha messo insieme Civati, che ha messo insieme Barca, che hanno messo insieme tanti altri, miscelandoli in maniera diversa, ma sostanzialmente dicendo - o non dicendo - tutti le stesse cose, usando tutti la stessa vuota retorica, infarcita di nuovismo e di riforme. Tutti costoro non rappresentano altri che se stessi, quando va bene; quando va male rappresentano i "poteri" economici e affaristici che li sostengono, li finanziano, li "votano". Nel cocktail politico di Marino c'era - rispetto a quelli degli altri - un po' più di antipolitica. Ma poi, quando passi dall'antipolitica alla politica, c'è sempre uno più "antipolitico" di te; e Marino alla fine ha pagato anche questo.
Ovviamente non è questo il nodo, non hanno dimesso il sindaco per le buche, per la metro che non funziona, per il degrado, per gli scontrini. Marino ha pagato un prezzo così alto, anche dal punto di vista umano, per non aver offerto la propria disponibilità ai potenti di turno, a quelli che vogliono fare affari con il Giubileo della misericordia, a quelli che da sempre mungono la vacca e che naturalmente vogliono continuare a farlo. Poco importa a questo punto se non l'ha fatto perché è davvero onesto o perché anche lui aveva i suoi amici da beneficare con i soldi "santi" in arrivo, insieme ai pellegrini, nella Città eterna. Questo ormai importa solo a Marino e alla sua coscienza. Quel capitolo è chiuso. Adesso tornano a sedersi a tavola i convitati famelici che abbiamo già visto all'opera. E poco importa che vincano gli uni o gli altri, la cosiddetta destra o la cosiddetta sinistra, sappiamo che sono soliti frequentare gli stessi ristoranti, quelli preferiti anche dai Casamonica e dagli amici degli amici.
Da qualche tempo il partito di regime a Roma è commissariato, ma quanti iscritti sono stati espulsi? Quanti circoli sono stati chiusi? Il "commissario" Orfini non poteva e non voleva cambiare nulla, anzi doveva cambiare il sindaco, e proprio sotto il Giubileo, perché in nome della fretta, dell'emergenza, della necessità di non fare una brutta figura con il resto del mondo, tutto diventa lecito, così come è accaduto a Milano con Expo. Il sogno di renzi e dei suoi pupari è di non andare più al voto, di sostituire i sindaci con podestà nominati dal governo. Ma siccome sanno che non possono farlo, svuotano i poteri degli enti locali, rendono i sindaci sempre più deboli. La riforma della Costituzione sta andando tutta in questa direzione e l'attacco a Marino è figlio della stessa idea: se hanno potuto sbarazzarsi così facilmente del sindaco della capitale, quale altro amministratore può sentirsi al sicuro? L'omicidio politico di Marino è anche un avvertimento, in stile mafioso, a tutti gli altri: o vi adeguate o vi distruggeremo.
A Roma, nonostante i giochi di regime, potrebbe questa volta vincere il candidato del Movimento Cinque stelle; personalmente penso sia auspicabile, piuttosto che vinca un uomo della premiata ditta renzi-verdini. Se fossi romano probabilmente voterei per loro, perfino per uno dal passato discutibile come Alessandro Di Battista o per una antipatica come Roberta Lombardi. Francamente non ho molta fiducia che un'amministrazione grillina possa ribaltare una situazione così incancrenita, possa ripulire tutto il marcio incrostato in questi decenni. Sarebbe perfino ingiusto chiedere a loro un impegno così improbo, caricarli di aspettative impossibili da mantenere, tanto più che avrebbero contro il regime, con tutta la sua potenza di fuoco. Ma è giusto che ne abbiano l'opportunità e, ripeto, se servisse, avrebbero perfino il mio sostegno. Di fronte a un regime occorre rinunciare a qualcuna delle nostre posizioni, pur di fermare - o almeno rallentare - la sua affermazione.
Non può essere questa però la nostra prospettiva. Bisogna cominciare davvero a costruire qualcosa di diverso, bisogna tornare a un'idea di rappresentanza politica, basata su comuni valori, sulla condivisione di interessi di classe, bisogna tornare a costruire un'idea socialista attorno a cui riunire le persone che sono colpite ogni giorno dall'affermazione violenta del finanzcapitalismo, bisogna costruire una difesa per le classi più povere, per i lavoratori con sempre meno diritti, per i giovani che non hanno un futuro. E insieme tornare ad attaccare; prima che sia troppo tardi. 

venerdì 9 ottobre 2015

"Diga" di Erri De Luca


Chiasso di acque nei cieli, «hamòn màim bashamàim».
Così un profeta intese la voce che grondava su di lui
da un acquario di stelle.
Ascolta un altro chiasso,
una montagna intera che sfracella sopra l'invaso di una diga.
Era di notte, aggredite dal crollo
esplosero le acque verso l'alto a strappare le case di Erto e Casso
dai pendii a meridione e poi di nuovo in giù, acque su acque,
oltre la muraglia-sgabello a sradicare a valle Longarone,
lago, fiume e tempesta di Vajont, duemila nostri spenti.

Ascolta il tutto del sangue quando l'amore stringe:
moltiplicalo per il quadrato delle stelle fisse,
per il grido del capretto sgozzato ogni Pasquanatale,
per la sega del fulmine e il piccole del tuono,
aggiungilo agli schianti del bosco cancellato,
larici, abeti, càrpini, betulle, cervi, gufi, lepri, martore,
uova, ali, zampe, artigli stritolati: e poi dividi
per il silenzio di un minuto dopo. Non giocare con l'acqua,
non chiuderla, frenarla, è lei che scherza
dentro grondaie, turbine, ponti, risaie, mulini e vasche di saline.
È alleata col cielo e il sottosuolo,
ha catapulte, macchine d'assedio, ha la pazienza e il tempo:
passerai pure tu, specie di viceré del mondo,
bipede senza ali, spaventato a morte dalla morte
fino a metterle fretta.

mercoledì 7 ottobre 2015

Verba volant (215): famiglia...

Famiglia, sost. f.

Ecco una parola dalla storia molto antica, e particolarmente curiosa, perché si tratta di uno dei casi, non molto frequenti, in cui una parola della lingua dei vinti si è imposta in quella dei vincitori. Nel latino familia si trova infatti la radice della parola osca che indica la casa. Tra la fine del IV secolo e l'inizio del III a.C. i tre conflitti tra romani e sanniti - che parlavano appunto osco - che fino ad allora sostanzialmente si equivalevano, segnarono il definitivo predominio di Roma sull'Italia centro-meridionale; eppure qualcosa di quel popolo rimase e significativamente proprio il nome che indicava uno degli istituti più importanti e sacri per i romani, la familia appunto, che comprendeva non soltanto le persone legate al pater familias con legami di sangue, ma anche i famuli, i servi della casa, che, appunto perché legati alla casa, facevano parte a tutti gli effetti di quella famiglia.
Perché la famiglia cambia, come cambia la società. E cambiamo tutti noi che inevitabilmente in una famiglia ci siamo nati e che, non così inevitabilmente, una famiglia abbiamo provato - o proviamo - a costruirla.
Una cosa che mi disturba è che ormai famiglia sia una parola - e un concetto - di cui si sono impossessati manu militari gli altri; e pare che noi non ne possiamo parlare, se non per criticare quello che gli altri dicono o impongono. Come sapete in questi giorni gli altri hanno addirittura convocato una seduta solenne dei loro dignitari sparsi per il mondo per spiegare come dovrà essere la famiglia nei prossimi anni, cosa potranno o non potranno fare le persone che hanno una famiglia. E noi incredibilmente ci appassioniamo a temi di cui non dovremmo neppure occuparci. A me sinceramente importa poco se un divorziato possa o meno partecipare a un rito rispettabile e antico come l'eucarestia, ma che appunto riguarda solo loro. Cominciamo a dire, da laici, che le loro regole, quelle che impongono al loro fan club sono affar loro, e naturalmente di quelle persone che vogliono seguirle. Sono persone che rispetto naturalmente, e per questo non mi voglio immischiare nelle loro questioni. Noi non possiamo star qui a discuterle. Non vogliamo che loro impongano a tutti le loro regole? Giustissimo. Smettiamo però noi per primi di occuparci di qualcosa che non ci riguarda.
Laicamente proviamo a partire dall'idea che la famiglia non è qualcosa che appartiene a loro, di cui loro hanno l'esclusiva, ma qualcosa di cui dovremmo occuparci tutti. Anche perché la famiglia non è solo quel complesso di regole sessuali a cui loro sembrano ridurla, in un'ossessione figlia forse del fatto che non lo fanno, o non lo dovrebbero fare. Certamente ci sono anche le questioni legate al sesso all'interno della famiglia, ma non sono così predominanti come sembra immaginare il cardinal Caffarra.
E la famiglia non è neppure quella che ci raccontano i pubblicitari che, per quanto un po' più complessa e composita di quella immaginata dai vescovi - perché ammette anche le coppie omosessuali - è sempre così armoniosamente felice, visto che gli unici problemi che paiono avere quelle famiglie siano che tipo di surgelati acquistare o che contratto di telefonia sottoscrivere. La famiglia del Mulino bianco è ben più pericolosa di quella pensata dai padri sinodali.
La famiglia, o meglio, le famiglie sono invece una realtà sociale un po' più complessa da quella immaginata da santa romana chiesa e dalla pubblicità, intanto sono luoghi del conflitto, perché non è facile stare in famiglia, a volte è addirittura impossibile ed è meglio prenderne atto. Altre volte invece il conflitto è fecondo, spesso quello tra generazioni lo è, quello tra genitori e figli serve a far crescere gli uni e gli altri, come quello all'interno delle coppie. Sinceramente fatico a immaginare una famiglia senza conflitto, poi bisogna avere l'intelligenza di volgerlo in positivo, di fermarsi prima che sia distruttivo, ma evitiamo di pensare che non ci sia.
Per fortuna le famiglie - come le società - sono cambiate e sono migliorate. Credo che una famiglia di oggi sia migliore di una famiglia di cent'anni fa, perché anche questa realtà è diventata in qualche modo più democratica, più attenta ai bisogni di tutti i suoi componenti, più capace di mettersi in relazione, dentro e fuori di essa. Poi non siamo mai contenti - noi progressisti, noi di sinistra non possiamo mai esserlo, per definizione - e vorremmo una società ancora più democratica, ancora più giusta, ancora più solidale, e di conseguenza una famiglia con le stesse caratteristiche. So bene che questi piani non sono sempre andati di pari passo: mio nonno era un sincero socialista, uno di quelli che pensava che gli uomini fossero tutti uguali, ma non era altrettanto "socialista" con sua moglie e con sua figlia. Era ipocrita? Forse, ma quelli erano i tempi, tanto che i "bravi" comunisti mal tolleravano la famiglia "non regolare" di Togliatti, che pure consideravano il Migliore, e i progressisti leggevano e apprezzavano Pasolini, anche se lo giudicavano, con una carta dose di moralismo, un busone.
Molto è stato fatto, ma non pensiamo che quel tempo sia passato. Una società cresce e migliora anche nel modo in cui crescono e migliorano le famiglie, anzi dovremmo essere consapevoli che tanto ciascuno di noi lavora per costruire la propria famiglia, di qualunque tipo sia, secondo certi valori, quanto contribuisce in questo modo a costruire una società con quelle stesse caratteristiche positive. Credo sia importante capire che la relazione con il nostro partner - chiunque esso sia e ovviamente qualunque sia il suo generecome quella con i nostri figli influisce, nel bene e nel male, sulla società in cui quella famiglia agisce. E dobbiamo essere altrettanto consapevoli che una famiglia non è qualcosa di dato, qualcosa che troviamo, ma appunto una realtà che dobbiamo costruire. E costruire è sempre faticoso, intanto perché implica un progetto, una capacità di immaginare qualcosa che non c'è ancora e la consapevolezza che quel qualcosa sarà inevitabilmente diverso da come l'abbiamo progettato, sia perché le condizioni mutano e sia soprattutto perché la costruzione avviene, almeno in una prima fase, in due - a cui dopo possono aggiungersi altre persone - e ciascuno ha le proprie idee, le proprie aspirazioni, i propri desideri. E' anche la parte più bella - sapete, eminenze, perfino più del sesso - vedere alla fine questa costruzione complessa, che è necessariamente diversa dai disegni di partenza. E che, come ogni costruzione, richiede pazienza e tenacia e fantasia.
Se ci pensate questo discorso riguarda anche la politica, anzi è la politica, perché è lo stesso percorso attraverso cui si costruisce una comunità, la si rende capace di aprirsi alle nuove persone che parteciperanno a quel percorso. Per questo la famiglia è qualcosa che ci riguarda tutti, non solo perché tutti ne abbiamo una - anche se qualcuno non vorrebbe averla o gli va stretta - ma perché fa parte di quella realtà più grande, a cui tutti dobbiamo partecipare. Con amore.

venerdì 2 ottobre 2015

"Cronache" di Pietro Ingrao


Non sapevamo dov'era la sponda,
non trovammo i segni, ma torri, orme
talune sommerse, pensieri
testimoni lasciati dagli inermi, dove
solchi sembravano slargarsi
in vento di passione comunitaria:
sporgetevi sui volti, i libri
contestati, le deflagrazioni della sconfitta:
là trascorse, avvampò
la nostra vita.

lunedì 28 settembre 2015

Verba volant (214): eretico...

Eretico, agg.

Mai come in queste occasioni i giornali "borghesi" dimostrano tutta la loro pigrizia. Provate a sfogliare alcuni dei quotidiani dei padroni e vedrete che tutti definiscono Pietro Ingrao un "eretico", non riuscendo poi ad articolare in cosa e rispetto a chi lo sarebbe stato. Di fronte a personaggi così complessi non hanno il tempo e la voglia di provare a capire, di cercare di approfondire almeno un po'. Ovviamente non ci aspettiamo da questi servi che dicano che uomini come Ingrao avevano ragione, ma almeno un po' di rigore professionale non farebbe male. Devono fare un articolo su Ingrao, perché è stato presidente della Camera, perché è stato un politico importante, perché è vissuto così a lungo, ma non riescono a mettere in fila se non alcune parole di circostanza, più o meno ben scritte. Curiosamente tutti questi che definiscono Ingrao un "eretico" non fanno altro che citare il suo atto più rigorosamente ortodosso, il duro editoriale sull'Unità del 12 novembre 1956 in cui difese le ragioni del governo sovietico che invase l'Ungheria.
Io non posso certo definirmi un ingraiano, un po' per ragioni anagrafiche e soprattutto perché il mio impegno politico più significativo è cominciato proprio nei mesi in cui è nato il Pds, scelta a cui - come è noto - Ingrao si oppose con forza e con determinazione, anche nella consapevolezza che sarebbe stata una battaglia destinata alla sconfitta. In qualche modo io ho cominciato a fare politica contro Ingrao, - si parva licet - sconfiggendolo. Mi è già capitato di parlare di quegli anni, che ormai sembrano così lontani; personalmente credo che allora non sbagliammo a intraprendere quel cammino e soprattutto non credo che quella decisione sia stata la miccia che ha necessariamente condotto al disastro che oggi abbiamo davanti agli occhi. So che molti la pensano diversamente e ritengono che in quella decisione di allora ci fosse già in nuce il germe della malattia che ci ha portati alla morte, che quello sia stato il primo sintomo del tumore di cui renzi è solo l'ultima, inevitabile e letale escrescenza. Visto che siamo arrivati al pd evidentemente noi abbiamo commesso molti errori, ma non era inevitabile suicidarsi, è stato un complesso di scelte degli anni successivi che ci ha condotti alla rovina. E di cui, lo ripeto, noi siamo responsabili, anche per non aver ascoltato le parole profetiche di Ingrao.
Curiosamente io stavo per chiudere la mia carriera politica dovendo partecipare a un incontro pubblico proprio con Pietro Ingrao, per un'iniziativa sui sessant'anni delle Feste dell'Unità. Purtroppo quella manifestazione non si svolse - perché non stava bene e non se la sentì di venire fino a Bologna - e a me è rimasto il rammarico di non aver potuto incontrarlo. Scusate se ho raccontato queste cose che riguardano solo me e che a voi poco dovrebbero interessare, però mi sembra utile per far capire che, nonostante tutto, nonostante un confronto che fu aspro, anche dal punto di vista personale, molti di noi continuarono a considerare Ingrao - come tanti compagni che avevano fatto la sua stessa scelta - un interlocutore, un uomo che faceva parte della nostra storia. Io non mi sono mai sentito radicalmente diverso da Ingrao, come invece mi sento radicalmente diverso da renzi e dai suoi complici.
E proprio per questo non riesco a considerare Pietro Ingrao un eretico. Ingrao è stato un uomo rigoroso, un politico che ha avuto sempre chiara un'idea e ha saputo seguirla. Poi naturalmente in una vita, in una vita fortunatamente così lunga e così ricca ed essendo dotato della sua intelligenza, è naturale che abbia approfondito delle opinioni, riflettuto meglio su alcune sue decisioni, anche ammettendo di aver commesso degli sbagli - come ha fatto in riferimento alle vicende ungheresi - ma la grandezza dell'uomo credo stia proprio in questa coerenza, che non era testardaggine ottusa o mera adesione a chi di volta in volta comandava, ma rigorosa fedeltà ai propri principi.
Ingrao, proprio grazie a questa sua capacità di leggere la storia, di individuarne i conflitti e di sapere naturalmente da che parte stare, è stato davvero un eretico - ma non nel senso della comune vulgata - perché non si è piegato al pensiero unico, perché non ha rinunciato a essere comunista, perché non ha mai smesso di credere che il mondo potesse essere cambiato, con la politica - e, nel suo caso, perfino con la poesia. Ingrao non ha smesso di insegnarci l'utopia, come in tanti hanno ricordato in queste ore, ma un'utopia non sterile, non svagata, un'utopia concreta, fatta di azioni, di lotte, di scelte politiche. Naturalmente adesso sarebbe facile dire che allora aveva ragione lui e che noi avevamo torto, ma credo che questo a lui per primo non interessasse. Non gli importava sapere che aveva avuto ragione, ma gli interessava capire cosa fare per uscire da questa crisi, per ricostruire una prospettiva radicalmente alternativa e di sinistra anche in questo paese. Per onorare la memoria di Pietro Ingrao non è necessario diventare - o ridiventare - ingraiani, ma avere un'ideale e avere la forza e l'intelligenza di perseguirlo, a costo di ogni sacrificio.

"Ipotesi" di Pietro Ingrao


Non è la quiete
la fine dei disordini
la liquidazione dei confini,
delle vittorie inique
e vincitori superbi
e fallaci,

non l'indifferenza dei ranghi,
la dissoluzione delle lacrime
il trono ai deboli
ai candidi
oscurati dalla verginità dei desideri.
Solo un sospendere.
Neppure uno sdegno:
un'esitazione sul morire
per mano d'uomo,

quasi una finzione:

come
il braccio s'inceppasse a trafiggere,
dubbio sull'arte
dello sterminare i nati da donna
chiamati a noi prossimi:
                                 tali che a tratti,
a sorpresa,
li diciamo fratelli.

domenica 27 settembre 2015

"Eppure" di Pietro Ingrao


Per gli incolori
che non hanno canto
neppure il grido,
per chi solo transita
senza nemmeno raccontare il suo respiro,
per i dispersi nelle tane, nei meandri
dove non c'è segno, né nido,
per gli oscurati dal sole altrui,
per la polvere
di cui non si può dire la storia,
per i non nati mai
perché non furono riconosciuti,
per le parole perdute nell'ansia
per gli inni che nessuno canta
essendo solo desiderio spento,
per le grandi solitudini che si affollano
i sentieri persi
gli occhi chiusi
i reclusi nelle carceri d'ombra
per gli innominati,
i semplici deserti:
fiume senza bandiere senza sponde
eppure eterno fiume dell'esistere.

mercoledì 23 settembre 2015

Verba volant (213): emissione...

Emissione, sost. f.

C'è una dilagante e nauseabonda ipocrisia nei commenti che leggiamo in questi giorni sulla vicenda Volkswagen, ben più tossica dei gas di scarico di quelle automobili. Ovviamente non ho alcuna simpatia per quell'azienda - sono padroni come gli altri, né migliori né peggiori - ma vorrei ricordare che l'editore di due tra i più importanti quotidiani italiani - il primo e il quarto per copie vendute - è anche il padrone di un'altra fabbrica di automobili, concorrente della casa tedesca. Difficile credere che i giudizi, così virilmente sdegnati, dei redattori a libro paga di Marchionne non risentano di questo conflitto di interessi, di cui per anni abbiamo fatto finta di non accorgerci.
Poi noi italiani non abbiamo alcuna simpatia per i tedeschi, non riusciamo a farceli piacere, li abbiamo mal tollerati anche quando siamo stati loro alleati "di ferro": e quindi gioiamo delle loro debolezze, delle loro pecche, delle loro cadute. E naturalmente agli organi di informazione, nazionali e nazionalisti, non pare vero di inzuppare in questo sentimento antigermanico. Anche il nostro governo sotto sotto gode di questo scandalo, non solo perché il premier riceve laute prebende dal padrone della fabbrica di auto che un tempo fu italiana, ma soprattutto perché può finalmente guardare con sufficienza la sua collega di Berlino, senza dover aspettare un'altra partita di calcio.
Ma al di là di queste piccole beghe, non capisco davvero dove stia lo scandalo. I padroni della Volkswagen hanno mentito per vendere più automobili e quindi per guadagnare di più: è l'essenza del capitalismo. E' naturale che i padroni mentano per vendere più automobili, più hamburgher, più cosmetici, più bevande gassate, più pneumatici, più spaghetti, più computer, più di ogni altra cosa. Più una cosa ci fa male, più loro inventano storie, più una cosa è inutile, più loro dicono bugie. Il capitalismo si regge su queste menzogne, anzi ne ha bisogno per vivere e per prosperare. Il capitalismo è menzogna, è frode, i padroni ogni giorno truffano i loro lavoratori, non pagandoli in maniera adeguata per quello che producono - a volte non pagandoli affatto - non riconoscendo il frutto del loro lavoro, della loro fatica, del loro genio. E naturalmente devono truffare i consumatori affinché acquistino, e acquistino, e acquistino; senza fermarsi. Viviamo in una società che non ci considera come persone o come cittadini, ma solo come consumatori, ciascuno di noi vale tanto quanto consuma, quanto spende, quanto getta via per poi ricomprare. In una società così non è importante che un'auto inquini poco, ma che venga comprata e, se viene comprata perché crediamo che inquini poco, ci diranno che inquina poco.
I padroni non riconoscono le regole, non possono riconoscere delle regole, perché il capitalismo è per sua natura sfrenato e bestiale. Anzi tutta la storia di questi ultimi trentacinque anni - o giù di lì - è dominata dalla reazione rabbiosa, animalesca, sfacciatamente violenta - e purtroppo vittoriosa - che il capitale ha scatenato contro le regole che gli sono state imposte, con fatica e a prezzo di lotte durissime, nei cosiddetti trenta gloriosi, nei tre decenni che seguirono la fine della seconda guerra mondiale. In quegli anni la politica, grazie anche al protagonismo di una classe di lavoratori consapevole della propria forza e dei propri diritti, aveva in qualche modo preso il controllo di quella bestia immonda, ma poi le catene si sono spezzate e adesso è ancora più pericolosa, perché la cattività l'ha resa, se possibile, ancora più feroce. I padroni sono disposti a uccidere interi popoli pur di salvaguardare i propri interessi, pur di aumentare i loro guadagni, cosa volete che freghi a loro di quanta Co2 butta fuori un'automobile.

lunedì 21 settembre 2015

Verba volant (212): assemblea...

Assemblea, sost. f.

Credo sia utile fare qualche riflessione su quello che è successo in questo paese lo scorso 18 settembre, qualcosa di grave in sé, ma soprattutto l'annuncio di qualcosa ancor più grave che potrebbe accadere, se non facciamo attenzione, se non abbiamo la capacità di reagire.
Quel giorno i lavoratori di alcuni musei e siti archeologici si sono riuniti in assemblea, richiesta nei tempi e nelle forme di legge, per discutere del fatto che da ottobre 2014 sono bloccati i pagamenti di una parte dei loro stipendi: incentivi, straordinari, aperture festive e notturne e così via. In sostanza è da un anno che quei lavoratori non ricevono una parte della loro retribuzione: credo sia stato legittimo programmare almeno un momento di incontro tra quei lavoratori per capire cosa fare. Sarebbe stato altrettanto legittimo, a mio avviso, fare di più e di peggio, ma evidentemente ha prevalso tra quei lavoratori - e tra chi li rappresenta - un senso di responsabilità che, alla luce della rabbiosa reazione del loro "datore di lavoro", è stato certamente mal riposto. Peraltro è curioso che nel pomeriggio di quello stesso giorno, dopo che si era creato un cortocircuito mediatico che prescindeva del tutto dal merito della vicenda, i fondi siano stati improvvisamente e miracolosamente sbloccati dal ministero. Speriamo adesso arrivino davvero. Ma ormai non è più questo il tema.
Infatti intorno a mezzogiorno su tutti gli organi di informazione è rimbalzata la notizia che il Colosseo era rimasto chiuso. Scandalo Colosseo è stato il titolo del giornale radio della Rai, titoli dai toni sostanzialmente analoghi si leggevano sui siti dei principali quotidiani - la notizia era messa in primo piano come per lo scoppio di una guerra o per il divorzio della Bellucci - tutte le televisioni hanno mandato i loro inviati per intervistare i "poveri" turisti, vittime di questa "lesione" alla loro libertà di visita. In un attimo la notizia è diventata questa: i sindacati hanno "chiuso" il Colosseo, hanno sbattuto le porte in faccia ai turisti, hanno creato un danno all'Italia. Naturalmente nessuno ha citato i motivi per cui l'assemblea era stata indetta né che era stata richiesta secondo le norme e che quindi al ministero sapevano da giorni che ci sarebbe stata. Tanto è vero che hanno perfino sbagliato a scrivere i cartelli per informare i turisti, visto che al ministero nessuno sembra sapere la differenza tra 11am e 11pm. Invece tutti, sdegnati, hanno chiesto misure urgenti, urgentissime, perché uno scempio del genere non deve riproporsi, perché l'Italia non può subire un altro, simile, oltraggio e così via. Naturalmente è subito intervenuto con un tweet il capo del governo che, con gagliarda baldanza, ha detto che sarebbero stati presi provvedimenti, seguito a ruota dall'insulso e solitamente taciturno ministro della cultura e perfino dal sindaco subacqueo, quello che non ha speso una parola per i funerali della famiglia Casamonica. E altrettanto naturalmente è arrivato puntuale nel pomeriggio il decreto che ha equiparato musei e siti archeologici a servizi essenziali, riducendo quindi la possibilità di scioperare di quei lavoratori, con le lodi di Confindustria e gli applausi del popolo addomesticato dall'informazione di regime.
Nel merito della vicenda anch'io credo che la cultura sia un servizio "essenziale" e che, proprio in quanto tale andrebbe considerata e tutelata. E proprio perché chi fa quel lavoro è "essenziale" al paese dovrebbe essere pagato, come merita e ogni mese. E credo anch'io che andrebbe esteso l'orario di apertura di musei e siti archeologici e che quindi andrebbero assunte altre persone, magari giovani, proprio per garantire queste auspicabili aperture, tutti i giorni dell'anno, ventiquattro ore al giorno, come per i supermercati. Ma naturalmente a chi governa questo paese non interessa nulla delle aperture al pubblico dei musei e dei siti artistici, tanto è vero che un sindaco di Firenze, nel 2013, chiuse ai turisti "normali" il Ponte Vecchio per sei ore, per permettere che in quel luogo, pubblico, potessero andarci soltanto gli ospiti vip di una grande industria italiana.
Evidentemente qui non stiamo parlando di cultura, a loro interessava altro. E' curioso come in questa Italia così sfacciatamente inefficiente, così boriosamente pigra, abbia funzionato con tale puntualità e con tale zelo questo nuovo Minculpop. In pochi minuti tutti gli organi di informazione hanno avuto l'ordine di raccontare in questo modo quello che era successo a Roma e tutti l'hanno fatto, con le stesse parole, con le stesse immagini, con lo stesso vivo sdegno, individuando gli stessi "nemici" dell'Italia e chiedendo per loro le stesse punizioni esemplari. Erano articoli fotocopia, potevi leggere un giornale come un altro, ascoltare un telegiornale come un altro, e tutti raccontavano la stessa "verità": i turisti che trasecolavano davanti ai cancelli chiusi, che si chiedevano come mai potesse succedere una tale vergogna, e i lavoratori in panciolle in una qualche stanza a leggere i giornali sportivi e giocare a carte, con i sindacalisti impegnati a pensare come poter continuare a estorcere gli stipendi senza farli lavorare. Ma per fortuna è arrivato super-renzi e vedrete che tutto si risolverà. Un regime comincia così, con questa uniformità di pensiero, con questa deformazione della realtà, con questo uso sistematico della menzogna, con  questa propaganda volgare e ossessiva.
Naturalmente la regia di questa roba qui non è a Palazzo Chigi, richiede un'intelligenza che certamente lì non ha sede, ma evidentemente da qualche altra parte c'è qualcuno che pensa, che muove le sue pedine e che fa fare ai suoi figuranti quello che devono fare. In questo caso c'era da dare un'ulteriore stretta al diritto di sciopero ed è stato fatto, per decreto, perché ormai siamo una repubblica dove si governa attraverso i decreti, in barba alla Costituzione. E soprattutto c'era da mandare un segnale di tipo mafioso ai sindacati.
Ogni regime, da che mondo è mondo, ha sempre bisogno di trovarsi un nemico. E visto che adesso è praticamente impossibile trovare un nemico all'esterno, perché siamo tutti amici, tutti servi del capitale, da Mosca a Parigi, si ricorre al nemico interno, alla quinta colonna. E chi meglio dei sindacati?
Allora vorrei rivolgermi al mio sindacato, alla Cgil; come sapete gli altri due non li considero neppure, solo in Italia quelle due inutili organizzazioni possono definirsi sindacati. E' stato certamente importante fare la conferenza di organizzazione, ma credo sarebbe anche utile ragionare sul fatto che siamo a un punto tale che un governo in affanno aumenta la propria popolarità se attacca il sindacato. Perché siamo arrivati qui? Perché, nonostante un lavoro prezioso e insostituibile che la Cgil fa nei posti di lavoro e nei territori, attaccare la Cgil fa audience? Certo ci sono tante ragioni che riguardano la crisi dei corpi intermedi, la fine di una certa idea di rappresentanza e tante altre questioni di carattere generale, ma deve esserci anche un qualche limite della Cgil, altrimenti sarebbe difficile da spiegare. Perfino tanti che non amano questo governo, di fronte alla notizia di quello che è accaduto al Colosseo hanno detto - o pensato - che è sbagliato ridurre il diritto di sciopero, ma quei lavoratori.... Ecco su quel "ma" dovremmo interrogarci, perché quello che conta è quello che sta dopo quel "ma".
E allora, sempre rivolgendomi ai miei compagni della Cgil, forse è anche ora di scuotersi. Loro ci danno un cazzotto dietro l'altro, con sempre maggiore violenza, e noi stiamo fermi, magari protestiamo, a volte perfino proviamo a schivare qualche colpo che pensiamo ci faccia particolarmente male, ma in sostanza stiamo lì a prenderle. Pensiamo che alla fine si stancheranno? Speriamo abbiamo male alla mano a forza di picchiarci? Tutto è possibile, ma non ci crederei troppo. Io sono di quelli che pensa che la Cgil dovrebbe diventare opposizione in questo paese, opposizione a questo governo, opposizione a questo regime, opposizione a questo sistema capitalista. Mi pare che la maggioranza dell'organizzazione non sia dello stesso parere, perché il sindacato non deve fare politica, perché qualcuno magari spera che alla fine vinceranno i "minoranti" della sinistra pd, perché evidentemente a qualcuno va bene così, perché cambiare troppo è sempre pericoloso per chi nella Cgil si è costruito delle piccole rendite di posizione, dei piccoli privilegi, per chi immagina di fare delle piccole carriere, all'ombra del partito di regime. Ovviamente tutti questi saranno spazzati via anche loro, quando qualcuno deciderà che le assemblee non le potremo più fare né nei luoghi di lavoro né fuori, perché tanto hanno già deciso "loro" per noi, hanno deciso "loro" per il nostro bene.
In Europa un po' di compagni si sono stancati di star fermi, si sono stancati di continuare a prendere le botte, per esempio in Gran Bretagna il sindacato ha deciso che è ora di dire basta e ha contribuito ad eleggere Jeremy Corbyn alla guida del Labour; evidentemente non è una legge scolpita nella pietra quella che il sindacato non possa fare politica. Ho l'impressione che anche un po' di persone, perfino qui in Italia si siano stancate, forse un po' di più di quelle che ci immaginiamo. Sarebbe bello se allora trovassero la Cgil, altrimenti qualcosa di nuovo dovremo farlo.

sabato 19 settembre 2015

"Perché scrivo" di Italo Calvino


Scrivo perché non ero dotato per il commercio, non ero dotato per lo sport, non ero dotato per tante altre, ero un poco…, per usare una frase famosa, l'idiota della famiglia… In genere chi scrive è uno che, tra le tante cose che tenta di fare, vede che stare a tavolino e buttar fuori della roba che esce dalla sua testa e dalla sua penna è un modo per realizzarsi e per comunicare.
Posso dire che scrivo per comunicare perché la scrittura è il modo in cui riesco a far passare delle cose attraverso di me, delle cose che magari vengono a me dalla cultura che mi circonda, dalla vita, dall'esperienza, dalla letteratura che mi ha preceduto, a cui do quel tanto di personale che hanno tutte le esperienze che passano attraverso una persona umana e poi tornano in circolazione. È per questo che scrivo. Per farmi strumento di qualcosa che è certamente più grande di me e che è il modo in cui gli uomini guardano, commentano, giudicano, esprimono il mondo: farlo passare attraverso di me e rimetterlo in circolazione. Questo è uno dei tanti modi con cui una civiltà, una cultura, una società vive assimilando esperienze e rimettendole in circolazione.
Scrivo perché sono insoddisfatto di quel che ho già scritto e vorrei in qualche modo correggerlo, completarlo, proporre un'alternativa. In questo senso non c'è stata una "prima volta" in cui mi sono messo a scrivere. Scrivere è sempre stato cercare di cancellare di già scritto e mettere al suo posto qualcosa che ancora non so se riuscirò a scrivere.
Scrivo perché leggendo X (un X antico o contemporaneo) mi viene da pensare: "Ah, come mi piacerebbe scrivere come X! Peccato che ciò sia completamente al di là delle mie possibilità!". Allora cerco di immaginarmi questa impresa impossibile, penso al libro che non scriverò mai, ma che mi piacerebbe poter leggere, poter affiancare ad altri libri amati in uno scaffale ideale. Ed ecco che già qualche parola, qualche frase si presentano alla mia mente… Da quel momento in poi non sto più pensando a X, né ad alcun altro modello possibile. È a quel libro che penso, a quel libro che non è stato ancora scritto e che potrebbe essere il mio libro! Provo a scriverlo…
Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all'arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamano "esperienza della vita". Non è il desiderio di insegnare ad altri ciò che so o credo di sapere che mi mette voglia di scrivere, ma al contrario la coscienza dolorosa della mia incompetenza. Il mio primo impulso sarebbe dunque di scrivere per fingere una competenza che non ho? Me per essere in grado di fingere, devo in qualche modo accumulare informazioni, nozioni, osservazioni, devo riuscire a immaginarmi il lento accumularsi dell'esperienza. E questo posso farlo solo nella pagina scritta, dove spero di catturare almeno qualche traccia d’un sapere o d’una saggezza che nella vita ho sfiorato appena e subito perso.

venerdì 18 settembre 2015

da "Marat/Sade" di Peter Weiss


La persecuzione e l'assassinio di Jean-Paul Marat, rappresentato dalla compagnia filodrammatica dell'ospizio di Charenton sotto la guida del marchese de Sade

Marat
O questo prurito…
Questo prurito… questo prurito…
Questo prurito mi farà impazzire
Simonne!
Simonne, bagna il panno nell'acqua e aceto, rinfrescami la fronte Simonne.
La febbre, la febbre…
Tutto sotto la mia pelle brucia, Simonne…

Sade
So bene che adesso saresti pronto a cedere tutta la tua fama e il favore del popolo per un paio di giorni di salute.

Marat
E tu marchese? A che cosa rinunceresti pur di credere in qualcosa?

Sade
Dovremmo saper distinguere il vero dal falso per poter credere.
Dovremmo conoscere noi stessi. Io non mi conosco.
Quando credo di aver scoperto qualcosa, la metto in dubbio… e la nego un istante dopo.
Qualunque cosa facciamo è solo una larva di quello che vorremmo fare e mai si scoprono verità diverse dalle verità mutevoli delle proprie esperienze.
Io non so se sono il boia o la vittima.
Invento le torture più mostruose e nel descriverle le patisco nella mia carne.
Sono capace di tutto e tutto mi riempie di spavento e così vedo anche come altri, all'improvviso, si trasformino in belve e si lascino trascinare ad atti imprevedibili.
Belve folli, Marat.
Siamo belve folli….

Entrano in scena un uomo e una donna, avanzano carponi. Improvvisano una lotta feroce, una danza, un amplesso.

Sade (fuori campo)
Una belva folle, una belva folle è l'uomo.
Nella mia vita di millenni ho partecipato a milioni di delitti.
Grassa, grassa è dovunque la terra, della poltiglia degli umani visceri.
Noi pochi viventi, noi pochi viventi camminiamo su un pantano che trabocca di cadaveri.
Dovunque sotto i nostri piedi, ad ogni passo, sotto di noi ossa putride, ceneri, matasse di capelli, denti spaccati, crani spaccati.
Una belva folle son io.
Non c'è gabbia che chiuda, non c'è fine che tenga.
Io mi apro un passaggio sotto qualunque muro, tra lo sterco e l'ossame.
Vedrete, vedrete.
Non è ancora finita
Ho i miei piani segreti.

I due figuranti, prima immobili, fuggono ed escono dalla scena.

Sade
Tu giaci immerso dentro la tua vasca come nell'acqua rosea dell'utero, Marat.
E nuoti solo con la tua immagine del mondo che non corrisponde più agli avvenimenti.
Volevi immischiarti nella realtà e lei ti ha messo con le spalle al muro.
Io ho rinunciato ad occuparmene, la mia vita è l'immaginazione.
La rivoluzione non mi interessa più.

Marat
Falso, Sade, falso.
Con l'immaginazione non si abbattono muri.
Gli ordinamenti non si sovvertono con la penna.
Per quanto ci si affanni, il nuovo nasce soltanto tra goffi e ripetuti tentativi.
Siamo così infetti dai modi di pensare tramandati da generazione in generazione che anche i migliori di noi ancora non sanno come cavarsela.
Abbiamo inventato la rivoluzione, ma non sappiamo ancora come governarla.
Alla Convenzione siedono uomini attaccati ai brandelli del passato, uomini che vogliono sommare ai diritti dell'uomo il sacro diritto all'arricchimento in un felice, vicendevole latrocinio.
La rivoluzione è già vinta, dicono.
E invece siamo più che mai lontani dal nostro scopo.

lunedì 14 settembre 2015

Verba volant (211): vincere...

Vincere, v. tr.

Lo premetto, a scanso di equivoci: a me in politica piace vincere. Una sconfitta onorevole è una sconfitta e mi sono sempre stati sui cosiddetti quelli che partecipano perché comunque è importante partecipare. Forse vale alle olimpiadi - ma sinceramente de Coubertin per me è, nella migliore delle ipotesi, un ingenuo e tutti quelli che adesso lo citano sono di sicuro ipocriti - ma certamente non in politica.
Da ieri ci spiegano, con un'aria un po' rassegnata - come quella di certi professori verso quegli studenti che proprio non la vogliono capire - che Jeremy Corbyn non potrà mai vincere le prossime elezioni in Gran Bretagna, che uno così radicale, così socialista, non avrà mai la maggioranza dei consensi in quel paese. Forse tutti questi esperti riuscirebbero a convincermi, se non fossero gli stessi che le elezioni le hanno perse, e perse male. Giova ricordare a questi sedicenti strateghi elettorali che ci sono state le primarie del Labour perché alle ultime elezioni quel partito è stato sconfitto, in maniera nettissima. Il Labour in Scozia praticamente non esiste più, dal momento che tutti i suoi rappresentanti sono stati sconfitti da quelli del Partito nazionale scozzese, che si è presentato con un programma basato non solo sull'identità nazionale e sull'autonomia, ma anche sulla critica al modello sociale ultraliberista portato avanti da Cameron e sostanzialmente accettato dai laburisti.
In Europa quella sinistra lì - io non vorrei nemmeno chiamarla sinistra, ma visto che loro si chiamano così, accetto la convenzione - la sinistra che guarda al centro, la sinistra che ha assunto i valori del liberismo, la sinistra che privatizza, la sinistra che difende i "diritti" dei padroni, insomma la sinistra che ha smesso di fare la sinistra, perde sostanzialmente in tutti i paesi. Oppure vince, come quelli del pd qui in Italia. Qualche mio ex amico del pd - ma ormai sono pochissimi quelli che non ho ancora cancellato dalla lista degli amici di "faccialibro" - hanno scritto nella mia bacheca: se avete voglia di perdere con uno come lui, e amenità del genere. Io potrei rispondere loro, se avessi tempo da buttar via, che loro preferiscono vincere con uno come renzi, ossia con uno che sta applicando in materia economica e sociale quanto scritto dagli esponenti della Bce e che propone delle riforme istituzionali simili a quelle contenute nel Piano di rinascita nazionale di Licio Gelli. Ma appunto io con quelli del pd preferisco non perderci troppo tempo, tanto capiscono solo quello che vogliono capire e quello che dicono loro di capire.
Peraltro Jeremy Corbyn è uno che è abituato a vincere: le elezioni nel suo collegio le ha già vinte otto volte, dal 1983. I soliti "esperti" diranno che è semplice per un laburista vincere le elezioni a Islington, nella periferia a nord di Londra, che il Labour vincerebbe lì anche candidando un asino; lo dicono curiosamente dei veri esperti in materia, ad esempio, quelli che hanno perso Bologna e quelli che hanno vinto, facendo eleggere quel puttaniere di Delbono o quell'anima candida di Merola. Forse Corbyn ha vinto per otto volte di seguito nel suo collegio perché lo conosce, lo vive, sa cosa pensano e vogliono le persone che abitano lì, sa quali sono i problemi di quel pezzo di città e prova a risolverli. Fino a ieri, quando andavate sul suo sito, prima di ogni altra cosa dovevate scegliere se avere informazioni sul Corbyn candidato alla leadership del Labour o sul Corbyn deputato di Islington, perché il suo legame con quella comunità rimane forte. Forse gli elettori di Islington - che dobbiamo supporre non abbiano l'anello al naso, in democrazia vale sempre la regola che gli elettori hanno ragione - lo hanno rivotato, anche quando non era di moda, anche quando le sue idee erano radicalmente diverse da quelle dominanti nel New Labour di Blair, perché la sua posizione è sempre stata coerente, radicalmente coerente. E continua ad esserlo.
Agli esperti di marketing politico fa strano che abbia vinto le primarie del Labour una persona non propriamente giovane, una persona non proprio attenta all'immagine, un politico di professione, uno che non è molto diplomatico e dice quello che pensa, anche se quello che dice fa arrabbiare qualcuno, uno che usa parole desuete, come socialismo. E vince in particolare tra i giovani, proprio perché è vecchio, perché veste in maniera normale, perché ha un'esperienza politica, perché parla in maniera diretta e perché si definisce socialista. Magari molti di quei giovani non sanno bene cosa significhi questa parola, molti di quei giovani non si definiscono neppure così, molti di quelli che lo sostengono, che l'hanno votato, che oggi si sono iscritti al Labour - gli iscritti sono aumentati grazie a Corbyn - sono nati in un'epoca in cui l'idea di socialismo veniva buttata a mare, dagli stessi socialisti. E' avvenuto in tutta Europa, purtroppo; non solo in Italia. Però il socialismo è qualcosa che si impara in fretta, perché è lottare contro le ingiustizie, è lottare per la libertà, è lottare per la pace e per i diritti, è lottare per un lavoro sicuro e retribuito in maniera equa, è lottare per servizi pubblici universali, è lottare per difendere i beni pubblici, e Corbyn l'ha sempre fatto, con coerenza, con testardaggine per qualcuno, Corbyn non vuole essere moderno, vuole portare avanti le proprie idee, che sono sempre quelle. E la sua coerenza è stata premiata, il suo rigore è stato premiato. E qui c'è quello che dobbiamo imparare, soprattutto qui in Italia, da quello che è successo in Gran Bretagna: il tema non è trovare il Corbyn italiano, dentro o fuori il pd, il problema è ritrovare una cultura politica diffusa, socialista.
Il Labour di Jeremy Corbyn vincerà le prossime elezioni in Gran Bretagna? Non lo so, non lo sa neppure lui, però non lotta per testimoniare un'idea, non lotta per arrivare secondo. Vuole far vincere le sue idee e, siccome le sue idee sono anche le nostre, vorrà dire che lotteremo insieme.

Then raise the scarlet standard high!
Within its shade we'll live or die.
Though cowards flinch and traitors sneer,
We'll keep the red flag flying here.


ringrazio Zaira per la versione inglese di questo post

Save the sport spirit for the Olympics. In politics winning is not an option and an honourable defeat is still a defeat.
Since the 13rd september we've been reading "experts" explaining, with patronizing patience, that Jeremy Corbyn will never be able to win an election in Britain. Too much of a socialist, too much of a radical, he can never gather the majority of votes. Not in Britain.
Curiously, those "experts" have been losing their own elections, and badly. The Labour party lost, and badly, the latest electoral chance. In Scotland it's been almost cancelled, to advantage of Scottish National Party, whose agenda contained severe criticism to the ultra liberalist model followed by Cameron and not too much opposed by Millband's Labour.
Remarkably, when european socialists accepted to compromise with neoliberal policies, to privatise public services, in a word when they stopped being socialist, they lost, and badly. Well, in Italy, they say they won. But in fact Renzi's Democrat Party does not belong to the left anymore. They promoted laws that cancelled workers' rights and their leader proclaims to take Tony Blair as his model. But twenty years later, when we all know who Tony Blair really is.
It's interesting to remind that Jeremy Corbyn won his elections, eight times. He knows his electoral college, he knows what people think and need, he knows their problems and tries to solve them. And he won. The people of Islington kept voting for him. He is not fashionable, but he is faithful to his ideals as he's always been, without any compromise.
Our "experts" are puzzled. He is not young, not "cool", not stylish, not much of a diplomat who speaks as he thinks, and he uses old disused terms such as "socialism", a word that has been by now neglected by socialists themselves, it's obsolete and archaic, not fit to modern times.
Well, strange enough, Corbyn voters are largely young people, who maybe don't understand exactly what a socialist really is. Unfortunately for them, the only socialist they ever met was Tony Blair. But they trust Jeremy Corbyn: he speaks clearly, he doesn't want to be modern, he simply defends his ideals. And after all, socialism is something that is easy to learn: it means solidarity, it means fighting for rights and for freedom, against injustice and inequality, it means defending workers' rights and public services. Corbyn always did that, stubbornly. And he stayed clean.
Corbyn's victory should be a lesson for all of us, weak and feeble italian socialists. Before starting the quest for an italian version of Jeremy Corbyn, we have to, we need to rebuild this political common ground and find this constancy again.
I don't know whether or not Corbyn's Labour Party will win next elections. He doesn't know either, but I know he will fight for an honourable defeat. He wants his ideals to win. And as his ideals are ours, we will share his fight.

giovedì 10 settembre 2015

Verba volant (210): migrante...


Migrante, sost. m e f. 

Mai come in questo caso le parole sono importanti. La retorica leghista - e di tutta la destra europea - usa un argomento apparentemente efficace, quando dice che solo una piccola percentuale delle persone che arrivano, in maniera più o meno fortunosa, qui in Europa dall'Africa e dal Medio oriente hanno il diritto di essere riconosciuti come rifugiati. Il rifugiato è una persona perseguitata, per motivi politici o etnici o religiosi, nel proprio paese che, proprio per questo, trova ospitalità in un altro paese, che riconosce legalmente il suo status. In sostanza i fascisti europei dicono: accogliamo pure i rifugiati, non siamo razzisti noi, ma gli altri, che sono tanti di più, rimandiamoli indietro, perché qui non c'è posto per tutti. Sembra un argomento perfino sensato, specialmente in un momento storico come questo, in cui la povertà colpisce tante persone anche qui, nei paesi della "vecchia" Europa, molte più persone che negli anni passati, e questo numero sembra destinato ad aumentare.
Non cadiamo in questa trappola e cerchiamo di usare le parole giuste. Aylan non era un rifugiato, non lo sarebbe stato neppure se fosse riuscito a raggiungere Berlino, Parigi o Londra. neppure se il suo viaggio non si fosse interrotto così tragicamente sulla spiaggia di Bodrum. Aylan e la sua famiglia, come gran parte delle persone che in questi anni si sono messe in cammino, non sono perseguitati in nome della loro etnia o della loro religione o delle loro idee politiche, o almeno non è davvero questo l'elemento che ha provocato la loro decisione di cominciare quel cammino, un cammino che sapevano benissimo potesse essere rischioso, fino all'estremo. In fondo Aylan e la sua famiglia neppure fuggivano in senso stretto: fuggire significa lasciare qualcosa che non ci piace, di cui abbiamo paura o che ci mette in pericolo. Aylan e la sua famiglia si sono messi in cammino perché cercavano un futuro diverso da quello che sarebbe inevitabilmente toccato a loro rimanendo lì. Per questo io credo sia giusto non chiamarli più rifugiati o profughi e definirli invece migranti, perché sono donne e uomini in cammino.
Dieci anni fa ci siamo emozionati per un film intitolato La marcia dei pinguini, ci sembravano eroici quegli animali che attraversavano regioni inospitali per raggiungere finalmente il luogo dove poter riprodursi, ci siamo stupiti di come quei pinguini sapessero esattamente dove dovevano andare, anche se non c'erano mai andati. Noi ci dimentichiamo spesso di essere animali, di far parte di questo mondo come qualunque altro essere vivente e di essere in qualche modo sottoposti alle stesse leggi di natura a cui sono sottoposti gli altri animali. Le donne e gli uomini che lasciano le città e i paesi in cui sono nati e cresciuti, in cui sono nati e morti i loro genitori, lo fanno perché sentono che è arrivato il momento di farlo, perché sentono che per i loro figli non c'è più un futuro possibile in quella terra e ne cercano semplicemente un altro, pur con tutti i rischi che questa ricerca comporta. Le persone che si mettono in cammino sanno benissimo che possono morire in questo viaggio, eppure lo cominciano lo stesso: quindi è qualcosa che noi non possiamo fermare, per quanto tentiamo di alzare barriere, di costruire muri, per quanto diciamo che non li potremo accogliere, che qui non c'è posto per loro; loro ormai sono partiti, sanno dove stanno andando, anche se non ci sono mai andati, e noi non possiamo più farci niente. Possiamo camminare come loro, con loro.
A dire la verità, qualcosa possiamo fare, dobbiamo fare. Come i nostri avi qui nella pianura padana sapevano che l'acqua non poteva essere fermata, ma doveva almeno essere guidata, condotta, irregimentata, affinché producesse meno danni e meno morti, così noi abbiamo il compito storico di gestire le persone che arrivano, che hanno cominciato quel cammino. E dobbiamo farlo adesso, che sono poche, pochissime, rispetto a quello che potrebbe ancora succedere. Dobbiamo organizzare da subito dei corridoi umanitari legali, per stroncare il traffico di esseri umani, per impedire che troppe persone muoiano nel Mediterraneo, nei Balcani o, prima ancora, nel Sahara. Ci sono già delle proposte. Ad esempio il Consiglio italiano per i rifugiati propone due alternative: i migranti potrebbero presentare direttamente la domanda nei paesi di origine - o nei paesi di transito e di prima accoglienza - presso una delle sedi dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati oppure potrebbero far richiedere una sorta di visto umanitario ai loro familiari che risiedono già in Europa. In questo modo tutti loro potrebbero avere un visto legale, per quanto temporaneo, per arrivare in uno dei paesi europei, che li dovrebbero accogliere in base a una ripartizione basata sul reddito pro capite e sulla densità abitativa. Poi occorre avere una legislazione unica in Europa in tema di accoglienza ai migranti. Una realtà tutto sommato piccola come l'Unione europea - guardate un planisfero e vedrete che, per quanto barino le carte e ci sovrastimino, siamo molto piccoli, molto più piccoli degli altri - non può permettersi di avere ventotto legislazioni differenti, per tacere di tutte le varianti ed eccezioni regionali.
Poi, come dicevo, dobbiamo cambiare le nostre teste - e il nostro linguaggio - prima ancora che le nostre leggi. Il diritto è inadeguato perché ad esempio non riconosce quelli che possiamo definire ecomigranti, ossia quelle persone che lasciano le loro terre perché sono sommerse dalle acque o sono ormai essiccate, e più in generale perché ha una visione troppo limitata dei motivi per cui una persona decide di mettersi in cammino.
Inoltre dobbiamo accettare e riconoscere le nostre responsabilità. Aylan era nato in Siria, probabilmente la sua famiglia non avrebbe deciso di lasciare quel paese, se là non ci fosse da quattro anni una guerra civile, una guerra che i governi occidentali hanno in qualche modo contribuito a far scoppiare, se non ci fosse da alcuni decenni una dittatura, che è potuta crescere e svilupparsi negli anni della Guerra fredda, se quel paese non fosse stato una pedina in mano alle potenze coloniali dalla fine del primo conflitto mondiale. Il prossimo anno "festeggeremo" il primo secolo dell'accordo Sykes-Picot, che ha segnato il destino della Siria - e di tutto il Medio oriente - il suo mancato sviluppo democratico, il suo essere una terra contesa dalle forze occidentali e dagli interessi economici che queste rappresentavano e difendevano. Tanti migranti arrivano o transitano dalla Libia e sappiamo bene quali siano le nostre responsabilità in quella terra infelice. Tanti di quelli che arrivano in queste settimane sono eritrei che fuggono dalla dittatura di Isaias Afewerki, un despota con cui in tanti fanno affari e che continua a governare quel paese grazie soprattutto al denaro che gli arriva dalle aziende europee e statunitensi. Uno slogan che sentiamo ripetere sempre è aiutiamoli a casa loro. A parte che molti di loro una casa là non ce l'hanno, o non ce l'hanno più, la prima cosa che dovremmo fare davvero è cambiare la nostra politica estera, smettere di sostenere i peggiori governi, in nome dei nostri presunti interessi, che sono invece gli interessi di pochissimi. Aiutarli in casa loro significa prima di tutto smettere di finanziare le guerre in quei paesi, smettere di far nascere gruppi come l'Isis, smettere di sostenere quei dittatori.
Adesso le grandi multinazionali non hanno neppure più bisogno dei governi e delle cancellerie per gestire i loro affari in quei paesi, sono diventate autonome, il loro potere è ormai ben più globale e ramificato di quello della politica. E naturalmente i loro interessi non combaciano mai con gli interessi di quei popoli, come non combaciano mai con i nostri interessi. Per questo Aylan non è solo un bambino che si è messo in cammino, senza sapere neppure dove stava andando, Aylan è mio figlio, tuo figlio, Aylan è l'ennesima vittima di quel conflitto terribile che ci vede tutti coinvolti, in cui noi dovremmo combattere tutti dalla stessa parte, perché il nemico è sempre quello, il capitale, potente, crudele, che ogni giorno combatte contro di noi, di cui ogni giorno sentiamo la forza sempre più spietata, che ci vuole consumatori e vittime, schiavi e clienti, lavoratori senza diritti e senza cultura. Non basta commuoversi davanti a qual corpo disteso sulla sabbia, dobbiamo avere la consapevolezza che quel bambino morto è nostro figlio e questo ci deve dare la rabbia per combattere contro chi l'ha ucciso. Perché noi sappiamo chi ha provocato la sua morte, chi l'ha voluto sempre più povero, chi l'ha costretto a fare un viaggio che non avrebbe dovuto fare, che non avrebbe voluto fare. Gli animali fanno di tutto per difendere i cuccioli della loro specie, noi uomini invece permettiamo che le forze del capitale uccidano i nostri figli. E le ringraziamo dell'elemosina che ci offrono. E' il momento di dire basta, e possiamo essere in tanti, stanno arrivando in tanti che hanno voglia di dire basta, che vogliono un altro futuro. Per questo la loro lotta è la nostra lotta, il loro futuro è il nostro.

lunedì 7 settembre 2015

Considerazioni libere (404): a proposito del mio sostegno a Syriza...

Capisco che quelli del pd e i loro giornali, a partire da Repubblica, cerchino di presentare come un fallimento l'esperienza di governo di Tsipras in Grecia; fanno il loro gioco e, se serve, sono disposti a mentire, pur di sostenere la loro tesi. Syriza rappresenta quello che loro non sono più e che fanno finta di essere. Forse prima di Syriza qualcuno poteva ancora credere che il pd fosse un partito di centrosinistra, adesso questo imbroglio non è più possibile: e questo a loro rode parecchio. E ovviamente è altrettanto naturale che i padroni e i loro giornali, a partire dal Corriere, si affannino a dire che Tsipras è finito: fanno il loro mestiere e attaccano l'unica forza veramente di sinistra che sia riuscita fino ad ora a governare, pur con mille difficoltà, un paese dell'Unione europea.
Faccio invece più fatica a capire perché una parte di persone di sinistra, anche autorevoli, anche intellettualmente in buona fede, siano così certe che quell'esperienza sia finita e anzi ne siano contente, dal momento che hanno ormai bollato Tsipras come un traditore, come uno che ha rinunciato ai propri ideali, per far rimanere il proprio paese nell'area euro. Per spiegare questo paradosso, al di là dell'atavica incapacità di un pezzo rilevante della sinistra europea - e italiana in particolare - di riconoscere le ragioni della politica, in nome di una purezza ideologica al limite dell'onanismo, c'è qualcosa che attiene alla velocità dell'informazione, alla voracità con cui le idee si consumano, all'ansia di capire tutto e subito. La politica è un processo, spesso complicato, quasi mai lineare, che molto difficilmente raggiunge i risultati che si prefigge nello spazio di una notte. Ho l'impressione che tanti che hanno gioito per la vittoria elettorale di Syriza abbiano ingenuamente creduto che bastasse quel voto, o la vittoria successiva del referendum, per cambiare le cose, e che quel voto avrebbe magicamente cambiato la situazione greca ed europea. Purtroppo non funziona così: le elezioni non sono la partita finale di un torneo di calcio, in cui il vincitore alza la coppa, sotto lo sguardo attonito dello sconfitto. La politica è una cosa un po' più complicata, che richiede tempo - oltre che intelligenza - e ora pare manchino l'uno e l'altra.
Tsipras, e chi ha con lui condiviso le scelte dolorose dello scorso luglio, credo sia dovuto partire dall'analisi realistica dei rapporti di forza tra i soggetti in campo: e certamente la Grecia era - ed è - assai più debole dei propri avversari. Spero mi permetterete quella che può sembrare una digressione, ma che credo utile per capire le cose; almeno per come le ho capite io. Molti adesso ci spiegano che la decisione di Berlinguer e del Pci di avviare quel processo che si chiamò "compromesso storico" - e che portò alla nascita del governo della "non sfiducia" - sia stato un errore, il più grave di quel politico, più rimpianto che studiato. Non so se sia stato un errore, certamente in quella fase Berlinguer fu sconfitto, duramente sconfitto, ma io non me la sento di dire che sbagliò, perché quello era il contesto storico in cui quegli uomini erano chiamati a decidere. Gli avversari del Pci erano disposti a tutto - e non erano solo minacce, visto che uccisero Moro - e di fronte a un nemico così potente e così spietato non è facile reagire, con le sole armi della politica. Il nemico che si è trovato di fronte Tsipras non è meno spietato di quello che in quegli anni uccise Gregoris Lambrakis, Salvador Allende, Aldo Moro e tanti altri, che mise le bombe, uccidendo tante persone innocenti, a Milano, a Brescia, a Bologna. In quella notte a Bruxelles non sappiamo quali minacce gli sgherri del capitale abbiano fatto - implicitamente ed esplicitamente - a Tsipras e ai negoziatori greci, ma possiamo immaginare che nessuna opzione sia stata esclusa. Non possiamo dimenticare che in Grecia le forze del capitale controllano la teppaglia fascista di Alba dorata, che è ben ramificata all'interno delle forze dell'ordine; per ora li stanno tenendo al guinzaglio, ma evidentemente sono pronti a scatenarli. La Grecia come potrebbe sopportare uno scontro interno di queste dimensioni? Quale conseguenze avrebbe per un popolo già stremato dalla crisi economica? Tsipras ha avuto paura? Forse sì, ma credo ne avrebbero avuta anche quei "rivoluzionari" salottieri che discettano della crisi greca dietro le loro tastiere e con il culo ben al caldo. E per fortuna là c'era Tsipras e non c'erano loro.
Come avrete capito io non mi sono pentito di aver sostenuto Syriza e Tsipras in questi mesi e li sosterrò ancora, spero che vincano di nuovo le elezioni e che possa nascere un nuovo governo di sinistra in Grecia. Io credo che non sia finita quell'esperienza, ma anzi stia cominciando adesso la parte più interessante. Syriza ha due grandi meriti. Il primo, come ho detto, è di avere svelato il bluff del centrosinistra europeo. Il traditore non è Tsipras, i traditori sono Schultz, Hollande, i socialisti europei - non dico renzi, perché perfino un traditore ha una sua grandezza tragica, mentre al nostro è riservata la parte del buffone - i traditori sono quelli che hanno offerto i loro voti al capitale, in cambio di un'elemosina.
E la vittoria di Syriza è proprio quella che molti indicano come una sconfitta: l'aver riportato al voto i greci. Le forze del capitale stanno attaccando contemporaneamente la democrazia e le conquiste sociali del movimento operaio - lo vediamo bene in Italia, dove il governo ha abolito lo Statuto dei lavoratori e vuole cambiare le istituzioni in senso autoritario - e quindi la decisione di Tsipras di rimettere le decisioni fondamentali al popolo, con il referendum prima e con le prossime elezioni, è qualcosa di eversivo per chi non ama la democrazia. Ai suoi colleghi europei, a questi servi del capitale, Tsipras sta dando una lezione di dignità e di alta politica. Tsipras probabilmente avrebbe trovato una maggioranza parlamentare per continuare a governare la Grecia, sarebbe riuscito a raccattare i voti di qualche "responsabile" - come fa renzi con Verdini e i suoi complici - ma ha deciso di chiedere un nuovo mandato agli elettori. E' un rischio? Forse, ma se vincerà Syriza quel governo sarà ancora più forte, in una campagna d'autunno che si presenta difficilissima. Per la Grecia e per l'Europa.
A quelli che non sono mai contenti vorrei chiedere se pensano che sia meglio affrontare i prossimi mesi con un governo guidato da Alexis Tsipras o da un qualche tecnico prono alle decisioni della Bce. Io credo che i greci capiranno che, quando arriveranno i tecnici della Troika, sarà meglio che ad incontrarli ci siano gli uomini di Syriza piuttosto che quelli di Nuova democrazia. Nelle prossime settimane in Europa dovremo finalmente avviare un ragionamento sulla que­stione del debito, peraltro un tema che non sarebbe mai stato affrontato se non ci fosse stata la vittoria di Syriza e il referendum greco; e questa discussione a chi la vogliamo lasciare, solo alla Merkel e a Schauble? Io preferisco ci sia anche Tsipras a quel tavolo. I prossimi mesi saranno decisivi per la Grecia e per l'Europa, perché c'è finalmente una possibilità, dopo molti anni, di allar­gare il fronte dell'opposizione al finanzcapitalismo, attraverso una poli­tica intel­li­gente, prag­ma­tica, effi­cace. Podemos può avere un risultato importante in Spagna, in Gran Bretagna Jeremy Corbin ha raccolto attorno a sé un movimento più vasto di quello che si poteva immaginare. In Europa una sinistra c'è e deve avere un punto di riferimento in Grecia: ne abbiamo bisogno tutti. Abbiamo bisogno di una sinistra che conosca la politica, ne capisca i tempi e le regole, che abbia il coraggio di affrontare la fatica e il rischio del governo, che non rinunci al dialogo con i cittadini. Finora Syriza ha saputo farlo, per questo io la voterei, per questo io spero possa nascere una sinistra così in Italia.